Umanità Nova, n.38 del 1 novembre 2009, anno 89

Afghanistan: otto anni di guerra


Con il presente articolo diamo inizio ad una serie di contributi relativi all'antimilitarismo anarchico presentati al meeting antimilitarista promosso dalla Federazione Anarchica Torinese; per motivi di spazio l'articolo continuerà nel prossimo numero.

L'intervento militare italiano in Afghanistan, in questi ultimi otto anni, ha conosciuto diverse fasi; l'intento delle note seguenti è di ripercorrerle criticamente sulla base delle poche, e sovente non univoche, informazioni disponibili.
Una premessa necessaria è il riferimento alle troppe volte citato art. 11 della Costituzione italiana, evocato in chiave pacifista per la prima parte che, come è noto, recita "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". La seconda parte, in realtà, già lascia spazio ad altre interpretazioni, dato che per assicurare "la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo". Al momento in cui fu stilato tale testo l'allusione era evidentemente alle Nazioni Unite, ma è innegabile che negli ultimi decenni un'organizzazione militare come la NATO e una struttura politico-economica come l'Unione Europea hanno via via assunto una legittimazione analoga o sussidiaria all'ONU che, peraltro, ha conosciuto un'accresciuta subalternità nei confronti degli Stati Uniti.
Indicativo di questa disinvolta equiparazione è quanto a suo tempo affermato da D'Alema: "la presenza militare dell'Italia in Afghanistan si iscrive fin dall'inizio nel quadro specifico delle risoluzioni ONU e di iniziative europee e della NATO" (Agi, 14.06.06).
Inoltre, se si prende in considerazione il dettato costituzionale, va ricordato pure l'art. 52 che stabilisce come "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino".
Proprio questa affermazione, attraverso un allargamento del concetto di patria, continua ad essere sfruttata politicamente per motivare le missioni di guerra oltre i confini nazionali. Infatti, così come negli Stati Uniti sia l'amministrazione Bush che quella di Obama hanno sostenuto la necessità di combattere la guerra in Afghanistan per tenere lontani i terroristi dalla nazione, anche in Italia analoga argomentazione è stata espressa dal governo Prodi come da quello Berlusconi. Ad esempio, l'ex-ministro della Difesa A. Parisi affermò: "Noi sappiamo che i confini della patria, della repubblica non coincidono con quelli che apprendiamo nella storia e nella geografia, ma coincidono sempre più col mondo intero, e di questo dobbiamo farci carico" (Ansa, 24.09.2007). Di recente il ministro della Difesa La Russa, in un discorso dedicato ai militari, italiani ha analogamente sostenuto che questi ''fanno ogni giorno qualcosa, non solo per ricostruire, ma per la nostra libertà e per tenere lontani i pericoli della guerra e del terrorismo da casa nostra'' (Asca, 21.09.2009).
L'intervento italiano prende le mosse dopo l'Undici Settembre, a seguito della guerra globale al terrorismo dichiarata dagli Stati Uniti: guerra che come primo atto vede l'aggressione all'Afghanistan ufficialmente finalizzata a liquidare il regime talebano.
Il 9 ottobre 2001 la Camera dei deputati approva il sostegno alle iniziative anche militari degli USA, in applicazione dell'art. 5 del Trattato NATO, delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza ONU e delle decisioni del Consiglio europeo.
Il 23 ottobre seguente, il ministro Martino, davanti alle Camere, preannuncia il possibile impegno italiano nell'operazione Enduring Freedom di una "componente terrestre" che sarebbe entrata in scena "in una fase successiva", accennando ai piani per l'invio di elicotteri d'attacco Mangusta, di un reggimento blindato, di compagnie Genio e Nbc, nonché carabinieri del Tuscania "con compiti di scorta armata e supporto alle organizzazioni umanitarie" (L'Unità, 04.02.2003).
Dopo il voto pressoché unanime del Parlamento italiano a favore della partecipazione - approvata operativamente dalla Camera il 7 novembre 2001 - il 18 novembre salpava da Taranto una squadra navale composta dalla portaerei leggera Garibaldi, da due fregate e da una nave appoggio, a bordo della quale era imbarcato anche un nucleo d'incursori della Marina destinati ad entrare in azione a fianco delle forze speciali Usa, svolgendo ruoli bellici tutt'ora imprecisati.
