Con il presente articolo diamo
inizio ad una serie di contributi relativi all'antimilitarismo
anarchico presentati al meeting antimilitarista promosso dalla
Federazione Anarchica Torinese; per motivi di spazio l'articolo
continuerà nel prossimo numero.
L'intervento militare italiano in Afghanistan, in questi ultimi otto
anni, ha conosciuto diverse fasi; l'intento delle note seguenti
è di ripercorrerle criticamente sulla base delle poche, e
sovente non univoche, informazioni disponibili.
Una premessa necessaria è il riferimento alle troppe volte
citato art. 11 della Costituzione italiana, evocato in chiave pacifista
per la prima parte che, come è noto, recita "L'Italia ripudia la
guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli
e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". La
seconda parte, in realtà, già lascia spazio ad altre
interpretazioni, dato che per assicurare "la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte
a tale scopo". Al momento in cui fu stilato tale testo l'allusione era
evidentemente alle Nazioni Unite, ma è innegabile che negli
ultimi decenni un'organizzazione militare come la NATO e una struttura
politico-economica come l'Unione Europea hanno via via assunto una
legittimazione analoga o sussidiaria all'ONU che, peraltro, ha
conosciuto un'accresciuta subalternità nei confronti degli Stati
Uniti.
Indicativo di questa disinvolta equiparazione è quanto a suo
tempo affermato da D'Alema: "la presenza militare dell'Italia in
Afghanistan si iscrive fin dall'inizio nel quadro specifico delle
risoluzioni ONU e di iniziative europee e della NATO" (Agi, 14.06.06).
Inoltre, se si prende in considerazione il dettato costituzionale, va
ricordato pure l'art. 52 che stabilisce come "La difesa della Patria
è sacro dovere del cittadino".
Proprio questa affermazione, attraverso un allargamento del concetto di
patria, continua ad essere sfruttata politicamente per motivare le
missioni di guerra oltre i confini nazionali. Infatti, così come
negli Stati Uniti sia l'amministrazione Bush che quella di Obama hanno
sostenuto la necessità di combattere la guerra in Afghanistan
per tenere lontani i terroristi dalla nazione, anche in Italia analoga
argomentazione è stata espressa dal governo Prodi come da quello
Berlusconi. Ad esempio, l'ex-ministro della Difesa A. Parisi
affermò: "Noi sappiamo che i confini della patria, della
repubblica non coincidono con quelli che apprendiamo nella storia e
nella geografia, ma coincidono sempre più col mondo intero, e di
questo dobbiamo farci carico" (Ansa, 24.09.2007). Di recente il
ministro della Difesa La Russa, in un discorso dedicato ai militari,
italiani ha analogamente sostenuto che questi ''fanno ogni giorno
qualcosa, non solo per ricostruire, ma per la nostra libertà e
per tenere lontani i pericoli della guerra e del terrorismo da casa
nostra'' (Asca, 21.09.2009).
L'intervento italiano prende le mosse dopo l'Undici Settembre, a
seguito della guerra globale al terrorismo dichiarata dagli Stati
Uniti: guerra che come primo atto vede l'aggressione all'Afghanistan
ufficialmente finalizzata a liquidare il regime talebano.
Il 9 ottobre 2001 la Camera dei deputati approva il sostegno alle
iniziative anche militari degli USA, in applicazione dell'art. 5 del
Trattato NATO, delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza ONU e delle
decisioni del Consiglio europeo.
Il 23 ottobre seguente, il ministro Martino, davanti alle Camere,
preannuncia il possibile impegno italiano nell'operazione Enduring
Freedom di una "componente terrestre" che sarebbe entrata in scena "in
una fase successiva", accennando ai piani per l'invio di elicotteri
d'attacco Mangusta, di un reggimento blindato, di compagnie Genio e
Nbc, nonché carabinieri del Tuscania "con compiti di scorta
armata e supporto alle organizzazioni umanitarie" (L'Unità,
04.02.2003).
Dopo il voto pressoché unanime del Parlamento italiano a favore
della partecipazione - approvata operativamente dalla Camera il 7
novembre 2001 - il 18 novembre salpava da Taranto una squadra navale
composta dalla portaerei leggera Garibaldi, da due fregate e da una
nave appoggio, a bordo della quale era imbarcato anche un nucleo
d'incursori della Marina destinati ad entrare in azione a fianco delle
forze speciali Usa, svolgendo ruoli bellici tutt'ora imprecisati.
