Dicono di averli visti, gli esperti geologi della Protezione civile,
fare pic-nic in coppa all'Epomeo il giorno dopo della frana a Ischia.
Non pioveva più, e il sole, che solitamente viene a svernare da
queste parti, era riapparso – timido e sbiadito – dopo due giorni di
pioggia battente. Sì, a' merenda ci stava proprio bene; tanto,
sulle disgrazie della popolazione, sono in molti a mangiarci sopra, da
sempre. E di gusto, pure. A L'Aquila, come a Messina, come a
Casamicciola Terme, uno dei sei comuni dell'isola d'Ischia. Già,
Casamicciola: omen nomen. Come dire: una garanzia! Dal terremoto del
1883 (2313 furono le vittime su di una popolazione di poco più
superiore ai 6.000 abitanti), il modo di dire "e che è: non
sarà mica Casamicciola!" ha sempre voluto significare un evento
disastroso, di una gravità immane, addirittura epocale.
Lo scorso 10 novembre, soltanto una ragazzina di quindici anni è
stata travolta dal fiume di fango ed è morta. Ebbene, con lei e
con i diciassette feriti causati dalla melma fangosa di dieci giorni
fa; con i tre morti di tre anni addietro, quando sempre la pioggia, il
fango, il materiale incoerente – franato da un versante di un'altra
montagna a Ischia – si sono portati via un padre e le sue tre figlie;
con i 31 morti e i 6 dispersi dell'alluvione di Messina dello scorso
1° ottobre; con i 301 morti e più di 1.500 feriti del
terremoto aquilano avvenuto il 6 aprile di quest'anno; con tutti i
morti che in questo secolo breve ci sono stati a causa di
"calamità naturali", e che – purtroppo – continueranno a esserci
nel corto periodo storico per l'incapacità, l'incuria,
l'assoluto disinteresse nel proteggere e tutelare il suolo
idrogeologico comune, che ci appartiene in quanto acqua e terra; ebbene
– dicevamo – l'Italia ha così dimostrato di essere tutta una
Casamicciola continua, quotidiana, inarrestabile.
Si dice a gran voce: la colpa è del saccheggio del territorio,
dell'abusivismo edilizio, dell'inapplicabilità dei piani
edilizi, della cementificazione senza cemento, dell'assenza di
controllo da parte delle amministrazioni pubbliche…dello Stato. Come
no? Di regola, se è esiste una regola, questa è
rispettata dai più in ragione della sua efficacia, della sua
logica, ma soprattutto della sua giustezza e uguaglianza.
Sennonché il problema è tutto qui: una legge dello Stato
non potrà mai essere giusta, né uguale per tutti,
soprattutto se questa riguarda il bene della collettività –
l'ambiente – che acquista un interesse, un valore, e pertanto un
guadagno, soltanto se è di proprietà di pochi: pubblici o
privati, poco importa. Lo Stato – attraverso le sue amministrazioni
centrali e periferiche – gestisce il territorio privatizzandolo agli
Enti, veri e propri carrozzoni clientelari e affaristici, dove i
politici si esercitano e fanno scuola. Di che? Di come gestire
privatamente, da privati e con i privati, il bene collettivo
nell'interesse del partito; ché la politica – come ha detto il
Presidente Napolitano – non è uno scherzo, non si improvvisa:
bisogna saperci (arraf)fare. E gli affari della politica, traducendosi
in una politica degli affari, hanno ovviamente un costo per la
collettività: la libertà di decidere in prima persona di
fare scelte consapevoli e responsabili. Ma, soprattutto, di sentirsi
partecipi di un insieme collettivo, di appartenervi sapendo che il
proprio impegno ha uguale importanza per tutti.
L'abitudine alla delega, la tranquilla comodità di affidare agli
esperti la soluzione dei problemi, ha consentito alla politica degli
affari di non più preoccuparsi di legittimare gli affari della
politica mediante ideali etici, sociali, culturali; infatti, ci si
preoccupa dell'interesse collettivo favorendo l'interesse privato, e –
insegnando che l'interesse privato favorisce lo sviluppo del pubblico –
si è giunti ad avallare qualsiasi interesse personale al punto
da anestetizzare il bisogno/desiderio di condividere la felicità
con altri ed insieme ad altri. Dall'ambiente alla salute,
all'educazione, all'amore/cura di sé e del prossimo, si è
cancellato ovunque il pronome personale "noi", o perlomeno lo si
è indebolito. E nel farlo, ci si è fatti "furbi",
"scaltri", "competenti": ovviamente, il tutto a danno della
collettività. Finché… finché una "calamità
naturale" riposiziona i reali rapporti fra l' "io" e il "noi" e li fa
sentire entrambi deboli. Non perché la forza della natura
è invincibile, ma perché la meschinità umana
è disarmante. Anche in una tranquilla isola del Mediterraneo,
come Ischia, che del proprio paesaggio può orgogliosamente far
vanto come un angolo di paradiso del nostro BelPaese.
Qui, sull' "isola verde", come a Messina, come a L'Aquila e in
qualunque angolo dell'Italia casamicciolese, dopo aver calcolato
l'ammontare dei danni alle cose (prima) e alle persone (poi), si
passerà all'individuazione delle responsabilità: sempre
le solite e le più immediate da individuare. Verranno chiamate
incuria del territorio, abusivismo edilizio, malaffare, e si troveranno
dei capri espiatori ai livelli più bassi, quelli che non
dispongono di nessun altra qualifica che quella di essere un abitante,
un cittadino, un lavoratore, educato al culto dell'"io"; quell'"io" che
si è fatto tutto da sé, ad incominciare da una casetta
abusiva condonata dallo Stato e per la quale lo Stato ha intascato i
soldi del condono, e morta lì. Perché se è
scandaloso che nell'isola verde oltre il 50% del patrimonio edilizio
sia abusivo, cosa dire della Pretura ischitana (assorta alle cronache
nazionali per il più alto numero di processi per abusi edilizi)
che è locata in un edificio abusivo? Cosa dire del Comando di
Polizia che da tempo si è appropriato di una pineta pubblica?
Cosa dire della caserma forestale di Casamicciola costruita abbattendo
una pineta in deroga alle leggi di tutela del territorio e del
paesaggio? Che lo Stato, per primo, è illegale, ingiusto,
infame? Non ci pensiamo nemmeno!
Lo Stato è lo Stato. Messina, L'Aquila, Sarno, Casamicciola,
sono soltanto nomi di località geografiche italiane. Altri nomi,
questa volta stranieri, hanno vissuto lo stesso dramma (si chiamino
Istanbul o New Orleans): quello di aver accettato di sottostare alle
leggi dello Stato. Non della natura e della collettività. Vera e
unica calamità.
gianfranco marelli