Umanità Nova, n.39 dell'8 novembre 2009, anno 89

Afghanistan, otto anni di guerra (2)


Continua dal numero precedente (n.38).

Nel giugno si apprendeva che "Nei giorni scorsi si era parlato insistentemente della possibilità di spedire a Kabul una cinquantina di truppe speciali" (Il manifesto, 17.06.06), ma l'ipotesi veniva elusa dal ministro Parisi, mentre la sinistra della maggioranza di governo si assumeva la responsabilità politica di non vedere e non sapere. Durante i mesi estivi trapelavano notizie sull'avvenuta entrata in azione dei reparti speciali facenti parte della Task Force 45 operante a Farah da fine luglio, così che al ritorno dalle ferie il ministro Parisi ammetteva: "Abbiamo rafforzato la capacità operativa del nostro contingente a Kabul e ad Herat con la presenza di truppe speciali". I commenti di Russo Spena e di Angelo Monelli, capogruppo dei Verdi alla Camera, erano improntati ad un inqualificabile stupore, come se non avessero fatto parte dell'esecutivo (Il Manifesto, 6.9.06). Pochi giorni dopo l'8 settembre nella zona di Farah, in un attentato della guerriglia rimanevano feriti 4 commandos-incursori del Comsubin: così non era più possibile nascondere il "segreto di Pulcinella" (Umanità Nova, 17.09.06) Lo stesso Parisi allora confermava: "le nostre truppe d'elite sono state inviate come supporto di qualità per gli obiettivi che ci siamo prefissi in sede NATO".
Alcuni mesi dopo, con l'aggravamento della situazione, l'impiego di "contro-insorgenza" dei reparti speciali italiani torna ad essere argomento di qualche interesse politico. Pateticamente, il segretario del Prc, Franco Giordano, afferma di essere "contrario a qualsiasi forma di coinvolgimento delle nostre truppe in azioni di guerra" (Il Manifesto, 15.3.07) e nel novembre 2007, rispondendo ad un'interrogazione parlamentare di Severino Garrone del Pdci sulle azioni "combat" delle forze speciali, il governo ammette "mirate azioni di risposta al fuoco" (Il manifesto, 17.11.07).
Ulteriore atto in cui si è palesato il ruolo risibile dei partiti "pacifisti" fu quello andato in scena nell'aprile del 2007. Era il primo di aprile quando il solito Russo Spena dichiarava solennemente: "Al ministro Parisi diciamo chiaramente che avvertiamo il governo: non cerchi di ciurlare nel manico, se accederà (sic) alle richieste dei militari di inviare in Afganistan gli elicotteri Mangusta, che sono senza dubbio armi offensive e non di difesa, noi diremo seccamente no, nel rispetto del decreto e degli ordini del giorno che abbiamo approvato". Dopo appena 45 giorni, come previsto, il ministro della Difesa Parisi annunciava l'invio in Afganistan di 5 elicotteri per l'attacco al suolo A-129 Mangusta, oltre a ulteriori 8 veicoli corazzati da combattimento Dardo, con relativo cannoncino da 25 mm, e 10 veicoli blindati Lince assieme a 145 militari di rinforzo (Umanità Nova, 27.05.2007).
Pochi mesi dopo, sempre col centrosinistra al governo, venne peraltro attuata una misura persino di stampo coloniale, con l'impiego di 120 soldati dell'esercito albanese sotto le direttive italiane per la difesa della base di Herat (Il Gazzettino, 24.09.2007).
Un altro capitolo inquietante da aprirsi sarebbe quello attorno al ruolo di quasi tutte le Ong italiane che, nel luglio 2006, in occasione del voto parlamentare per la proroga, il finanziamento e l'aumento della presenza militare tricolore in Afghanistan, appoggiarono apertamente le scelte, tutt'altro che di pace, del governo Prodi. Ma come si suol dire: questa è un'altra storia.
Conclusasi la parentesi governativa del centrosinistra, con l'attuale esecutivo con Berlusconi presidente e La Russa nella mimetica di ministro della Difesa, il profilo dell'intervento italiano non è sostanzialmente mutato, mentre gli aspetti più militaristi della politica governativa adesso vengono persino virilmente sbandierati, anche se solo una ridotta aliquota delle truppe italiane prende parte alle azioni offensive.
