Il 31 gennaio, scadenza indicata dall'Europa per "vedere" i
tracciati preliminari della nuova linea ferroviaria ad alta
velocità tra Torino e Lyon, è passato. L'Osservatorio ha
inviato un rapporto preliminare all'UE, sostenendo pomposamente di aver
rispettato i tempi. Ma – lo sanno bene – la loro strada, anche in vista
dell'avvio dei lavori per il tunnel geognostico di Chiomonte, è
tutta in erta salita.
Questo gennaio di ghiaccio si è consumato intorno ai fuochi dei
presidi No Tav, che giorno e notte hanno contrastato l'avvio dei
sondaggi. Una partita complicata, con molti attori in gioco e le
elezioni regionali sullo sfondo. In Piemonte, la campagna elettorale
che oppone il leghista Cota alla democratica Bresso si gioca anche sul
Tav.
Vale la pena fare un passo indietro.
Il governo della regione e quello nazionale da oltre un anno si
rimpallano le responsabilità per il mancato avvio dei primi
lavori. Gli uni e gli altri giocano a scaricabarile, in una partita che
sanno rischiosa. Nel 2005 il governo Berlusconi fu obbligato ad una
rapida e poco dignitosa marcia indietro.
Il presidente dell'Osservatorio tecnico, Mario Virano, già da
ottobre aveva annunciato l'inizio dei sondaggi preliminari alla stesura
del progetto. L'Europa ha stanziato 671 milioni di euro per la tratta
internazionale della linea e vuole i risultati. Entro il 31 gennaio.
Pochi hanno creduto alla scadenza, ma tutti sapevano che si trattava di
sondaggi politici. Virano e la lobby "Si Tav" dovevano dimostrare di
aver sconfitto il movimento. Un movimento divenuto punto di riferimento
per chi, su e giù per la penisola, si ribella all'imposizione di
discariche, tav, centrali a carbone e turbogas, il mostro sullo
stretto...
Siamo a quattro anni dalla rivolta popolare che bloccò i lavori
per la nuova linea. Quattro anni in cui il movimento, pur lontano dai
riflettori, ha continuato nella sua azione di informazione e contrasto
dell'opera. Quattro anni in cui i giochi della politica hanno provato a
liquidare una resistenza radicale e radicata, che – al di là
dell'opposizione al supertreno – ha dato vita ad un vasto laboratorio
politico dove la partecipazione diretta, la diffidenza per la delega,
la capacità di cogliere la distanza tra legalità a
legittimità ha messo in difficoltà i governi di destra
come quelli di sinistra.
In Val Susa la violenza dello Stato, la pretesa di imporre con la forza
una scelta non condivisa è stata il detonatore potente della
rivolta. La notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005, quando la polizia
assalì il presidio No Tav di Venaus, spezzando le barricate,
distruggendo le tende e la baracca comune, mandando molti all'ospedale
è una memoria difficile da cancellare. In quei giorni di
resistenza e di rivolta un'intera vallata si sollevò contro
l'occupazione militare.
Poi la parola passò alla politica: il governo Berlusconi offrì un tavolo in cambio della tregua per le Olimpiadi.
In tantissimi avevano appreso il gusto di decidere in prima persona, di
praticare la politica dal basso, elidendo le mediazioni istituzionali.
Tutto ciò faceva paura, perché incrinava la
legittimità stessa delle istituzioni. Di tutte le istituzioni.
Così la via d'uscita fornita dal governo Berlusconi venne
accolta al volo dagli amministratori valsusini.
Il movimento si oppose sin dai primi giorni al tavolo politico e
tecnico sulla Torino Lyon: era chiaro che il governo voleva prendere
tempo, per cercare di logorare e dividere il movimento.
L'Osservatorio tecnico ha svolto il suo compito, coadiuvato dalle
istituzioni locali, che in buona parte hanno subito le pressioni delle
segreterie nazionali, preoccupate di eliminare l'anomalia valsusina: le
fasce tricolori dalla testa dei cortei. Il suo presidente, Mario
Virano, che nel frattempo era stato nominato da Prodi anche Commissario
straordinario per la realizzazione dell'opera, si è mosso con
abilità e pazienza, riuscendo, ma non del tutto, a spezzare il
fronte istituzionale.
Nel dicembre del 2009 il nuovo presidente della Comunità
Montana, il democratico Sandro Plano, eletto grazie all'appoggio
determinante di liste civiche vicine al movimento, pare mettere in
difficoltà l'Osservatorio. Ma è solo questione di poco. I
lavori vanno avanti con o senza la Comunità Montana, con o senza
l'assenso degli amministratori che non accettano l'abbandono
dell'opzione zero. Ancora una volta si dimostra – ma tra i No Tav
è coscienza diffusa – che le regole della "democrazia" valgono
solo per chi sta dalla parte giusta, gli altri vengono accompagnati
alla porta. I sindaci dovevano recitare la parte loro assegnata,
assicurando che – questa volta – le scelte erano state "concordate con
le popolazioni dei territori interessati".
La parola, ancora una volta, passa al movimento popolare. Tutti sanno
che, oggi come nel 2005, il tav può essere fermato solo
dall'azione diretta popolare. Per mesi media e politici hanno
martellato un unico chiodo: i No Tav sono rimasti in pochi, la loro
è una presenza residuale, dominata dai soliti estremisti
anarchici e autonomi.