Parallelamente, nel gennaio 2002, iniziava la missione ISAF - International Security Assistance Force - autorizzata con formale mandato ONU (Risoluzione n. 1386 del 20.12.2001) col compito di mantenere la sicurezza in Kabul e nelle aree limitrofe, a tutela dell'Autorità nazionale afgana insediatasi il 22 dicembre 2001. In tale contesto s'inserisce la missione italiana denominata Italfor-Kabul con base nella capitale afgana presso una vecchia caserma sovietica ribattezzata Camp Invicta. L'intervento viene ratificato dal Parlamento l'8 novembre 2001 con due risoluzioni convergenti presentate da Governo e opposizione. Il suo compito è inizialmente il presidio della città, la difesa delle strutture economiche e dei palazzi istituzionali, nonché l'addestramento e l'affiancamento delle forze dell'ordine afgane. Infatti, nei primi due anni di attività, l'ISAF non opera fuori da Kabul, ad eccezione della vigilanza prestata presso la base aerea Usa di Bagram.
Questo primo dislocamento, completato nel febbraio, riguardava un numero imprecisato di militari (324 secondo il Corriere della Sera al 30.10.02; 450 secondo la Repubblica dell'8.06.03). Considerando le poche informazioni disponibili sarebbero stati soltanto circa 400, ma da una notizia per molti aspetti paradossale, resa nota dallo stesso Ministero della Difesa, è intuibile che il personale italiano, militare e civile, distaccato a Kabul era ben più consistente.
Infatti, tra gli eventi menzionati in quel periodo compare la visita, nell'aprile 2002, in occasione della pasqua, della signora Mariapia Fanfani, presidente dell'Associazione "Sempre insieme per la pace", che recò in dono al personale italiano 1.450 copie del libro "Una vita, due vite" ed altrettante colombe pasquali offerte dalla Fondazione "Luigi Berlusconi".
La partecipazione italiana all'occupazione militare ha compreso anche la "costruzione o riabilitazione di infrastrutture: tribunali, uffici, prigioni" a cura di un "Ufficio italiano giustizia", costituito nel 2003, al quale si deve pure la riattivazione di carceri a Kabul quali il Detention Center e il Women Detention Center, nonché quello speciale di Pol-i-Charkhi a pochi chilometri dalla capitale (Il Manifesto, 30.3.07).
Per un impegno bellico più rilevante delle truppe italiane nel teatro afgano bisognerà attendere il marzo 2003 quando, di fronte all'evidenza di una guerra tutt'altro che fulminea, anche reparti italiani agli ordini dei comandi USA iniziano ad operare in piena zona di guerra.
Dopo un ciclo di esercitazioni sul Piccolo San Bernardo nell'ottobre 2002, il primo distaccamento alpino (circa un centinaio) parte da L'Aquila il 31 gennaio 2003, tra discorsi ufficiali e contestazioni di piazza. Il materiale veniva quindi trasferito con 20 voli di 2 Ilyushin russi in affitto.
Il contingente denominato Task Force Nibbio comprendente un migliaio di unità, in prevalenza truppe alpine oltre ad aliquote di altri reparti specializzati, viene dislocato a Khost (800) nella ex base statunitense "Salerno" e presso la base di Bagram (200), dotato anche di armi pesanti quali mortai da 120 mm, necessari per le funzioni di controguerriglia e di presidio attivo del territorio.
La modalità "combat" del contingente italiano risultano confermate dal comando di Enduring Freedom per bocca dell'ammiraglio James Robb, del colonnello Roger King e del maggiore John Hansen; ma appena i giornalisti riportano la notizia, il ministro della Difesa non perse tempo a smentire sostenendo che si trattava di una "missione di pace".
Neanche un mese dopo esce un volume propagandistico dal titolo "Alpini. Dalle Alpi all'Afghanistan", con prefazione dello stesso Martino che afferma esattamente il contrario: "Questa non è la solita missione di interposizione e di peace keeping, è una presenza che comporta la probabilità di veri e propri combattimenti".
Infatti, già a pochi giorni dall'arrivo, il 18 marzo, un razzo da 107 mm veniva lanciato contro il campo dei soldati italiani che rispondono al fuoco. Nonostante la copertura militare dell'informazione, nei mesi seguenti s'apprendeva che le forze speciali italiane avevano preso parte a varie operazioni offensive.