Parallelamente, nel gennaio 2002, iniziava la missione ISAF -
International Security Assistance Force - autorizzata con formale
mandato ONU (Risoluzione n. 1386 del 20.12.2001) col compito di
mantenere la sicurezza in Kabul e nelle aree limitrofe, a tutela
dell'Autorità nazionale afgana insediatasi il 22 dicembre 2001.
In tale contesto s'inserisce la missione italiana denominata
Italfor-Kabul con base nella capitale afgana presso una vecchia caserma
sovietica ribattezzata Camp Invicta. L'intervento viene ratificato dal
Parlamento l'8 novembre 2001 con due risoluzioni convergenti presentate
da Governo e opposizione. Il suo compito è inizialmente il
presidio della città, la difesa delle strutture economiche e dei
palazzi istituzionali, nonché l'addestramento e l'affiancamento
delle forze dell'ordine afgane. Infatti, nei primi due anni di
attività, l'ISAF non opera fuori da Kabul, ad eccezione della
vigilanza prestata presso la base aerea Usa di Bagram.
Questo primo dislocamento, completato nel febbraio, riguardava un
numero imprecisato di militari (324 secondo il Corriere della Sera al
30.10.02; 450 secondo la Repubblica dell'8.06.03). Considerando le
poche informazioni disponibili sarebbero stati soltanto circa 400, ma
da una notizia per molti aspetti paradossale, resa nota dallo stesso
Ministero della Difesa, è intuibile che il personale italiano,
militare e civile, distaccato a Kabul era ben più consistente.
Infatti, tra gli eventi menzionati in quel periodo compare la visita,
nell'aprile 2002, in occasione della pasqua, della signora Mariapia
Fanfani, presidente dell'Associazione "Sempre insieme per la pace", che
recò in dono al personale italiano 1.450 copie del libro "Una
vita, due vite" ed altrettante colombe pasquali offerte dalla
Fondazione "Luigi Berlusconi".
La partecipazione italiana all'occupazione militare ha compreso anche
la "costruzione o riabilitazione di infrastrutture: tribunali, uffici,
prigioni" a cura di un "Ufficio italiano giustizia", costituito nel
2003, al quale si deve pure la riattivazione di carceri a Kabul quali
il Detention Center e il Women Detention Center, nonché quello
speciale di Pol-i-Charkhi a pochi chilometri dalla capitale (Il
Manifesto, 30.3.07).
Per un impegno bellico più rilevante delle truppe italiane nel
teatro afgano bisognerà attendere il marzo 2003 quando, di
fronte all'evidenza di una guerra tutt'altro che fulminea, anche
reparti italiani agli ordini dei comandi USA iniziano ad operare in
piena zona di guerra.
Dopo un ciclo di esercitazioni sul Piccolo San Bernardo nell'ottobre
2002, il primo distaccamento alpino (circa un centinaio) parte da
L'Aquila il 31 gennaio 2003, tra discorsi ufficiali e contestazioni di
piazza. Il materiale veniva quindi trasferito con 20 voli di 2 Ilyushin
russi in affitto.
Il contingente denominato Task Force Nibbio comprendente un migliaio di
unità, in prevalenza truppe alpine oltre ad aliquote di altri
reparti specializzati, viene dislocato a Khost (800) nella ex base
statunitense "Salerno" e presso la base di Bagram (200), dotato anche
di armi pesanti quali mortai da 120 mm, necessari per le funzioni di
controguerriglia e di presidio attivo del territorio.
La modalità "combat" del contingente italiano risultano
confermate dal comando di Enduring Freedom per bocca dell'ammiraglio
James Robb, del colonnello Roger King e del maggiore John Hansen; ma
appena i giornalisti riportano la notizia, il ministro della Difesa non
perse tempo a smentire sostenendo che si trattava di una "missione di
pace".
Neanche un mese dopo esce un volume propagandistico dal titolo "Alpini.
Dalle Alpi all'Afghanistan", con prefazione dello stesso Martino che
afferma esattamente il contrario: "Questa non è la solita
missione di interposizione e di peace keeping, è una presenza
che comporta la probabilità di veri e propri combattimenti".
Infatti, già a pochi giorni dall'arrivo, il 18 marzo, un razzo
da 107 mm veniva lanciato contro il campo dei soldati italiani che
rispondono al fuoco. Nonostante la copertura militare
dell'informazione, nei mesi seguenti s'apprendeva che le forze speciali
italiane avevano preso parte a varie operazioni offensive.
