Fin dalle sue origini lo Stato moderno non ha condotto solo guerre
esterne, ma anche una guerra interna permanente contro ogni possibile
opposizione. Nel lontano 1589 l'ex-gesuita Giovanni Botero consigliava
ai principi di condurre una guerra dopo l'altra «di tal maniera,
che non resti negli animi de' sudditi luogo nessuno per le rivolte,
tanto sono tutti o con l'opera o col pensiero occupati
nell'impresa» («Ragion di Stato», III, 3). Un altro
gesuita, Juan de Mariana, consigliere del re di Spagna Filippo III,
affermava nel 1599 che, per «ottenere la pace domestica»,
il «primo compito del principe è che la guerra nutra se
stessa» («De rege», III, 5). L'invenzione del
«nemico» è sempre stata funzionale alla violenza
disciplinare dello Stato.
Ogni epoca ha conosciuto diverse forme, tecniche, strategie di violenza
statale. Negli anni Settanta era un fenomeno anzitutto di vertici, di
continuità istituzionali tra Fascismo e Repubblica, di bombe
nelle piazze, di complotti e segreti nell'ombra. Tra il 1975 e il 1989
la Legge Reale consentì alle forze dell'ordine di sparare
«per motivi di ordine pubblico», legittimando 237 omicidi e
352 ferimenti. Scriveva allora sul «Corriere della Sera»
del 4 maggio 1975 l'avvocato Giovanni Bovio: «il ridare vita ad
istituti caratteristici del regime di polizia è il duro prezzo
che bisogna pagare per ripristinare l'ordine, per liberarsi dalla paura
dei fuorilegge, dai vandalismi degli esaltati, dal terrorismo dei
fanatici...». Con la stessa logica, tra il 1981 e il 1983 il
Comitato Interministeriale per la Sicurezza promuoveva la tortura sui
militanti della lotta armata, secondo i metodi d'interrogatorio delle
dittature militari dell'America latina.
Oggi le forme della «sicurezza» di Stato sono in parte
mutate. Nella repressione delle manifestazioni di Genova del 2001 non
vi è stato soltanto un sovrappiù di violenza gratuita,
brutale, indiscriminata, ma le forze di polizia hanno assunto modi da
tifoseria fascista: voglia feroce di rivalsa, sevizie e pestaggi in
carcere contro manifestanti indifesi, senso collettivo di
impunità, perdita «stupefacente» di autocontrollo
avvallata o promossa dall'omertà istituzionale. Proprio
l'assassinio di Carlo Giuliani e la «macelleria messicana»
della Scuola Diaz e di Bolzaneto inaugurano questo decennio in cui i
modelli di «tolleranza zero», il razzismo di Stato, i
rastrellamenti di corpi clandestini da espellere, l'identificazione di
nuovi «nemici interni» (il degrado, lo scippo, l'immigrato,
la prostituta, il drogato, ecc.) hanno definito una politica sempre
più cupa e aggressiva di «salute pubblica», secondo
la quale vi sono persone che sono «vuoti a perdere»,
«gente di nessuno», seviziabili a piacere. E quale sia oggi
la «cultura» delle forze dell'ordine, quale miscuglio di
cattiveria, povertà, indottrinamento, fanatismo fascistoide,
piacere squadrista della violenza ispiri e animi le loro azioni,
può mostrarlo anche solo il romanzo inchiesta di Carlo Bonini
«ACAB. All cops are bastards» (Torino, Einaudi, 2009).
Così, la militarizzazione dell'ordine pubblico, la
proliferazione di leggi razziali, securitarie e proibizioniste,
l'internamento in carcere come soluzione al disagio sociale, l'ansia di
punire chi non si adegua hanno generato un nuovo sistema della violenza
statuale, tra pestaggi, ricatti, psicofarmaci, sevizie, celle di
sicurezza, manicomi, prigioni. Basta considerare alcuni dei recenti
omicidi di Stato contro persone fermate o arrestate per minimi
comportamenti «devianti»: Marcello Lonzi, ammazzato di
botte l'11 luglio 2003 nel carcere di Livorno; Federico Aldovrandi,
pestato a morte il 25 settembre 2005 dagli agenti di una volante;
Riccardo Rasman, ucciso il 27 ottobre 2006 da quattro agenti
intervenuti a immobilizzarlo in casa sua; Aldo Bianzino, deceduto il 14
ottobre 2007 nel carcere di Perugia per «lesioni massive al
cervello e alle viscere»; Giuseppe Turrisi, clochard ucciso a
botte alla Stazione di Milano il 6 settembre 2008 da due agenti, uno
dei quali si è giustificato dicendo: «Mi aveva rotto le
palle»; Stefano Brunetti, arrestato ad Anzio e morto per le
percosse subìte il 9 settembre 2008; Manuel Eliantonio, morto il
25 luglio 2009 nel carcere di Marassi a Genova dopo aver scritto a casa
«mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Ora ho
solo un occhio nero, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li
risputo ma se non li prendo mi ricattano»; Stefano Frapporti,
arrestato senza motivo, pestato e spinto al suicidio nel carcere di
Rovereto a fine luglio 2009; Francesco Mastrogiovanni, morto in un
letto di contenzione il 4 agosto 2009 dopo un TSO abusivo; Stefano
Cucchi, arrestato, pestato e morto il 22 ottobre 2009...
Queste storie terribili non sono però che la punta di un
fenomeno ben più vasto. Le violenze delle forze dell'ordine
contro persone sottoposte a provvedimenti restrittivi, soggetti deboli,
lavoratori migranti «usa e getta», reclusi e recluse nei
CIE, costituiscono una prassi ordinaria finora promossa e incentivata
attraverso la retorica della sicurezza e della legalità.
Né si creda che le ipocrite voci di protesta istituzionale per
l'omicidio di Stefano Cucchi rappresentino un'inversione di tendenza.
Sono certo un fatto nuovo, da interpretare. Secondo Marcuse uno dei
caratteri storici del nazifascismo consiste nella creazione di una
cultura di massa dell'odio e della discriminazione verso presunti
«diversi» per convincere le «classi
espropriate» a considerarsi «come popolazione privilegiata
nei confronti dei "gruppi stranieri" sacrificati» («Teoria
e pratica», Milano, Shakespeare & Company, 1979, pp. 45-47).
Non a caso conosciamo tanti nomi di cittadini italiani assassinati
dalle forze dell'ordine, ma ben poco sappiamo delle violenze sui
cittadini stranieri. Non a caso lo striscione «Nei centri di
detenzione la polizia stupra» ha provocato il 25 novembre a
Milano violente, ipocrite cariche di polizia contro donne e lesbiche
(vedi noinonsiamocomplici.noblogs.org). La violenza di Stato serve
attualmente a ritagliare un blocco sociale reazionario che si consideri
privilegiato rispetto ai nuovi riti sacrificali e assassini del potere.
Oggi le leggi razziali promosse da una forza populista come la Lega
Nord prospettano un patto corporativo tra capitale e lavoro nazionale:
al lavoratore autoctono si promette un parte della ricchezza prodotta
dallo sfruttamento della forza-lavoro migrante purché si
identifichi nel «popolo italiano» e rinunci a ogni atto di
solidarietà antipadronale e antirazzista. Per questo la
militanza antirazzista non è soltanto una forma di
solidarietà, ma anche un campo decisivo di resistenza e
autodifesa comune contro le nuove pratiche istituzionali della
discriminazione e della violenza.
Redb