Ad Herat la situazione intanto si fa ancor più critica, a causa anche delle "gravi responsabilità" che il noto studioso e giornalista Ahmed Rashid imputa ai militari italiani (Corriere della Sera, 20.10.09).
Tra l'altro, superate le reticenze del governo Prodi, adesso viene ammesso non solo che i militari italiani sparano, ma che uccidono pure: "I talebani uccisi sono diverse decine, ma è difficile fare una stima precisa perché gli insorti portano subito via i cadaveri" (Panorama, 13.08.09). Tanto è vero che La Russa è giunto a sostenere, quasi si trattasse di una partita di calcio, che "Di certo il numero degli insorti […] è superiore alle perdite subite dai contingenti internazionali. E di molto. Anche per i nostri il rapporto è di sicuro più alto" (Corriere della Sera, 10.08.09).
L'ultimo caso è quello passato quasi sotto silenzio lo scorso 5 ottobre nella provincia di Herat, quando in un'operazione notturna compiuta da forze dell'ISAF (e quindi italiane) e dell'esercito afgano contro "una base dei ribelli" sono rimasti uccisi sei insorti, tra cui tre di cittadinanza araba (Corriere della Sera, 7.10.09).
Come scontato, resta imprecisato il numero dei civili rimasti vittime delle "azioni mirate" dei soldati italiani; basti ricordare la tragica uccisione di una ragazzina di tredici anni sotto il fuoco di un mitragliere della Folgore a Herat nel maggio scorso (Il Tirreno, 4.05.09).
Numericamente, dopo un temporaneo ridimensionamento, a seguito delle richieste di Obama il contingente ha raggiunto il tetto di circa 3.200 unità (Corriere della Sera, 15.06.09; Il Sole-24 Ore, 15.07.09), comprendenti 450 militari inviati come rinforzo per il periodo elettorale dall'estate sino a fine dicembre 2009 e circa 50 carabinieri impegnati nell'addestramento delle forze afgane di repressione presso la base di Adraskan. I reparti sono dotati di mezzi corazzati (modelli Lince, Dardo e, prossimamente, Freccia) ed usufruiscono oltre che della copertura aerea fornita dagli elicotteri anche di quella dei cacciabombardieri Tornado.
Nelle ultime settimane il quotidiano Times ha "rivelato" che i servizi italiani avrebbero pagato i talebani, contrattando una sorta di accordo reciproco per non subire attacchi. L'ipotesi, respinta con sdegno da La Russa (ma sommessamente rivendicata dal presidente dei deputati PdL della Camera Fabrizio Cicchitto: "lavorare per evitare guai alle nostre truppe non è un crimine ma fa parte del lavoro degli 007"), in realtà appare come una falsa notizia, dato che da sempre risultano simili trattative tra i vari contingenti militari (non certo escluso quello britannico, come riporta Il Giornale del 17.10.09) e i diversi clan e gruppi armati afgani; così come è risaputo che in molte zone -compresa quella di competenza italiana- i militari stranieri hanno da tempo rinunciato ad opporsi alla coltivazione del papavero da oppio (la Repubblica, 11.10.08), peraltro ancor più rigogliosa nelle zone sotto controllo USA.
Infine può essere utile soffermarsi sulle retribuzioni medie previste per i militari italiani operanti in Afghanistan, a fronte di un costo di circa 1.000 euro per ogni minuto della missione italiana (Corriere della Sera, 26.07.09). Oltre alla paga base i militari in missione all'estero usufruiscono di sostanziose indennità che possono arrivare sino al triplo dello stipendio mensile, facendo si che la retribuzione totale mensile si aggiri attorno ai 6 mila euro per un soldato semplice giungendo ad oltre 9 mila per un generale. Consistenti anche le indennità per i familiari dei militari caduti in zona di guerra, "risarciti" con un premio assicurativo pari a dieci volte lo stipendio di un anno (Il Sole-24 Ore, 20.09.09).
Cifre sideralmente distanti dai salari operai e dai risarcimenti previsti per i morti nella quotidiana guerra sul lavoro.

U.F.

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