A cura della Commissione Lavoro della Federazione Anarchica Milanese
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A suo tempo era stato osannato come audace manager dalle idee
rivoluzionarie e salvatore della FIAT, alla prova dei fatti Marchionne
continua a rivelarsi uguale a tanti suoi predecessori. Dopo avere
annunciato la chiusura irrevocabile di Termini Imerese, scatenando le
proteste dei lavoratori FIAT, Marchionne non ha battuto ciglio e ha
iniziato lo smantellamento dello stabilimento siciliano partendo dalle
piccole cose. In questo caso dalla Delivery Mail, una delle aziende
dell'indotto che ruota intorno allo stabilimento, alla quale era
affidata la pulizia dei cassoni usati nella produzione delle auto e i
cui operai hanno per primi ricevuto la lettera di licenziamento, con
decorrenza dal 1 febbraio, in quanto la FIAT ha rescisso il contratto
di fornitura servizi.
Per tutta risposta, i lavoratori della Delivery Mail dal 19 gennaio
sono saliti sul tetto dello stabilimento dove resistono nonostante il
freddo, a 20 metri di altezza, decisi a tutto: "rimarremo qui fino a
quando non vedremo scritto nero su bianco che i nostri posti di lavoro
sono salvi". L'azione ha subito raccolto la solidarietà della
popolazione, mentre gli operai dello stabilimento FIAT e delle aziende
dell'indotto, appresa la notizia, scendevano in sciopero per un'ora,
effettuando blocchi stradali nella zona circostante.
Ma a Termini si gioca una partita decisiva tra Marchionne, il governo e
i lavoratori. Con lo stabilimento condannato alla chiusura, gli operai
già dopo l'annuncio del 12 gennaio avevano proclamato una serie
di scioperi spontanei e picchetti per bloccare l'afflusso dei pezzi da
assemblare. Tanto è bastato a Marchionne per proclamare il
giorno 27 una serrata a tempo indeterminato, un solo giorno dopo avere
clamorosamente proclamato 2 settimane di cig per tutto il gruppo FIAT.
Mentre governo e sindacati starnazzano "indignati" e impotenti, si
avvicina l'ora della mischia finale: quella tra la FIAT ed i suoi
lavoratori, che in italia potrebbe rappresentare un punto di svolta nel
conflitto tra capitale e lavoro.
A Cassina dè Pecchi, hinterland Milanese, nel polo di ricerca
elettronica e produzione ex gruppo Nokia-Siemens, ceduto tre anni fa
alla Jabil Cm di Bergamo, lavorano attualmente circa 350 addetti, 250
già presenti nel sito, mentre 108 si sono aggiunti provenienti
dallo stabilimento Jabil di Mapello (Bg) in via di chiusura, dove 100
lavoratori sono ancora in Cig. A metà gennaio, la direzione
generale di Cassina, unilateralmente e senza il minimo preavviso,
impone un nuovo orario di lavoro consistente nell'aumento di un'ora di
lavoro per ogni turno "per fare fronte ai nuovi carichi di lavoro".
Come dire, mentre a Mapello molti sono in cassa integrazione, gli altri
devono sgobbare ancora di più per aumentare i profitti
dell'azienda.
Parte immediatamente sin dalle 4 di notte del 18 gennaio lo sciopero a
oltranza con picchetto; cancelli bloccati. Il 19 tentano di entrare il
capo del personale ed il direttore di produzione ma devono rinunciare.
Proseguono sciopero e picchetto anche nella gelida nottata. 20 Gennaio
mattina, nuovo tentativo di entrare al lavoro da parte dei capi e di
parte degli impiegati, il tutto alla presenza di carabinieri e polizia
in minaccioso assetto anti-sommossa, giunti alla Jabil con ben 6 (sei)
cellulari. Il picchetto non cede e, alla fine, il 21 gennaio l'azienda
abbassa la cresta e notifica la rinuncia al nuovo piano dei turni.
