Alle 16,37 del 12 dicembre 1969 una potente bomba alla gelignite
venne fatta esplodere nel salone affollato della sede della Banca
Nazionale dell'Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano.
Il bilancio delle vittime fu di 17 morti, di cui uno deceduto successivamente, e 85 feriti.
Tra i primi ad essere fermati fu il ferroviere Giuseppe Pinelli,
animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, convocato in
questura poche ore dopo la strage.
Dopo tre giorni di interrogatorio non gli viene contestata alcuna
imputazione, eppure non viene rilasciato; ad interrogarlo è il
commissario Luigi Calabresi, il quale guida l'inchiesta sulla strage.
Intorno alla mezzanotte del 15 dicembre, Pinelli viene trovato morto
nel cortile della questura, dopo essere precipitato dalla finestra
della stanza dell'interrogatorio, che si trovava al quarto piano.
La versione ufficiale parla di suicidio; gli inquirenti cercarono di
far credere che Pinelli si fosse tolto la vita perché coinvolto
nell'attentato alla Banca nazionale dell'Agricoltura.
Secondo Antonino Allegra, commissario capo dell'ufficio politico della questura di Milano: Il
Pinelli non aveva dato alcun segno di nervosismo fino all'ultimo
interrogatorio, fino a quando, cioè, gli fu detto a bruciapelo:
Valpreda ha parlato. Questa frase lo fece sbiancare in volto. Tuttavia
egli ebbe modo di riprendersi tanto che poté essere ancora
interrogato, senza la minima forma di pressione, sui propri rapporti
con il noto Valpreda. La fulminea decisione del Pinelli di sottrarsi
col suicidio ad ogni altro interrogatorio non può non confermare
che egli fosse stato indotto a tale disperato gesto dalla
preoccupazione di essere ormai smascherato e di andare incontro a
vicende giudiziarie di estrema gravità.
Il questore di Milano, Marcello Guida, dichiarò: Pinelli
era fortemente indiziato di concorso in strage ... Il suo alibi era
caduto ... Di più non posso dire, si era visto perduto ...
È stato un gesto disperato. Una specie di autoaccusa, insomma.
Successivamente aggiunse: Eravamo in
fase di contestazione e di indizi. Evidentemente a un certo punto si
è trovato come incastrato. Allora è crollato
psicologicamente. Non ha retto. Non è stato verbalizzato niente.
Anche il commissario Calabresi, nell'immediatezza della morte di Pinelli, dichiarò: Lo credevamo incapace di violenza, invece ... è risultato implicato con persone sospette ... implicazioni politiche.
Un mese dopo, in contraddizione con quanto dichiarato al pubblico
ministero, Calabresi cambiò versione, pur continuando a
sostenere il suicidio di Pinelli: Fummo sorpresi del gesto – disse – proprio
perché non ritenevamo che la sua posizione fosse grave. Pinelli
per noi continuava a essere una brava persona. Probabilmente il giorno
dopo sarebbe ritornato a casa [...], posso dire anche che per noi non era un teste chiave ma soltanto una persona da ascoltare.
Sempre il 15 dicembre 1969, all'interno del tribunale di Milano, era
stato arrestato Pietro Valpreda, un ballerino anarchico, accusato della
strage e oggetto di un riconoscimento, a dir poco pilotato, da parte
del tassista Cornelio Rolandi, che ritenne di individuarlo come il
passeggero da lui trasportato il pomeriggio del 12 dicembre in piazza
Fontana nei pressi della Banca Nazionale dell'Agricoltura.
Si è accertato al di là di ogni dubbio, anche a seguito
delle numerose sentenze giudiziarie, che polizia, servizi segreti e
neofascisti erano perfettamente al corrente che Valpreda ed il
minuscolo gruppo anarchico romano "22 marzo" cui egli apparteneva erano
del tutto estranei alla strage.
