Umanità Nova, n.5 del 14 febbraio 2010, anno 90

Sindacalismo vs Sindacato?


"Cari compagni, se vi mando una lettera, invece di un articolo, è perché il secondo dà sempre l'impressione di qualche cosa di definitivo, mentre che la prima si attaglia alle incertezze, ai dubbi, alle contraddizioni anche, di chi non vede ancora chiaro un problema in tutti i suoi aspetti, ma solo in alcuni, e anche questi fino ad un certo punto".
Le parole di Camillo Berneri ("Guerra di Classe"), credo siano un buon inizio per trattare di un argomento attuale e importante quale è il ruolo del sindacato e del sindacalismo. Il quesito, che risulta essere anche un problema, che da tempo mi pongo e per il quale fatico a trovare risposta e soluzione, è il seguente: nell'odierno mondo del lavoro, è possibile considerare separatamente sindacato e sindacalismo? E, se è possibile, per chi propendere? Semplificando la domanda: sindacato o sindacalismo? Solitamente si è portati a considerare i due termini in un rapporto, fra loro, copulativo (sindacato e sindacalismo) e mai disgiuntivo. E questo per un motivo concettuale: il primo termine identifica lo strumento, il secondo, abusando di Malatesta, "il sistema". Di conseguenza, l'uno richiama, in maniera necessitante, l'altro.
Una definizione di sindacalismo, così come comunemente accettato, potrebbe essere la seguente: azione militante del sindacato, che antepone il proprio ruolo a quello di un partito, verso l'ottenimento e la difesa dei diritti fondamentali per e di ogni lavoratore. Ovvero: il sindacalismo è una pratica di rivendicazione e di trasformazione guidata dal sindacato. E come poter definire, allora, il sindacato? Sicuramente come "associazione"; ma associazione di chi? Senza addentrarsi in excursus storici sulla nascita del sindacato, credo sia abbastanza corretto ricondurre il tutto ad un "prima" e ad un "ora".
Prima il sindacato era un'associazione di lavoratori, ora è una "associazione" di specialisti. E se nell'una si poteva notare una perfetta conoscenza dell'ambiente lavorativo e delle istanze di lotta, poiché spesso il sindacato era composto, secondo l'importantissimo concetto dell'autorganizzazione, da lavoratori del settore, nonché dello stesso ambiente di lavoro, nell'altra si denota una particolare distanza dalla realtà lavorativa, conosciuta, più che nel suo aspetto tangibile, attraverso quelle che definirei "istanze burocratiche" (contratti, documenti, procedure, ecc…). Ed il mettere fra virgolette il termine associazione non è casuale. Oggi, infatti, non si può parlare realmente di "associazione di lavoratori", dal momento che il sindacato "tout-court" è diventato una sorta di classe. E nonostante gli sforzi, gli indirizzi e i "tagli" che gli si possano apportare perché appaia il più possibile vicino alla classe lavoratrice, emerge invece, in maniera preponderante, la propria appartenenza ad una logica "di quadro". Un "luogo" chiuso, dunque. Una istituzione da tempo entrata nel circuito della gerarchia e del profitto, che si allontana (tentando di mascherarlo) dalla realtà che, giorno per giorno, si consuma nelle fabbriche, nelle aziende, nelle cooperative, nei campi, negli uffici. E ad essa si delega l'individuale capacità di opporsi ai soprusi. Il lavoratore è portato a delegare, perché il sindacato è, anche e a tutti gli effetti, un luogo di lavoro. Pertanto, chi vi opera, agisce tenendo fra le mani ciò che un lavoratore non può avere in effettivo possesso ed usufrutto: le conoscenze nelle procedure e nei "cavilli" amministrativi. Utilizzando una divisione di bakuniniana memoria, il sindacato ha riproposto la separazione fra "lavoro intellettuale" e "lavoro manuale". E data questa separazione, ogni lavoratore che percepisca una scorrettezza sul lavoro, non può che riferirsi a chi ha più conoscenze, delegandogli, per l'appunto, la capacità di risolvere la controversia. L'opera del sindacato sarà poi quella di intraprendere una via legale (istituzionalizzata) non sempre per risolvere, ma spesso per accomodare il problema. Il lavoratore non ha alcun potere di rivendicazione, se non il far notare una situazione ed aspettare l'azione sindacale. E più un individuo delega, più tende a dimenticare le proprie capacità mettendosi in una condizione di indebolimento e di attendismo.
Partendo da questa visione, che, per quanto drammatica e cruda, è pure reale, credo sia allora valido tentare di intendere "sindacalismo" senza considerar sottointeso "sindacato". Ovvero: salvare "il sistema", la dottrina del sindacalismo, senza dover fare riferimento al suo strumento. Ma è necessario definire il sindacalismo con un'accezione diversa e, meglio, abbreviata, da quella definita poco sopra. Cioè: il sindacalismo è l'azione militante verso l'ottenimento e la difesa dei diritti fondamentali per e di ogni lavoratore. In questa definizione sono contenuti due concetti che devono essere ri-attualizzati, per un miglioramento, o rinascita, della coscienza di classe lavoratrice: azione diretta e volontarismo. L'azione diretta è, da un punto di vista