Prosegue l'odissea dei lavoratori Alcoa di Portovesme e Fusina. Il
22/1 Sacconi annuncia di avere trovato il marchingegno per fornire alla
multinazionale Usa energia elettrica a basso costo, consentendole di
proseguire l'attività in Italia e salvando così 2.000
posti di lavoro: un Ddl "che introduce misure per garantire la messa in
sicurezza e il potenziamento del servizio elettrico nazionale nelle
isole maggiori".
Ma l'azienda statunitense evidentemente non si fida del governo. Il 26,
durante l'incontro a Roma con governo e sindacati, annuncia la fermata
degli impianti per 6 mesi con inizio dal 6 febbraio, in attesa di nuovi
sviluppi sulle tariffe dell'energia e sulla posizione della commissione
europea. Viene confermata la cassa integrazione per gli 800 lavoratori
di Portovesme (500 diretti, 300 degli appalti) e per quelli di Fusina
(VE).
Per tutta risposta gli operai, che attendevano l'esito della
trattativa, decidono di presidiare la sala riunioni del ministero delle
attività produttive. "L'occupazione della sala - annunciano -
proseguirà fino a quando non verrà sottoscritto dal
governo e dall'azienda un documento in cui ci sia l'impegno a
proseguire la produzione negli stabilimenti italiani".
Il giorno 26, tre lavoratori si incatenano ai cancelli della Centrale
Enel di Portovesme che fornisce energia allo stabilimento mentre inizia
il blocco dei cancelli per impedire entrata e uscita delle merci. Il
28, infine, un migliaio di persone tra lavoratori e familiari, dopo
avere bloccato la circolazione sulla statale 131 "Carlo Felice", si
dirigono all'aeroporto di Elmas, dove alcuni operai bloccano la strada
di accesso al terminal partenze, mentre un altro gruppo entra
all'interno dell'aerostazione innalzando uno striscione con la scritta
"Alcoa: rispetto e lavoro". La lotta continua.
La battaglia per la difesa del posto di lavoro è iniziata
prima di natale e la determinazione sino ad ora mostrata dai lavoratori
fa pensare, e sperare, che continuerà sino a quando non ci
saranno risposte soddisfacenti.
Alla Novaceta di Magenta (MI), fabbrica che produce aceto di cellulosa,
il progetto dei padroni prevede un vero e proprio massacro sociale: 220
lavoratori sono attualmente in cassa integrazione (700 euro al mese),
ma l'obiettivo è la totale dismissione della fabbrica per
realizzare, sull'area in cui sorge lo stabilimento, una colossale
speculazione edilizia.
Nell'ultima settimana del 2009 gli operai hanno organizzato un presidio
permanente, poi, lo scorso 12 gennaio, hanno chiuso la loro assemblea
sindacale salendo sul tetto della loro fabbrica. "Siamo abbandonati
dalle istituzioni: non esiste ancora un piano industriale chiaro", ha
denunciato Giovanni Cippo, rappresentante dell'Allca-Cub. "A farne le
spese maggiori saranno come sempre gli operai". Mentre si attende la
costituzione di un tavolo tecnico fra sindacato e azienda per
affrontare concretamente la situazione, nel frattempo i lavoratori
stanno predisponendo un proprio piano industriale, che comprende
la costituzione di una loro cooperativa.
Abbiamo già parlato, in questa rubrica, delle scelte
politiche dell'asl di Codogno (Lodi), che alla fine del mese di
dicembre, in accordo con i sindacati confederali, ha iniziato il
trasferimento/deportazione delle ospiti dell'rsa al Fatebenefratelli di
s. Colombano. Questa manovra nei fatti avvia il percorso di
privatizzazione proprio a favore del Fatebenefratelli, che
resterà così l'unica struttura sul territorio per la cura
della malattia mentale.
Pochi giorni dopo l'avvio di questo processo, due delle ospiti
trasferite sono morte: è evidente che lo shock emotivo di un
trasferimento così repentino non ha giovato a persone già
molto fragili sul piano psicofisico.
Slai Cobas ed RdB attaccano le scelte dell'asl e invitano i lavoratori
del Fatebenefratelli a bocciare l'ipotesi di accordo portata avanti da
sindacati confederali e confasl, che dà inizio al percorso di
privatizzazione dell'rsa di Codogno. Nei prossimi giorni si terranno
altre iniziative di lotta.