Ogni momento storico è
diverso. Non si entra mai nello stesso fiume due volte. Per questo
l'Afghanistan non è il Vietnam. (Barack Obama, 15 settembre 2009)
Talvolta il carattere ossessivo di certe negazioni vale più di
ogni discussione: è il caso, ad esempio, della ricorrente
contestazione del paragone Afghanistan - Vietnam che anima le scene
politiche statunitensi.
Ogni guerra ha, indubbiamente, la sua storia, ma quella iniziata in
Afghanistan ben otto anni fa non può non evocare l'incubo della
disfatta politico-militare Usa in Indocina degli anni Sessanta -
Settanta, anche perché non mancano le analogie:
dall'inadeguatezza dell'esercito nazionale alle difficoltà
logistiche dell'apparato Usa, dalle insidie della guerriglia al ruolo
dell'informazione (1).
Indicativo l'aspro dibattito causato dalla pubblicazione di una foto
divulgata dall'Associated Press che mostrava un giovane caporale degli
Us-Marines ferito mortalmente nel corso di un combattimento
nell'Helmand (2).
Un'immagine neanche particolarmente splatter, ma sufficiente a
scatenare le ire del ministro della difesa Robert Gates di certo non
mosso da sensibilità etiche, visto e considerato che in questi
anni si è dimostrato tra i più fanatici bellicisti in
circolazione al Pentagono.
Mostrare la morte dei ''nostri ragazzi'' non conviene mai, per gli
effetti negativi sia sul morale delle truppe che sul consenso dei
civili, tanto è vero che per anni il governo Bush aveva vietato
la diffusione delle foto delle bare, immancabilmente coperte dalla
bandiera stars and strips, con i resti dei caduti in Afghanistan e Iraq.
Lo spettacolo dei corpi straziati dei tanti civili afgani - bambini
compresi - bombardati dagli aerei Usa e Nato, così come avvenuto
lo scorso 4 settembre nella provincia di Kunduz (3), oppure
l'esibizione macabra dei cadaveri dei presunti "insorgenti" non
suscitano invece altrettanto sdegno democratico, quasi si trattasse di
un terrorismo pedagogico verso gli afgani non ancora sottomessi alla
civiltà dei liberatori.
Ma, nonostante questi tentativi di celare e piegare la realtà,
la guerra in Afghanistan è sempre più sinonimo di
logoramento e disfatta per gli esportatori armati di democrazia.
La politica dei bombardamenti nella sua micidiale quanto indiscriminata
logica sembra produrre più combattenti anti-Usa di quanto possa
fare il proselitismo dei talebani: nelle incursioni aeree persino le
truppe regolari di Kabul non vengono risparmiate degli "alleati"(4).
Ad ammettere che, pure dopo l'arrivo di Obama alla Casa Bianca, "Non
c'è niente di nuovo (…) la strategia Nato è viziata dagli
stessi errori di dieci anni fa" è stato anche Lakhdar Brahimi,
già inviato speciale dell'Onu a capo dell'United Nations
Assistant Mission in Afghanistan.
Così come dovettero rendersi conto i generali dell'Urss negli
anni Ottanta, adesso i vertici militari Usa-Nato constatano che i circa
9.000 soldati di Enduring Freedom più i circa 64.500
dell'Isaf-Nato non sono sufficienti a sostenere i 122.000 uomini delle
forze governative afgane nel controllare il territorio e debellare la
guerriglia (5).
In un recentissimo studio curato e reso noto dall'International Council
on Security and Development circa il 97% del territorio afgano vedrebbe
una presenza permanente o sostanziale del nemico talebano (6). Un
risultato davvero controproducente se si considera la sostanziale
estraneità dei talebani, giunti dalle madrasse pakistane, al
tradizionale sistema clanico afgano anche durante il loro regime. Nel
luglio passato, nel corso dell'offensiva alleata, erano stati il capo
degli stati maggiori statunitensi, Mike Mullen, e il comandante unico
delle forze Usa-Nato in Afghanistan, Stanley McChrystal, a riconoscere
il rafforzamento della guerriglia filo-talebana (7).
Analoga la considerazione di David Barno, l'ex comandante della
coalizione: "La perdita di vite umane sarà enorme se continuiamo
a combattere l'insurrezione"(8).
Anche un autorevole consulente del comando Usa in Afghanistan,
Kimberley Kagan, ha sottolineato la necessità di rivedere al
più presto l'intera strategia che sino ad oggi si è
dimostrata errata ed inadeguata "perché, come succede spesso in
questo tipo di guerra, se non stai vincendo vuol dire che stai
perdendo"(9).