pratico, il gesto rivendicativo concreto espresso dal lavoratore. Da un punto di vista teorico, è la presa di coscienza della propria indipendenza da guide esterne, è l'accorgersi di essere in possesso di una capacità creativa. E' una maturità ideologica che può espletarsi materialmente solo attraverso l'intenzionalità, la volontà di farlo. Il sindacalismo, se dotato di questi concetti, diventa allora "un'arma" che ogni lavoratore può e deve estrarre senza aspettare interventi mediatori fra sé e il padrone. Un'arma che nasce dal sentire comune, di chi vive nello stesso ambiente e fra le medesime difficoltà, che c'è bisogno di un miglioramento delle condizioni, che c'è necessità di emancipazione economica, che occorre unirsi in maniera coordinata per lottare. Ciò che scrivo, non vorrei venisse inteso come un'apologia di un tipo di sindacalismo inteso come unica possibilità di trasformazione sociale. No, non ho intenzione di sollevare la polvere alzata dalla disputa fra Malatesta e Monatte. Voglio semplicemente affrontare la possibile revisione dell'odierno sindacalismo, riconoscendogli il ruolo di mezzo per la lotta economica, usufruibile dal lavoratore. Un mezzo, non certo un fine, e quasi un atteggiamento di collaborazione, azione e rivendicazione. E come mezzo si avvale dell'obbligo del cambiamento e dell'errore, finché non trova "la via giusta" per essere incisivo. E, di nuovo, in quanto mezzo avrà una sua conclusione nel momento in cui ciò che si prefigge di ottenere è stato ottenuto. Ma quale è il blocco teorico ad adottare un sindacalismo così inteso? A mio parere, si è vittime e complici di una visione marxista della classe lavoratrice. Essa assume una identità solo se inserita in un contesto di sviluppo capitalistico e più cresce l'uno, più l'altra dovrebbe aumentare la propria coscienza. Insomma non le si riconosce un'autentica autonomia. E, in altri termini, può farsi portatrice di una tendenza emancipatoria solo se rimane inserita in un ambito capitalistico. Con ciò, le si vieta, indirettamente, di sperimentare la libera organizzazione. Sarebbe invece più corretto dare una lettura anarchica della classe lavoratrice. Quindi riconoscerle una costante indipendenza e intenzionalità a prescindere dal contesto economico. Certo si creerebbe così il problema delle cosiddette "minoranze agenti", che, nonostante la citata autonomia, si muoverebbero come fulcro o "miccia" per l'emancipazione economica della classe, con lo storico pericolo di diventare "autorità". Ma se esse agissero realmente come stimoli, senza fungere da guide, il problema sarebbe meno grave di quanto possa prefigurarsi. Forse noi, in quanto anarchici, dovremmo operare in tal senso. Propagandare che la vera possibilità di rinnovamento ed emancipazione non passa dalle attuali istituzioni sindacali, che si pongono più come gabbie che come incentivo, ma è insita nella volontà umana di ogni lavoratore. Propagandare l'azione diretta. E', certo, un lavoro che ha ostacoli. Il primo è il divieto alla libera iniziativa "non istituzionalizzata"; inoltre, la difficoltà stessa di penetrare in un mondo del lavoro ormai carente di una propria coscienza. E ancora, il riuscire ad abbandonare una pratica sindacale, che fa riferimento ad una concezione di lotta, ormai affermata e consolidata. Infine, i nostri numeri. Che, inutile negarlo, sono scarsi. Ma è raro che la quantità vada d'accordo con la qualità. Quale, invece, il blocco pratico, oggi, all'azione diretta e volontaria, trasformatrice della realtà lavorativa? Essa, infatti, non è applicata né dal sindacato né (salve eccezioni e solo se "con l'acqua alla gola") dai lavoratori. Questo perché il sindacato non ha intenzione di interrompere sistemi gerarchici e di profitti che gli fanno comodo; e il lavoratore, invece, perchè ha appurato che deve "passare" obbligatoriamente per vie sindacali e perchè non ha coscienza della propria capacità e volontà di opposizione e di autorganizzazione. Come anarchico, mi sento di fronte ad un bivio: accondiscendere ad una logica attendista e denigrante per il lavoratore o tentare una via nuova. Seppur (come scritto inizialmente) con i dubbi sia della novità in quanto tale sia dei contenuti di essa, ritornando alla domanda "sindacato o sindacalismo?", rispondo, quindi, che sono a favore di un sindacalismo, purché esso sia un mezzo definito negli ambiti dell'indipendenza e volontarietà del lavoratore, che vuole emanciparsi dalla sua condizione di sfruttato. Alcune pagine importanti della storia operaia nazionale e internazionale, raccontano di lavoratori che, autorganizzati, hanno saputo attivare processi di rivendicazione senza pari. Che ciò sia di sprone! E non si deve dimenticare che è anche all'interno del movimento operaio che si sono trovate le basi per una organizzazione, poi, societaria. Occorre perciò ripartire e "reinvestire" dal e nel mondo del lavoro. Perché, come scriveva Fabbri, "…lo scopo dell'anarchismo contiene e comprende anche il sindacalismo…".

Luca Lattuada

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