Umanità Nova, n.5 del 14 febbraio 2010, anno 90

Un gennaio di ghiaccio e di fuoco


Il 31 gennaio, scadenza indicata dall'Europa per "vedere" i tracciati preliminari della nuova linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lyon, è passato. L'Osservatorio ha inviato un rapporto preliminare all'UE, sostenendo pomposamente di aver rispettato i tempi. Ma – lo sanno bene – la loro strada, anche in vista dell'avvio dei lavori per il tunnel geognostico di Chiomonte, è tutta in erta salita.
Questo gennaio di ghiaccio si è consumato intorno ai fuochi dei presidi No Tav, che giorno e notte hanno contrastato l'avvio dei sondaggi. Una partita complicata, con molti attori in gioco e le elezioni regionali sullo sfondo. In Piemonte, la campagna elettorale che oppone il leghista Cota alla democratica Bresso si gioca anche sul Tav.
Vale la pena fare un passo indietro.
Il governo della regione e quello nazionale da oltre un anno si rimpallano le responsabilità per il mancato avvio dei primi lavori. Gli uni e gli altri giocano a scaricabarile, in una partita che sanno rischiosa. Nel 2005 il governo Berlusconi fu obbligato ad una rapida e poco dignitosa marcia indietro.
Il presidente dell'Osservatorio tecnico, Mario Virano, già da ottobre aveva annunciato l'inizio dei sondaggi preliminari alla stesura del progetto. L'Europa ha stanziato 671 milioni di euro per la tratta internazionale della linea e vuole i risultati. Entro il 31 gennaio. Pochi hanno creduto alla scadenza, ma tutti sapevano che si trattava di sondaggi politici. Virano e la lobby "Si Tav" dovevano dimostrare di aver sconfitto il movimento. Un movimento divenuto punto di riferimento per chi, su e giù per la penisola, si ribella all'imposizione di discariche, tav, centrali a carbone e turbogas, il mostro sullo stretto...
Siamo a quattro anni dalla rivolta popolare che bloccò i lavori per la nuova linea. Quattro anni in cui il movimento, pur lontano dai riflettori, ha continuato nella sua azione di informazione e contrasto dell'opera. Quattro anni in cui i giochi della politica hanno provato a liquidare una resistenza radicale e radicata, che – al di là dell'opposizione al supertreno – ha dato vita ad un vasto laboratorio politico dove la partecipazione diretta, la diffidenza per la delega, la capacità di cogliere la distanza tra legalità a legittimità ha messo in difficoltà i governi di destra come quelli di sinistra.
In Val Susa la violenza dello Stato, la pretesa di imporre con la forza una scelta non condivisa è stata il detonatore potente della rivolta. La notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005, quando la polizia assalì il presidio No Tav di Venaus, spezzando le barricate, distruggendo le tende e la baracca comune, mandando molti all'ospedale è una memoria difficile da cancellare. In quei giorni di resistenza e di rivolta un'intera vallata si sollevò contro l'occupazione militare.
Poi la parola passò alla politica: il governo Berlusconi offrì un tavolo in cambio della tregua per le Olimpiadi.
In tantissimi avevano appreso il gusto di decidere in prima persona, di praticare la politica dal basso, elidendo le mediazioni istituzionali. Tutto ciò faceva paura, perché incrinava la legittimità stessa delle istituzioni. Di tutte le istituzioni. Così la via d'uscita fornita dal governo Berlusconi venne accolta al volo dagli amministratori valsusini.
Il movimento si oppose sin dai primi giorni al tavolo politico e tecnico sulla Torino Lyon: era chiaro che il governo voleva prendere tempo, per cercare di logorare e dividere il movimento.
L'Osservatorio tecnico ha svolto il suo compito, coadiuvato dalle istituzioni locali, che in buona parte hanno subito le pressioni delle segreterie nazionali, preoccupate di eliminare l'anomalia valsusina: le fasce tricolori dalla testa dei cortei. Il suo presidente, Mario Virano, che nel frattempo era stato nominato da Prodi anche Commissario straordinario per la realizzazione dell'opera, si è mosso con abilità e pazienza, riuscendo, ma non del tutto, a spezzare il fronte istituzionale.
Nel dicembre del 2009 il nuovo presidente della Comunità Montana, il democratico Sandro Plano, eletto grazie all'appoggio determinante di liste civiche vicine al movimento, pare mettere in difficoltà l'Osservatorio. Ma è solo questione di poco. I lavori vanno avanti con o senza la Comunità Montana, con o senza l'assenso degli amministratori che non accettano l'abbandono dell'opzione zero. Ancora una volta si dimostra – ma tra i No Tav è coscienza diffusa – che le regole della "democrazia" valgono solo per chi sta dalla parte giusta, gli altri vengono accompagnati alla porta. I sindaci dovevano recitare la parte loro assegnata, assicurando che – questa volta – le scelte erano state "concordate con le popolazioni dei territori interessati".
La parola, ancora una volta, passa al movimento popolare. Tutti sanno che, oggi come nel 2005, il tav può essere fermato solo dall'azione diretta popolare. Per mesi media e politici hanno martellato un unico chiodo: i No Tav sono rimasti in pochi, la loro è una presenza residuale, dominata dai soliti estremisti anarchici e autonomi.
