"Cari compagni, se vi mando una lettera, invece di un articolo,
è perché il secondo dà sempre l'impressione di
qualche cosa di definitivo, mentre che la prima si attaglia alle
incertezze, ai dubbi, alle contraddizioni anche, di chi non vede ancora
chiaro un problema in tutti i suoi aspetti, ma solo in alcuni, e anche
questi fino ad un certo punto".
Le parole di Camillo Berneri ("Guerra di Classe"), credo siano un buon
inizio per trattare di un argomento attuale e importante quale è
il ruolo del sindacato e del sindacalismo. Il quesito, che risulta
essere anche un problema, che da tempo mi pongo e per il quale fatico a
trovare risposta e soluzione, è il seguente: nell'odierno mondo
del lavoro, è possibile considerare separatamente sindacato e
sindacalismo? E, se è possibile, per chi propendere?
Semplificando la domanda: sindacato o sindacalismo? Solitamente si
è portati a considerare i due termini in un rapporto, fra loro,
copulativo (sindacato e sindacalismo) e mai disgiuntivo. E questo per
un motivo concettuale: il primo termine identifica lo strumento, il
secondo, abusando di Malatesta, "il sistema". Di conseguenza, l'uno
richiama, in maniera necessitante, l'altro.
Una definizione di sindacalismo, così come comunemente
accettato, potrebbe essere la seguente: azione militante del sindacato,
che antepone il proprio ruolo a quello di un partito, verso
l'ottenimento e la difesa dei diritti fondamentali per e di ogni
lavoratore. Ovvero: il sindacalismo è una pratica di
rivendicazione e di trasformazione guidata dal sindacato. E come poter
definire, allora, il sindacato? Sicuramente come "associazione"; ma
associazione di chi? Senza addentrarsi in excursus storici sulla
nascita del sindacato, credo sia abbastanza corretto ricondurre il
tutto ad un "prima" e ad un "ora".
Prima il sindacato era un'associazione di lavoratori, ora è una
"associazione" di specialisti. E se nell'una si poteva notare una
perfetta conoscenza dell'ambiente lavorativo e delle istanze di lotta,
poiché spesso il sindacato era composto, secondo
l'importantissimo concetto dell'autorganizzazione, da lavoratori del
settore, nonché dello stesso ambiente di lavoro, nell'altra si
denota una particolare distanza dalla realtà lavorativa,
conosciuta, più che nel suo aspetto tangibile, attraverso quelle
che definirei "istanze burocratiche" (contratti, documenti, procedure,
ecc…). Ed il mettere fra virgolette il termine associazione non
è casuale. Oggi, infatti, non si può parlare realmente di
"associazione di lavoratori", dal momento che il sindacato "tout-court"
è diventato una sorta di classe. E nonostante gli sforzi, gli
indirizzi e i "tagli" che gli si possano apportare perché appaia
il più possibile vicino alla classe lavoratrice, emerge invece,
in maniera preponderante, la propria appartenenza ad una logica "di
quadro". Un "luogo" chiuso, dunque. Una istituzione da tempo entrata
nel circuito della gerarchia e del profitto, che si allontana (tentando
di mascherarlo) dalla realtà che, giorno per giorno, si consuma
nelle fabbriche, nelle aziende, nelle cooperative, nei campi, negli
uffici. E ad essa si delega l'individuale capacità di opporsi ai
soprusi. Il lavoratore è portato a delegare, perché il
sindacato è, anche e a tutti gli effetti, un luogo di lavoro.
Pertanto, chi vi opera, agisce tenendo fra le mani ciò che un
lavoratore non può avere in effettivo possesso ed usufrutto: le
conoscenze nelle procedure e nei "cavilli" amministrativi. Utilizzando
una divisione di bakuniniana memoria, il sindacato ha riproposto la
separazione fra "lavoro intellettuale" e "lavoro manuale". E data
questa separazione, ogni lavoratore che percepisca una scorrettezza sul
lavoro, non può che riferirsi a chi ha più conoscenze,
delegandogli, per l'appunto, la capacità di risolvere la
controversia. L'opera del sindacato sarà poi quella di
intraprendere una via legale (istituzionalizzata) non sempre per
risolvere, ma spesso per accomodare il problema. Il lavoratore non ha
alcun potere di rivendicazione, se non il far notare una situazione ed
aspettare l'azione sindacale. E più un individuo delega,
più tende a dimenticare le proprie capacità mettendosi in
una condizione di indebolimento e di attendismo.