In ultimo, al termine di un lunghissimo iter processuale, la Corte di
Cassazione, in data 3.5.2005, ha confermato la sentenza impugnata della
Corte d'appello di Milano del 12.3.2004, che ha individuato i mandanti
della strage nei neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda e Giovanni
Ventura:
[...] Dopo approfondito esame,
infatti, delle varie acquisizioni già valorizzate dai primi
giudici, anche la Corte dell'appello ha ritenuto di "dover, in
definitiva, condividere l'approdo cui la Corte di assise di Milano,
peraltro in termini più impliciti che espliciti, è
pervenuta in ordine alla responsabilità di FREDA Franco e
VENTURA Giovanni per i fatti del 12.12.1969, pur avvertendo che tale
conclusione - cautamente puntualizza la sentenza impugnata - oltre a
non poter provocare ... effetti giuridici di sorta nei confronti di
costoro, irrevocabilmente assolti dalla Corte di assise di appello di
Bari, è frutto di un giudizio formulato senza poter disporre
dell'intero materiale probatorio utilizzato a Catanzaro e Bari".
[...] il giudizio circa la
responsabilità di FREDA e VENTURA in ordine alla strage di
Piazza Fontana, afferma la sentenza impugnata, "non può che
essere uno: il complesso indiziario costituito dalle risultanze
esaminate, a cominciare dall'accertamento delle responsabilità
irrevocabilmente operate dalle Corti di assise di Catanzaro e Bari per
finire con le dichiarazioni di Fabris, Lorenzon, Comacchio e Pan, con
particolare riferimento al secondo, fornisce a tale quesito una
risposta positiva".
Negli anni è altresì emerso chiaramente, anche in sede
processuale, che la strage fu commessa con l'appoggio, la copertura, la
supervisione e i depistaggi dei servizi segreti italiani e statunitensi.
Per ciò che riguarda Pinelli, gli eventi successivi e le
risultanze processuali hanno dimostrato che sia i dirigenti della
questura di Milano sia gli altri pubblici ufficiali presenti
all'interrogatorio hanno mentito dichiarando che si era suicidato e lo
avevano infamato asserendone il coinvolgimento nella strage del 12
dicembre.
Quasi sei anni dopo, l'allora giudice istruttore di Milano Gerardo
D'Ambrosio escluse sia il suicidio che l'omicidio, nella
sentenza-ordinanza con cui il 27 ottobre 1975 prosciolse i pubblici
ufficiali presenti all'interrogatorio di Pinelli dalla imputazione per
l'assassinio del medesimo.
D'Ambrosio attribuì, infatti, la caduta e la successiva morte di
Pinelli ad un malore attivo, che gli avrebbe fatto saltare la ringhiera
di una finestra alta cm. 92, nello stesso tempo in cui sveniva.
In un'intervista del 2002 D'Ambrosio negò di aver mai usato
l'espressione e la definì una leggenda; si riportano
perciò, di seguito, le parole esatte utilizzate dal giudice nel
testo della sentenza:
"Ciò posto è opportuno
precisare che nel termine malore ricomprendiamo non solo il collasso
che, com'è noto, si manifesta con la lipotimia, risoluzione del
tono muscolare e pieno piegamento degli arti inferiori, ma anche
l'alterazione del «centro di equilibrio» cui non segue
perdita del tono muscolare e cui spesso si accompagnano movimenti
attivi e scoordinati (c.d. atti di difesa)".
Se non c'è l'espressione "malore attivo", ci sono le parole
"malore" e "movimenti attivi e scoordinati", strettamente connesse tra
loro e ciò di cui si parla e che si intende sostenere, al di
là di qualunque dubbio e cavillo, se non si vuole giocare con le
parole, è la tesi di un malore attivo.
Le risultanze dell'autopsia, i rilievi effettuati sulla facciata del
palazzo e le dichiarazioni del testimone oculare Aldo Palumbo hanno
dimostrato che Pinelli era vivo, anche se privo di sensi, al momento
della precipitazione.