Le recenti elezioni presidenziali, avvenute tra attentati, brogli e
astensionismo (con una percentuale di votanti accreditata al 38,7),
confermando Karzai come capo del governo, hanno visto l'imbalsamazione
politica di un regime impopolare, corrotto, asservito agli Stati Uniti
e intimamente colluso con i padroni dell'oppio: infatti, non solo
è notorio il coinvolgimento del fratello di Karzai nel
narcotraffico, ma anche del suo vice Qasim Fahim (10). Durante la
consultazione elettorale si è registrato un ulteriore
abbassamento della partecipazione al voto delle donne e quelle che si
sono recate ai seggi loro riservati erano perlopiù coperte dal
burka, rendendo evidente quanto fosse fuorviante il propagandato
obiettivo di liberare le donne dall'oppressione talebana. Da un lato la
legislazione vigente mantiene l'impostazione sessista della sharia
negando alle donne un effettivo diritto al divorzio, dall'altro
soprattutto nelle aree tribali il suicidio continua ad essere per
centinaia di donne l'unica uscita possibile dall'oppressione
patriarcale.
Nel corso dell'estate, anche le forze italiane (ufficialmente 2.795
unità, ma in realtà arrivati ad oltre 3.200 (11) hanno
dovuto fare i conti con la guerriglia, subendo attacchi
pressoché quotidiani ogni volta che si sono proiettate sul
territorio di competenza. Per una sorta di legge del contrappasso, si
è avuta ulteriore conferma dell'utilizzo negli attentati contro
i convogli dei contingenti Isaf di vecchie mine italiane TC-6,
fabbricate dalla Tecnovar di Bari e consegnate in grande
quantità negli anni Ottanta dai servizi Usa ai mujaheddin afgani
che allora combattevano gli invasori russi (12).
Da tempo era risaputa la presenza di ordigni made in Italy (tra i quali
le mine SH-55 prodotte dalla Valsella Meccanotecnica) così come
erano noti i loro effetti letali sui civili afgani, decimati e mutilati
senza discrimine di età o sesso, quale permanente ricaduta
dell'export tricolore; ma questa dimensione autocritica non sfiora
neppure i signori della guerra italiana. Anche dopo l'attentato di
Kabul del 17 settembre, per il ministro La Russa nessun dubbio sul
fatto che gli ''infami'' e i ''vigliacchi'' che colpiscono ''nella
maniera più subdola'' stanno tutti dall'altra parte, mentre
dalla voce della ministra Meloni apprendiamo che i parà della
Folgore sono animati da una "scelta d'amore" e rappresentano un
"meraviglioso spaccato di gioventù italiana, ennesimo esempio di
una generazione che sa affrontare il rischio più alto per
salvare vite innocenti e portare libertà e felicità a
popoli lontani"(13).
Espedienti retorici che rivoltano il senso dell'umanità.
U.F.
1 Cfr. l'articolo L'Afghanistan e lo spettro di un altro Vietnam, sulla rivista Affari Esteri n. 162, aprile 2009.
2 Cfr. l'articolo Il soldato morente e l'ira del Pentagono, sul Corriere della Sera del 5 settembre '09.
3 Cfr. l'articolo Gli aerei Nato uccidono decine di civili, su La Stampa del 5 settembre '09.
4 Cfr. l'articolo Nove soldati afghani vittime del «fuoco amico», su L'Unità del 23 ottobre '08.
5 Cfr. dati tratti dal sito dell'Isaf (http://www.nato.int/isaf/docu/epub/pdf/placemat.pdf)
6 Cfr. l'articolo Afghanistan, i talebani controllano il 97 per cento
del territorio, in http://it.peacereporter.net/ (11
settembre '09).
7 Cfr. l'articolo I generali Usa: resistenza più forte del previsto, su Il Sole-24 ore del 17 luglio '09.
8 Cfr. l'articolo L'Afghanistan e un vicinato rumoroso, nella rivista Acque & Terre, n. 2/2008.
9 Cfr. l'articolo Perché i Talebani stanno vincendo (per adesso), su Il Sole-24 Ore del 18 agosto '09.
10 Cfr. l'articolo Il labirinto di Karzai, in Internazionale del 21 agosto '09.
11 Cfr. la scheda La missione italiana in Afghanistan, sul sito de Il Sole-24 Ore (17 settembre '09).
12 Cfr. l'articolo "I taleban impiegano vecchie mine italiane", su La Stampa del 5 settembre '09.
13 Cfr. Adnkronos del 17 settembre '09.