Mentre al cinema il film di plastica di Giuseppe Tornatore – un
lungo spot pubblicitario sull'Italia dei buoni sentimenti, chiamato
"Baarìa" – è destinato a fare incetta di successi e soldi
al botteghino, nel Paese reale – quello dei luoghi di lavoro, dei
quartieri, del sociale – la situazione economica morde e lascia il
segno su sentimenti, affetti, emozioni, in cui la bontà
l'è ormai morta da un pezzo. A farne le spese (come sempre) le
fasce sociali più esposte a facili ricatti occupazionali,
così come a obbrobriose leggi razziali.
È un film già visto, proiettato nel corso della storia
ogni qual volta la situazione economica raggiunge gradi di torsione
critica da preludere a scenari di guerra interna ed internazionale. Non
a caso le parole d'ordine che ripetutamente vengono diffuse dai
megafoni mediatici ribadiscono l'uscita – lenta, graduale, ma
ineluttabile – dalla crisi economica e la necessità di maggiore
sicurezza nei confronti di una tensione sociale non ancora sul punto di
esplodere, ma sicuramente non più credula, né tantomeno
remissiva.
Lo provano i fatti che accadono nelle piazze, sui tetti e sulle gru di
questo Bel Paese. Dal settore pubblico al settore privato il costante
aumento dei lavoratori disoccupati, cassaintegrati,
non-più-precari, apre scenari giornalieri di
conflittualità, le cui forme di protesta estreme e spettacolari
denunciano non solo la gravità cocente delle difficoltà
economico-produttive, ma anche l'incapacità di forme e metodi di
conflitto sociale in grado di superare la crisi della
rappresentatività sindacale, sia questa istituzionale, sia
questa di base; non perché – le une, come le altre – non siano
presenti e pungolate dagli avvenimenti che quasi sempre le precedono,
quanto perché impossibilitate ad uscire dalla spirale difensiva
che le obbliga a chiudersi a riccio e a chiudere qualsiasi spiraglio di
lotta antagonista e alternativa.
Del resto la presenza nel sociale di una forza-lavoro ancor più
ricattata a seguito di leggi che si avvalgono del reato di
clandestinità per sottomettere ed impaurire centinaia di
migliaia di persone, la cui unica colpa è di essere in Italia,
rende facile il gioco a chi ha interesse a gestire e controllare una
situazione politico-sociale il cui unico collante (a destra e a
sinistra) è l'emergenza sicurezza. Emergenza che se assume
connotati razzisti nei confronti degli immigrati (al punto da ricevere
perfino le reprimenda da parte della Chiesa e delle Istituzioni
internazionali), acquista una dimensione più morbida e quasi
"neutra" di fronte alle questioni "emergenziali": dal terremoto in
Abruzzo, alla malasanità in Puglia, alle infiltrazioni
camorriste in Campania, al disfacimento dell'istruzione e della ricerca
in tutte le regioni italiane.
I soldati sono per strada, le carceri (e le loro succursali: i Cie)
sono piene, e i media – per lo più – tacciono, nonostante
scalpitino per la mancanza di libertà (la loro!) in questo
Paese. Già in passato abbiamo scritto sull'anormalità di
questo paese normale, così tanto prossimo all'Afganistan da
dubitare che i confini geografico-politici (ma soprattutto
giuridico-sociali) siano ancora la Francia, la Svizzera, l'Austria e la
Slovenia. Di questo crudele e baro destino, in molti puntano l'indice
limitandosi a guardare il dito/Berlusconi, contenti nel fargli domande
come se le risposte a queste fossero il responso sibillino delle
disgrazie italiane. Non è questione di stile se il contenuto non
cambia! Certo: si può deprecarne lo squallore, il decadimento e
la sciatteria, ma non è il "bon ton" di una pseudo sinistra
corrotta e collusa con i poteri forti che potrà aprire minimi
spiragli su una maglia di ferro che ingabbia ed opprime ogni tentativo
di gridare fuori dal coro le vere ingiustizie, le vere
illibertà, le vere angherie.
Da tempo è in atto uno scollamento tra il Paese reale e il Paese
legale, che la crisi economica ha ancor più marcato, e che – a
fatica – i "buoni sentimenti" degli italiani per i caduti per la pace
contro il terrorismo riescono a cucire. A fatica, e soprattutto non
ancora per molto. La sicurezza, la pace, il terrorismo, sono sinonimi
di una sola parola, guerra, che – prima o poi – ci si presterà a
combattere con armi e strumenti che nessun esercito, nessuno stato,
nessun sistema economico potrà fornire. Soltanto la
solidarietà fra gli sfruttati, nell'afflato internazionalista,
saprà condurla a buon fine. E non certo quello di un film alla
Tornatore. Ça irà!
gianfranco marelli