Questo gennaio di lotta ha provato che Virano, Mattioli, Chiamparino e l'intera banda del buco si sbagliavano. E di grosso. Presidi giorno e notte, blocchi di treni e autostrade, assedio dei mezzi, un corteo imponente, assemblee in strada, contrasto dei lavori sono il segno di un movimento vitale, capace di una resistenza senza se e senza ma ad un'opera inutile, dannosa, che sottrae risorse alla scuola, alla sanità, a trasporti decenti e sicuri per chi studia e lavora e le consegna alla lobby del cemento e del tondino.
Va tuttavia rilevato che il governo ha, almeno in parte, imparato la lezione del 2005 e, in questa fase, ancora tutto sommato interlocutoria e propagandistica, ha modificato le proprie condotte.
Quattro anni fa la scelta di costruire presidi permanenti nei posti dove era annunciata una trivella o dove si doveva impiantare un cantiere mise in seria difficoltà il ministero dell'Interno che reagì con la violenza e la militarizzazione.
In quest'occasione hanno agito con astuzia e prudenza. Hanno annunciato 91 sondaggi, dichiarando in anticipo dove li avrebbero fatti. Una sfida di trasparenza e una sfida alla capacità del movimento di essere contemporaneamente in più posti.
Costruire presidi in un paio di luoghi dove erano previsti sondaggi, ha sì impedito che lì arrivassero le trivelle, ed ha anche costruito dei punti di riferimento e coordinamento delle lotte, ha tuttavia impegnato grandi energie, sottraendole in parte alle iniziative di resistenza alle trivelle che venivano impiantate, a sorpresa, altrove.
Il prefetto di Torino, Padoin, in un'intervista a Repubblica del 30 gennaio, dichiarava con baldanza "nel 2005 eravamo noi ad inseguire i No Tav, oggi sono loro ad inseguire noi. Li lasciamo nei loro presidi e rendiamo possibili i carotaggi dalla parte opposta."
Quello che Padoin non dice è che per piazzare un decimo delle trivelle in tre settimane ha dovuto militarizzare interi quartieri, impiegando centinaia di mezzi e di uomini dell'antisommossa. Se per fare un buco di 10 centimetri è stata necessaria una simile esibizione muscolare, come faranno per i cantieri? Scorteranno ogni camion? Bloccheranno le strade per mesi? Faranno i check point?
I media hanno gridato vittoria, ma mentono sapendo di mentire. I sondaggi che dovevano durare da due a tre settimane l'uno sono andati avanti pochissimo: la trivella che ha lavorato di più non ha oltrepassato i tre giorni.
In valle come a Torino il movimento ha dimostrato che le uniche ragioni dei si tav sono quelle della forza e, con la forza bruta, la militarizzazione di intere città e paesi, l'imposizione con blindati e manganelli, non faranno molta strada.
Le trivelle le hanno portate di notte, scortate da centinaia di uomini e decine di mezzi.
Le hanno piazzate in luoghi inaccessibili o degradati – nella discarica di basse di Stura a Torino, nel piazzale della Sitaf sulla Torino Bardonecchia, all'autoporto di Orbassano. Quelle piazzate nella stazione di Collegno e in quelle di Condove e Venaria sono state contestate e contrastate da un movimento popolare sempre più forte e determinato.
Non sono mancate le intimidazioni e le provocazioni. Due presidi "storici", quello di Bruzolo e quello di Borgone, distrutti da incendi dolosi, le accuse di usare anziani e bambini come scudi umani, le menzogne interessate di Gianni Pibiri della Fillea Cgil che accusa i No Tav di lanci di pietre contro i lavoratori alla stazione di Collegno, i cippi partigiani imbrattati a S. Giorio. Chiamparino ha anche promosso una manifestazione Si Tav a Torino, che si è rivelata un flop clamoroso: poche centinaia di imprenditori, sindacalisti di stato e politici nel chiuso del Lingotto.
I 40.000 No Tav sfilati a Susa il 23 gennaio hanno dimostrato la forza di un movimento le cui ragioni sono ben al di là della difesa del proprio giardino. I No Tav hanno rivendicato la salvaguardia dei beni comuni, della terra, dell'acqua, dell'aria e si sono ripresi la facoltà di decidere, espropriata dalla politica dei potenti.
Quattro anni di Osservatorio Virano sono stati sufficienti ad incrinare il fronte istituzionale, dove le sirene del potere, del denaro e del prestigio suonano più forti, ma non hanno intaccato un movimento che vive della consapevolezza che velocità, crescita, progresso sono miti utili solo ad aumentare i profitti di chi, ogni giorno, lucra sulle nostre vite, portandosi via, la vita e la salute di chi, per campare, deve lavorare.
Nel 2005 le barricate hanno fermato il Tav: i politici gli hanno riaperto la strada.
Anche questa volta – fuori dai giochi della politica che delega ai palazzi – il movimento popolare è stato protagonista di una resistenza che cresce, giorno dopo giorno, notte dopo notte, nella pratica della relazione e del confronto, tra partecipazione diretta e barricata.

Maria Matteo

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