Questo gennaio di lotta ha provato che Virano, Mattioli, Chiamparino e
l'intera banda del buco si sbagliavano. E di grosso. Presidi giorno e
notte, blocchi di treni e autostrade, assedio dei mezzi, un corteo
imponente, assemblee in strada, contrasto dei lavori sono il segno di
un movimento vitale, capace di una resistenza senza se e senza ma ad
un'opera inutile, dannosa, che sottrae risorse alla scuola, alla
sanità, a trasporti decenti e sicuri per chi studia e lavora e
le consegna alla lobby del cemento e del tondino.
Va tuttavia rilevato che il governo ha, almeno in parte, imparato la
lezione del 2005 e, in questa fase, ancora tutto sommato interlocutoria
e propagandistica, ha modificato le proprie condotte.
Quattro anni fa la scelta di costruire presidi permanenti nei posti
dove era annunciata una trivella o dove si doveva impiantare un
cantiere mise in seria difficoltà il ministero dell'Interno che
reagì con la violenza e la militarizzazione.
In quest'occasione hanno agito con astuzia e prudenza. Hanno annunciato
91 sondaggi, dichiarando in anticipo dove li avrebbero fatti. Una sfida
di trasparenza e una sfida alla capacità del movimento di essere
contemporaneamente in più posti.
Costruire presidi in un paio di luoghi dove erano previsti sondaggi, ha
sì impedito che lì arrivassero le trivelle, ed ha anche
costruito dei punti di riferimento e coordinamento delle lotte, ha
tuttavia impegnato grandi energie, sottraendole in parte alle
iniziative di resistenza alle trivelle che venivano impiantate, a
sorpresa, altrove.
Il prefetto di Torino, Padoin, in un'intervista a Repubblica del 30
gennaio, dichiarava con baldanza "nel 2005 eravamo noi ad inseguire i
No Tav, oggi sono loro ad inseguire noi. Li lasciamo nei loro presidi e
rendiamo possibili i carotaggi dalla parte opposta."
Quello che Padoin non dice è che per piazzare un decimo delle
trivelle in tre settimane ha dovuto militarizzare interi quartieri,
impiegando centinaia di mezzi e di uomini dell'antisommossa. Se per
fare un buco di 10 centimetri è stata necessaria una simile
esibizione muscolare, come faranno per i cantieri? Scorteranno ogni
camion? Bloccheranno le strade per mesi? Faranno i check point?
I media hanno gridato vittoria, ma mentono sapendo di mentire. I
sondaggi che dovevano durare da due a tre settimane l'uno sono andati
avanti pochissimo: la trivella che ha lavorato di più non ha
oltrepassato i tre giorni.
In valle come a Torino il movimento ha dimostrato che le uniche ragioni
dei si tav sono quelle della forza e, con la forza bruta, la
militarizzazione di intere città e paesi, l'imposizione con
blindati e manganelli, non faranno molta strada.
Le trivelle le hanno portate di notte, scortate da centinaia di uomini e decine di mezzi.
Le hanno piazzate in luoghi inaccessibili o degradati – nella discarica
di basse di Stura a Torino, nel piazzale della Sitaf sulla Torino
Bardonecchia, all'autoporto di Orbassano. Quelle piazzate nella
stazione di Collegno e in quelle di Condove e Venaria sono state
contestate e contrastate da un movimento popolare sempre più
forte e determinato.
Non sono mancate le intimidazioni e le provocazioni. Due presidi
"storici", quello di Bruzolo e quello di Borgone, distrutti da incendi
dolosi, le accuse di usare anziani e bambini come scudi umani, le
menzogne interessate di Gianni Pibiri della Fillea Cgil che accusa i No
Tav di lanci di pietre contro i lavoratori alla stazione di Collegno, i
cippi partigiani imbrattati a S. Giorio. Chiamparino ha anche promosso
una manifestazione Si Tav a Torino, che si è rivelata un flop
clamoroso: poche centinaia di imprenditori, sindacalisti di stato e
politici nel chiuso del Lingotto.
I 40.000 No Tav sfilati a Susa il 23 gennaio hanno dimostrato la forza
di un movimento le cui ragioni sono ben al di là della difesa
del proprio giardino. I No Tav hanno rivendicato la salvaguardia dei
beni comuni, della terra, dell'acqua, dell'aria e si sono ripresi la
facoltà di decidere, espropriata dalla politica dei potenti.
Quattro anni di Osservatorio Virano sono stati sufficienti ad incrinare
il fronte istituzionale, dove le sirene del potere, del denaro e del
prestigio suonano più forti, ma non hanno intaccato un movimento
che vive della consapevolezza che velocità, crescita, progresso
sono miti utili solo ad aumentare i profitti di chi, ogni giorno, lucra
sulle nostre vite, portandosi via, la vita e la salute di chi, per
campare, deve lavorare.
Nel 2005 le barricate hanno fermato il Tav: i politici gli hanno riaperto la strada.
Anche questa volta – fuori dai giochi della politica che delega ai
palazzi – il movimento popolare è stato protagonista di una
resistenza che cresce, giorno dopo giorno, notte dopo notte, nella
pratica della relazione e del confronto, tra partecipazione diretta e
barricata.
Maria Matteo