La partecipazione italiana a Enduring Freedom si è protratta sino al dicembre 2006, anche se la parte più consistente svolta dall'Esercito con il contingente "Nibbio" era già terminata nel settembre 2003. Da quel momento in poi sarebbe invece aumentato l'impegno nell'ambito della missione ISAF (dall'11 agosto 2003 passata sotto comando NATO) a Kabul e a Herat, mentre l'ONU autorizzava l'estensione del mandato di ISAF al di fuori di Kabul e dei suoi dintorni (Risoluzione n. 1510 del 13.10.2003), proiettandolo in zone tutt'altro che "bonificate".
Si era, quindi, con tutta evidenza di fronte ad uno stravolgimento dei compiti iniziali, in modo tale da trasformare l'ISAF in missione di guerra, confondendosi con Enduring Freedom; senza peraltro alcun passaggio parlamentare.
In tutti questi anni, si è quindi assistito ad un continuo balletto di cifre attorno al numero effettivo dei militari italiani presenti in Afghanistan e sulla prevista durata dell'intervento militare tricolore. I primi, ovviamente, a fornire dati infondati, reticenti o contraddittori sono stati i diversi ministeri della Difesa, indipendentemente dal governo in carica.
Qualche esempio merita farlo.
Il ministro A. Martino, durante il precedente governo Berlusconi, nel giugno 2003 ebbe a dichiarare: "riteniamo concluso il nostro impegno: posso assicurare che il contingente italiano quando vedrà scadere il suo mandato il prossimo 15 settembre, non verrà prorogato […] La missione in Afghanistan è la più pericolosa che l'esercito italiano abbia affrontato dai tempi della Seconda Guerra Mondiale" (la Repubblica, 20.6.03). Ma, due anni dopo, il medesimo ammetteva invece che "Dobbiamo essere realistici, il nostro lavoro potrà durare a lungo…forse un altro decennio" (la Repubblica, 21.6.05).
Per quanto riguarda invece il totale dei soldati italiani in Afghanistan, basti ricordare come nel febbraio 2008 i dati ufficiali forniti dal ministero della Difesa (2.370 effettivi) furono smentiti da quelli contenuti in un documento ufficiale della stessa ISAF-NATO (2.880).
Comunque, ragionevolmente, si può affermare che durante il precedente governo Berlusconi (11 giugno 2001 - 17 maggio 2006) in una prima fase furono impegnati sino a 1.600 effettivi con Enduring Freedom e 450 unità con l'ISAF a Kabul. Successivamente, con il passaggio delle forze italiane alla missione ISAF-NATO e il ridislocamento a Kabul e a Herat la loro consistenza si è attestata attorno a circa 1.850 unità (cifra pressoché coincidente fornita sia dal ministero che da vari organi di stampa tra gennaio e giugno 2006).
Con il governo Prodi (17 maggio 2006 - 8 maggio 2008) si assistette ad un vero spostamento di truppe, mentre il ministro della Difesa Arturo Parisi sosteneva la scellerata unificazione delle due missioni, ISAF e Enduring Freedom. D'altronde nelle 281 pagine del programma di governo del centrosinistra l'Afghanistan non risultava neanche menzionato.
Infatti, come previsto, veniva ritirato il contingente italiano in Irak (Antica Babilonia) e parallelamente, secondo lo schema del governo Zapatero, s'aumentava il numero dei militari in Afghanistan, tanto che al luglio 2006, si arrivano a contare 2.388 militari, di cui 1.938 in ambito ISAF, oltre a residuali 380 con Enduring Freedom e 70 con la missione navale nel Mediterraneo Active Endeavour (L'Unità del 22.7.06 e rivista "Affari Esteri", ottobre 2006). L'incremento era evidente e smentiva clamorosamente quanto aveva annunciato il capogruppo al Senato del Prc, Giovanni Russo Spena: "Credo che il numero massimo di militari italiani sarà di 1800".
Al termine del governo Prodi, si toccò quindi il record di 2.880 effettivi, secondo il già citato rapporto ISAF-NATO.
Come se non bastasse, il governo di centrosinistra attuava in silenzio un altro progetto già anticipato nel febbraio 2006 dalla rivista "Analisi Difesa", ossia l'invio di reparti speciali con funzioni specificatamente "combat".
In merito a questa decisione andrà in scena un'autentica farsa.

u.f.

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