La ricostruzione di D'Ambrosio equivale, quindi, ad affermare che
Pinelli, come nel più rocambolesco dei romanzi d'appendice, in
una sorta di fiera di improbabili coincidenze di tempi e spazi, sia
volato svenendo, o svenuto volando, oltre la ringhiera, senza emettere
alcun grido.
In più, onde rendere più verosimile la performance
acrobatica di Pinelli, che era alto circa cm. 167, D'Ambrosio ne fissa
il baricentro a cm. 55 dalla sommità della testa, il che, a ben
vedere, equivale a trasformarlo in una sorta di trampoliere o di
fenomeno da baraccone.
Il giudice non considera affatto la possibilità che Pinelli
fosse già privo di conoscenza e, quindi, non si sia tuffato
né sia stato lanciato dalla finestra, ma sia stato lasciato
cadere da qualcuno lungo la facciata del palazzo, sì da farlo
battere contro il cornicione e la grondaia sottostanti.
Peraltro questa spiegazione si concilia sia con la testimonianza di
Palumbo, che udì due altri tonfi prima della caduta finale del
corpo di Pinelli, sia con quella dell'altro testimone oculare,
l'anarchico Pasquale Valitutti, che si trovava nel salone dei fermati
di fronte alla stanza dell'interrogatorio:
"alcuni minuti prima che Pino voli
giù dalla finestra succede qualcosa di eccezionale [...]
qualcosa paragonabile a un trambusto, a una rissa, sembra che qualcuno
stia rovesciando i mobili [...] avvertii le voci, concitate, alterate".
Lo svenimento prima della precipitazione spiegherebbe anche il fatto
che la telefonata per la chiamata dell'autoambulanza sia pervenuta al
centralino dei vigili urbani a mezzanotte e 58 secondi, ossia prima
della caduta di Pinelli.
Infatti, il testimone oculare Palumbo fissa l'ora della precipitazione
di Pinelli tra uno e quattro minuti dopo la mezzanotte, mentre gli
altri giornalisti presenti la collocano tre minuti dopo mezzanotte e
l'ispettore ministeriale Elvio Catenacci la fissa alle 0.04.
Invece D'Ambrosio colloca la chiamata dell'autoambulanza in un momento
non esattamente precisato, ma successivo alla caduta di Pinelli,
avvenuta, secondo la sua ricostruzione, tra le 23.57, ora in cui
Palumbo dichiara di aver lasciato la sala stampa della questura, e la
mezzanotte.
Nel fare ciò, il giudice istruttore decide di basarsi sulla
testimonianza di una persona assente, il fotografo Giuseppe Colombo,
che dichiara di essere partito dal garage del Corriere della Sera alle
24.00, anziché su quella dei giornalisti presenti sul luogo, che
lo avvertirono dell'accaduto.
Analogamente, con una sorta di capriola logica, D'Ambrosio sostituisce
la testimonianza di Valitutti con suoi arzigogoli e ragionamenti
capziosi su due punti essenziali.
In primo luogo, basandosi sulle dichiarazioni degli imputati, che la
legge esclude dal novero dei testimoni e, oltretutto, a giudizio dello
stesso giudice istruttore, si sono dimostrati mentitori impenitenti,
afferma che prima della precipitazione di Pinelli non è accaduto
nulla di grave:
D'altra parte è veramente
difficile sostenere e ritenere che il Valitutti, pur ammettendo che la
sua attenzione fosse stata destata dai sospetti rumori sentiti (rumori
che in mancanza di prova diversa devono attribuirsi, data l'ora di
collocazione, alla reazione motoria, che normalmente segue al termine
di uno stato di attenzione e tensione, delle numerose persone presenti
nella stanza al momento in cui il dott. Calabresi terminò di
dettare il verbale) dopo un quarto
d'ora, non possa essersi distratto neppure per quelle poche frazioni di
secondo occorrenti al commissario Calabresi per attraversare il breve
tratto di corridoio che la finestra nel salone dei fermati consentiva
di vedere.
