Le lettere ad un giornale, si sa, sono fra i "pezzi" più
letti. L'argomento trattato, il modo in cui è esposto, il genere
conviviale, affettivo e diretto, sono di sicuro effetto sul lettore: lo
fanno partecipe immediato e coinvolto. Se poi la lettera è
pubblicata in prima pagina ed appare come un subdolo sfogo paterno al
figlio sulla necessità di abbandonare l'Italia poiché qui
non c'è futuro né desiderabile, né tantomeno
possibile, allora è proprio fatta: immediatamente si formano gli
schieramenti di chi è a favore e chi contro. Addirittura – come
effettivamente è successo e sta accadendo – immediata è
la necessità di rispondere al "padre" in qualità di
"figlio"per replicare (chi mestamente, chi in tono piccato) che
"sì, papà, hai purtroppo ragione", oppure "papà,
troppo comodo, chiedermi di perdonarti per aver fallito".
È così che il quotidiano "la Repubblica" ci ha ormai
abituato allo stile gentile e trasognato di un'opposizione benpensante
e salottiera di fronte alle vergogne di un BelPaese retto da una
masnada di svergognati e sorretto da una pletora di impudenti. Si
è iniziato con Veronica Lario, la cui lettera era un appello ad
aiutare il marito malato di priapismo; si è proseguito con
Saviano ed il suo appello al malato/imputato a non firmare (per
carità, o Silvio!) la legge sul "processo breve"
perché «Non è una questione di destra o
sinistra. Non è una questione politica. Non è una
questione ideologica. È una questione di diritto»; ora si
prosegue con il Direttore Generale della Luiss (ex Direttore Generale
Rai) Pier Luigi Celli, la cui preoccupazione per il futuro del figlio
laureando lo spinge a scrivergli di cercare la fortuna fuori
dall'Italia, perché in questo Paese «se ti va bene,
comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un
centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un
millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e
fallimenti che non pagherà mai».
Certo: vuoi mica mettere "l'opposizione a suon di lettere" compite e
ben scritte, con la sciatteria di un'informativa giudiziaria taroccata
che incolpa il direttore de "l'Avvenire" Boffo di immoralità per
i suoi amori gay, o le riprese osé sugli incontri allegri e
spassosi del Governatore Marrazzo con le sue "amiche", o dell'onorevole
Alessandra Mussolini con il prestante e ardimentoso Giuseppe Fiore. Lo
stile non è acqua. Già, ma cos'è? Cos'è, se
non ipocrisia? L'ipocrisia di chi si chiama fuori, di chi si vuole
salvare dalla lordura politica con cui si è nutrito ed ha
alimentato il sistema della delega, della rappresentatività,
della specializzazione. In poche parole: di chi fa della sua
professione un privilegio di casta, sia quella dei politici, dei
giudici, dei medici, degli avvocati dei banchieri, dei giornalisti, dei
professori universitari, dei direttori generali, degli aguzzini in
divisa… dei rivoluzionari.
Nel frattempo la crisi economico-sociale morde e fa male. Pure, fa
anche incazzare. E molto. Così tanto, che la protesta non
arriverà più per posta, né avrà il bon-ton
di una lettera alla Ivan Sergeevič Turgenev. I padri non chiederanno
scusa ai figli, e i figli non incolperanno i padri. L'ipocrisia di
entrambi lascerà il posto alla coerenza nella lotta per un
presente mai più senza futuro. D'altronde, se non adesso e
subito, quando?
gianfranco marelli