Umanità Nova, n.44 del 13 dicembre 2009, anno 89

C'è del marcio in Danimarca


Dal 7 al 18 dicembre si terrà a Copenhagen la XV Conferenza ONU sul Cambiamento Climatico (COP15), che dovrà trovare un successore al Trattato di Kyoto. Sarà, secondo tutte le previsioni, il più grande vertice sul cambiamento climatico di sempre. E come al solito si fingerà di avere a cuore il destino del mondo e di voler cambiare rotta per non cambiare nulla!
La Conferenza è chiamata a negoziare un nuovo trattato per impegnare l'intera comunità internazionale ad assumere misure in grado di fermare il riscaldamento globale e l'accordo dovrebbe sostituirsi al Protocollo di Kyoto, il primo timido tentativo fatto in ambito ONU per contrastare i cambiamenti climatici.
Ma, al di là dei soliti dibattiti triti e ritriti sul fallimento o meno della conferenza da parte dei pochi illusi che ancora credono che un cambiamento dall'alto sia possibile, quel che pare certo è che la conferenza di Copenhagen non si concluderà con un nuovo trattato vincolante, ma solo con un accordo politico e che di un trattato se ne riparlerà nel 2012. Quindi anche i fautori di soluzioni prese dai padroni del mondo – e con loro tutte quelle associazioni ambientaliste che ancora si ostinano a praticare una semplice politica riformista di riduzione del danno attraverso la richiesta di sistemi legislativi più 'verdi' – rimarranno profondamente delusi!
Il fallimento della conferenza non dovrà stupire troppo, perché esso appare del tutto coerente con il modo in cui da sempre i responsabili della politica mondiale si sono posti di fronte alla crisi ecologica. Dapprima, per decenni, i governi hanno negato l'esistenza stessa di una crisi; in seguito ne hanno riconosciuto la realtà solo quando è scattato l'allarme di esaurimento delle energie fossili. In ogni caso non hanno mai considerato la crisi ecologica nella sua globalità, ma hanno concentrato la loro attenzione soltanto sul mutamento climatico che, sebbene sia certamente portatore di conseguenze gravissime, non è il solo elemento critico (basti pensare tra gli altri alla diminuzione costante di acqua dolce, alla continua e crescente produzione di rifiuti, tra cui scorie tossiche e radioattive, al degrado del suolo con conseguenti effetti disastrosi, ecc.). Infine hanno individuato in ciò che chiamano green economy lo strumento primario di soluzione della questione ambientale, trovando così il modo di  promuovere per l'ennesima volta una nuova crescita produttiva al servizio del capitalismo globale: insomma la solita favola del capitalismo dal volto umano, a cui per l'occasione si aggiunge anche l'aggettivo verde, per nascondere le ingiustizie del sistema economico imperante, il cui obiettivo continua inevitabilmente ad essere la crescita dei prodotti e dei consumi e il cui elemento fondante consiste nello sfruttamento di un essere umano sull'altro e – come Bookchin ci ha mostrato – sulla natura.
C'è chi dice giustamente che in realtà COP15 è già diventata una fiera del commercio di CO2 con conferenza annessa, essendo stata tramutata nei fatti nell'Organizzazione Mondiale del CO2mmercio, nel "WTO del clima". Basti pensare ad esempio al meccanismo che permette a chi non è in regola con i propri obiettivi di riduzione dei gas serra di acquistare quote di CO2 tagliata da chi è stato invece particolarmente virtuoso oppure da chi ha ottenuto un pacchetto di crediti per ragioni politiche. Credo sia evidente l'assurdità di cercare soluzione ai mutamenti climatici attraverso la vendita di più o meno diritti a inquinare e la conseguente esplicita riduzione a merce di aria, acqua, foreste, territorio, ecc.
D'altronde tutto, assolutamente tutto, può essere venduto e comprato all'interno del capitalismo, e perfino il cambiamento climatico è diventato un business. Ed è paradossale pensare che proprio i fautori del riscaldamento climatico, di una corsa sfrenata al saccheggio dell'ambiente e della salute di tutti noi possano invertire questa tendenza! Basta guardare all'Italia dove, dopo il business dei rifiuti, le ecomafie, la privatizzazione dell'acqua, i mega aeroporti, le centrali a carbone, la TAV, – come se non bastasse – oggi si riparla di energia nucleare!
Però non tutto il male vien per nuocere e l'inevitabile fallimento di Copenhagen può essere un'occasione storica, da un lato, per sottolineare l'evidente inadeguatezza dell'attuale politica ecologica mondiale, funzionale alla conservazione del sistema che della stessa crisi planetaria è responsabile; e, dall'altro, per mettere in luce la necessità, di fronte a problemi sempre più incombenti, di una radicale trasformazione della società che all'oppressione e allo sfruttamento sostituisca il mutuo appoggio, la democrazia diretta e l'autogestione, consapevoli che la crisi del clima è una crisi del sistema.
Ed è, spero, sulla scia di considerazioni come queste che, dieci anni dopo Seattle, ancora una volta numerosi attivisti e attiviste di tutto il mondo si ritroveranno a Copenhagen – ma non solo – per contestare questo vertice e proporre le alternative che i movimenti dal basso stanno sperimentando in tutte le parti del pianeta. Per chi volesse recarsi a Copenhagen, Climate Justice Action (CJA), la rete mondiale dei movimenti di giustizia climatica, ha redatto un utilissimo opuscolo con tutte le informazioni pratiche, disponibile su internet.

Selva

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