La partecipazione italiana a Enduring Freedom si è protratta
sino al dicembre 2006, anche se la parte più consistente svolta
dall'Esercito con il contingente "Nibbio" era già terminata nel
settembre 2003. Da quel momento in poi sarebbe invece aumentato
l'impegno nell'ambito della missione ISAF (dall'11 agosto 2003 passata
sotto comando NATO) a Kabul e a Herat, mentre l'ONU autorizzava
l'estensione del mandato di ISAF al di fuori di Kabul e dei suoi
dintorni (Risoluzione n. 1510 del 13.10.2003), proiettandolo in zone
tutt'altro che "bonificate".
Si era, quindi, con tutta evidenza di fronte ad uno stravolgimento dei
compiti iniziali, in modo tale da trasformare l'ISAF in missione di
guerra, confondendosi con Enduring Freedom; senza peraltro alcun
passaggio parlamentare.
In tutti questi anni, si è quindi assistito ad un continuo
balletto di cifre attorno al numero effettivo dei militari italiani
presenti in Afghanistan e sulla prevista durata dell'intervento
militare tricolore. I primi, ovviamente, a fornire dati infondati,
reticenti o contraddittori sono stati i diversi ministeri della Difesa,
indipendentemente dal governo in carica.
Qualche esempio merita farlo.
Il ministro A. Martino, durante il precedente governo Berlusconi, nel
giugno 2003 ebbe a dichiarare: "riteniamo concluso il nostro impegno:
posso assicurare che il contingente italiano quando vedrà
scadere il suo mandato il prossimo 15 settembre, non verrà
prorogato […] La missione in Afghanistan è la più
pericolosa che l'esercito italiano abbia affrontato dai tempi della
Seconda Guerra Mondiale" (la Repubblica, 20.6.03). Ma, due anni dopo,
il medesimo ammetteva invece che "Dobbiamo essere realistici, il nostro
lavoro potrà durare a lungo…forse un altro decennio" (la
Repubblica, 21.6.05).
Per quanto riguarda invece il totale dei soldati italiani in
Afghanistan, basti ricordare come nel febbraio 2008 i dati ufficiali
forniti dal ministero della Difesa (2.370 effettivi) furono smentiti da
quelli contenuti in un documento ufficiale della stessa ISAF-NATO
(2.880).
Comunque, ragionevolmente, si può affermare che durante il
precedente governo Berlusconi (11 giugno 2001 - 17 maggio 2006) in una
prima fase furono impegnati sino a 1.600 effettivi con Enduring Freedom
e 450 unità con l'ISAF a Kabul. Successivamente, con il
passaggio delle forze italiane alla missione ISAF-NATO e il
ridislocamento a Kabul e a Herat la loro consistenza si è
attestata attorno a circa 1.850 unità (cifra pressoché
coincidente fornita sia dal ministero che da vari organi di stampa tra
gennaio e giugno 2006).
Con il governo Prodi (17 maggio 2006 - 8 maggio 2008) si assistette ad
un vero spostamento di truppe, mentre il ministro della Difesa Arturo
Parisi sosteneva la scellerata unificazione delle due missioni, ISAF e
Enduring Freedom. D'altronde nelle 281 pagine del programma di governo
del centrosinistra l'Afghanistan non risultava neanche menzionato.
Infatti, come previsto, veniva ritirato il contingente italiano in Irak
(Antica Babilonia) e parallelamente, secondo lo schema del governo
Zapatero, s'aumentava il numero dei militari in Afghanistan, tanto che
al luglio 2006, si arrivano a contare 2.388 militari, di cui 1.938 in
ambito ISAF, oltre a residuali 380 con Enduring Freedom e 70 con la
missione navale nel Mediterraneo Active Endeavour (L'Unità del
22.7.06 e rivista "Affari Esteri", ottobre 2006). L'incremento era
evidente e smentiva clamorosamente quanto aveva annunciato il
capogruppo al Senato del Prc, Giovanni Russo Spena: "Credo che il
numero massimo di militari italiani sarà di 1800".
Al termine del governo Prodi, si toccò quindi il record di 2.880
effettivi, secondo il già citato rapporto ISAF-NATO.
Come se non bastasse, il governo di centrosinistra attuava in silenzio
un altro progetto già anticipato nel febbraio 2006 dalla rivista
"Analisi Difesa", ossia l'invio di reparti speciali con funzioni
specificatamente "combat".
In merito a questa decisione andrà in scena un'autentica farsa.
u.f.