Umanità Nova, n.34 del 4 ottobre 2009, anno 89

Finale per un film già visto


Mentre al cinema il film di plastica di Giuseppe Tornatore – un lungo spot pubblicitario sull'Italia dei buoni sentimenti, chiamato "Baarìa" – è destinato a fare incetta di successi e soldi al botteghino, nel Paese reale – quello dei luoghi di lavoro, dei quartieri, del sociale – la situazione economica morde e lascia il segno su sentimenti, affetti, emozioni, in cui la bontà l'è ormai morta da un pezzo. A farne le spese (come sempre) le fasce sociali più esposte a facili ricatti occupazionali, così come a obbrobriose leggi razziali.
È un film già visto, proiettato nel corso della storia ogni qual volta la situazione economica raggiunge gradi di torsione critica da preludere a scenari di guerra interna ed internazionale. Non a caso le parole d'ordine che ripetutamente vengono diffuse dai megafoni mediatici ribadiscono l'uscita – lenta, graduale, ma ineluttabile – dalla crisi economica e la necessità di maggiore sicurezza nei confronti di una tensione sociale non ancora sul punto di esplodere, ma sicuramente non più credula, né tantomeno remissiva.
Lo provano i fatti che accadono nelle piazze, sui tetti e sulle gru di questo Bel Paese. Dal settore pubblico al settore privato il costante aumento dei lavoratori disoccupati, cassaintegrati, non-più-precari, apre scenari giornalieri di conflittualità, le cui forme di protesta estreme e spettacolari denunciano non solo la gravità cocente delle difficoltà economico-produttive, ma anche l'incapacità di forme e metodi di conflitto sociale in grado di superare la crisi della rappresentatività sindacale, sia questa istituzionale, sia questa di base; non perché – le une, come le altre – non siano presenti e pungolate dagli avvenimenti che quasi sempre le precedono, quanto perché impossibilitate ad uscire dalla spirale difensiva che le obbliga a chiudersi a riccio e a chiudere qualsiasi spiraglio di lotta antagonista e alternativa.
Del resto la presenza nel sociale di una forza-lavoro ancor più ricattata a seguito di leggi che si avvalgono del reato di clandestinità per sottomettere ed impaurire centinaia di migliaia di persone, la cui unica colpa è di essere in Italia, rende facile il gioco a chi ha interesse a gestire e controllare una situazione politico-sociale il cui unico collante (a destra e a sinistra) è l'emergenza sicurezza. Emergenza che se assume connotati razzisti nei confronti degli immigrati (al punto da ricevere perfino le reprimenda da parte della Chiesa e delle Istituzioni internazionali), acquista una dimensione più morbida e quasi "neutra" di fronte alle questioni "emergenziali": dal terremoto in Abruzzo, alla malasanità in Puglia, alle infiltrazioni camorriste in Campania, al disfacimento dell'istruzione e della ricerca in tutte le regioni italiane.
I soldati sono per strada, le carceri (e le loro succursali: i Cie) sono piene, e i media – per lo più – tacciono, nonostante scalpitino per la mancanza di libertà (la loro!) in questo Paese. Già in passato abbiamo scritto sull'anormalità di questo paese normale, così tanto prossimo all'Afganistan da dubitare che i confini geografico-politici (ma soprattutto giuridico-sociali) siano ancora la Francia, la Svizzera, l'Austria e la Slovenia. Di questo crudele e baro destino, in molti puntano l'indice limitandosi a guardare il dito/Berlusconi, contenti nel fargli domande come se le risposte a queste fossero il responso sibillino delle disgrazie italiane. Non è questione di stile se il contenuto non cambia! Certo: si può deprecarne lo squallore, il decadimento e la sciatteria, ma non è il "bon ton" di una pseudo sinistra corrotta e collusa con i poteri forti che potrà aprire minimi spiragli su una maglia di ferro che ingabbia ed opprime ogni tentativo di gridare fuori dal coro le vere ingiustizie, le vere illibertà, le vere angherie.
Da tempo è in atto uno scollamento tra il Paese reale e il Paese legale, che la crisi economica ha ancor più marcato, e che – a fatica – i "buoni sentimenti" degli italiani per i caduti per la pace contro il terrorismo riescono a cucire. A fatica, e soprattutto non ancora per molto. La sicurezza, la pace, il terrorismo, sono sinonimi di una sola parola, guerra, che – prima o poi – ci si presterà a combattere con armi e strumenti che nessun esercito, nessuno stato, nessun sistema economico potrà fornire. Soltanto la solidarietà fra gli sfruttati, nell'afflato internazionalista, saprà condurla a buon fine. E non certo quello di un film alla Tornatore. Ça irà!

gianfranco marelli

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