Diversamente da quanto afferma D'Ambrosio, l'unica prova in suo
possesso è la testimonianza di Valitutti, che dichiara che
nell'ufficio di Calabresi è successo qualcosa di grave, mentre,
al contrario, manca qualunque prova che non sia accaduto nulla.
L'altro aspetto per il quale il giudice opera una deformazione dei dati
probatori in suo possesso riguarda la presenza di Calabresi nella
stanza al momento della precipitazione:
Prima di passare all'esame delle
imputazioni va subito detto che l'esperita istruttoria lascia
tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non fosse nel suo
ufficio al momento della precipitazione.
Tutti i testimoni presenti al quarto
piano dell'Ufficio Politico sono stati concordi su tale punto, ad
eccezione dell'anarchico Valitutti, che si trovava nel salone dei
fermati.
In realtà, il brigadiere Sarti, che è un vero testimone e
non un imputato, ha dichiarato che non vide nessuno uscire dalla stanza
e percorrere il corridoio, mentre ciò che dicono gli imputati
presenti nella stanza non ha valore di prova.
La deposizione di Valitutti, inoltre, è particolarmente
attendibile anche per il fatto che egli ha tutto l'interesse ad
escludere gente dal novero dei possibili responsabili della morte di
Pinelli e, quindi, escluderebbe Calabresi se non fosse sicuro della sua
presenza nella stanza.
Infine, c'è un'altra circostanza, citata da Camilla Cederna nel libro Pinelli Una finestra sulla strage,
atta a rafforzare la attendibilità della testimonianza di
Valitutti o, quantomeno, a sconsigliarne l'affrettato accantonamento:
Secondo Allegra non ha importanza
nemmeno il primo rapporto, anzi l'unico sulla morte di Pinelli, diretto
alla Procura di Milano all'alba del 16 dicembre, in cui l'ora della
caduta è fissata a mezzanotte e un quarto, mentre Calabresi sta
procedendo all'interrogatorio. Ebbene sì, la firma è la
sua, ma a scriverlo è stato un sottufficiale di cui non ricorda
nemmeno il nome, e lui, guarda un po', non ha dato peso alla stesura di
un documento di tale importanza, in quanto lo considerava soltanto una
letterina di accompagnamento. Accompagnamento di che cosa? Dei verbali
di Pinelli e delle testimonianze sull'alibi. (Non accompagnava un bel
niente, invece, perché quei documenti andarono da Caizzi con un
bigliettino di Calabresi, sei righe in tutto.) Comunque lo scritto che
manda a monte le tesi difensive di oggi, allora Allegra lo firmò
senza leggerlo, così egli afferma, e si trattò secondo
lui "di un'inesatta informativa".
Si riporta di seguito il testo del rapporto di Allegra alla Procura di Milano del 16 dicembre 1969:
Di seguito a precedenti rapporti pari
numero ed oggetto, si comunica che alle ore 0.15 di questa notte mentre
il Commissario Aggiunto dott. Luigi Calabresi ed altri ufficiali di
polizia giudiziaria, nelle persone dei sottufficiali di P.S. Panessa
Vito, Mainardi Carlo, Mucilli Pietro e Caracuta Giuseppe, presente il
Tenente dell'Arma dei Carabinieri LOGRANO Savino, procedevano, nei
locali dell'Ufficio Politico, all'interrogatorio di PINELLI Giuseppe,
nato a Milano il 21.10.1928 qui residente in via Preneste n. 2,
ferroviere, anarchico, fortemente indiziato di concorso nel delitto di
strage commesso contro la Banca Nazionale dell'Agricoltura in Milano,
il medesimo, con repentino balzo, si precipitava da una finestra
socchiusa nel sottostante cortile cadendo al suolo dopo aver urtato
contro i rami di un albero. Immediatamente trasportato al vicino
Ospedale Fatebenefratelli, veniva ricoverato con prognosi
riservatissima per frattura cranica ed altro e vi decedeva alle ore
1.45.
Si fa riserva di ulteriore riferimento.
IL COMMISSARIO CAPO DI P.S.
Dr. Antonino Allegra
Francesco Mancini