Partendo da questa visione, che, per quanto drammatica e cruda,
è pure reale, credo sia allora valido tentare di intendere
"sindacalismo" senza considerar sottointeso "sindacato". Ovvero:
salvare "il sistema", la dottrina del sindacalismo, senza dover fare
riferimento al suo strumento. Ma è necessario definire il
sindacalismo con un'accezione diversa e, meglio, abbreviata, da quella
definita poco sopra. Cioè: il sindacalismo è l'azione
militante verso l'ottenimento e la difesa dei diritti fondamentali per
e di ogni lavoratore. In questa definizione sono contenuti due concetti
che devono essere ri-attualizzati, per un miglioramento, o rinascita,
della coscienza di classe lavoratrice: azione diretta e volontarismo.
L'azione diretta è, da un punto di vista pratico, il gesto
rivendicativo concreto espresso dal lavoratore. Da un punto di vista
teorico, è la presa di coscienza della propria indipendenza da
guide esterne, è l'accorgersi di essere in possesso di una
capacità creativa. E' una maturità ideologica che
può espletarsi materialmente solo attraverso
l'intenzionalità, la volontà di farlo. Il sindacalismo,
se dotato di questi concetti, diventa allora "un'arma" che ogni
lavoratore può e deve estrarre senza aspettare interventi
mediatori fra sé e il padrone. Un'arma che nasce dal sentire
comune, di chi vive nello stesso ambiente e fra le medesime
difficoltà, che c'è bisogno di un miglioramento delle
condizioni, che c'è necessità di emancipazione economica,
che occorre unirsi in maniera coordinata per lottare. Ciò che
scrivo, non vorrei venisse inteso come un'apologia di un tipo di
sindacalismo inteso come unica possibilità di trasformazione
sociale. No, non ho intenzione di sollevare la polvere alzata dalla
disputa fra Malatesta e Monatte. Voglio semplicemente affrontare la
possibile revisione dell'odierno sindacalismo, riconoscendogli il ruolo
di mezzo per la lotta economica, usufruibile dal lavoratore. Un mezzo,
non certo un fine, e quasi un atteggiamento di collaborazione, azione e
rivendicazione. E come mezzo si avvale dell'obbligo del cambiamento e
dell'errore, finché non trova "la via giusta" per essere
incisivo. E, di nuovo, in quanto mezzo avrà una sua conclusione
nel momento in cui ciò che si prefigge di ottenere è
stato ottenuto. Ma quale è il blocco teorico ad adottare un
sindacalismo così inteso? A mio parere, si è vittime e
complici di una visione marxista della classe lavoratrice. Essa assume
una identità solo se inserita in un contesto di sviluppo
capitalistico e più cresce l'uno, più l'altra dovrebbe
aumentare la propria coscienza. Insomma non le si riconosce
un'autentica autonomia. E, in altri termini, può farsi
portatrice di una tendenza emancipatoria solo se rimane inserita in un
ambito capitalistico. Con ciò, le si vieta, indirettamente, di
sperimentare la libera organizzazione. Sarebbe invece più
corretto dare una lettura anarchica della classe lavoratrice. Quindi
riconoscerle una costante indipendenza e intenzionalità a
prescindere dal contesto economico. Certo si creerebbe così il
problema delle cosiddette "minoranze agenti", che, nonostante la citata
autonomia, si muoverebbero come fulcro o "miccia" per l'emancipazione
economica della classe, con lo storico pericolo di diventare
"autorità". Ma se esse agissero realmente come stimoli, senza
fungere da guide, il problema sarebbe meno grave di quanto possa
prefigurarsi. Forse noi, in quanto anarchici, dovremmo operare in tal
senso. Propagandare che la vera possibilità di rinnovamento ed
emancipazione non passa dalle attuali istituzioni sindacali, che si
pongono più come gabbie che come incentivo, ma è insita
nella volontà umana di ogni lavoratore. Propagandare l'azione
diretta. E', certo, un lavoro che ha ostacoli. Il primo è il
divieto alla libera iniziativa "non istituzionalizzata"; inoltre, la
difficoltà stessa di penetrare in un mondo del lavoro ormai
carente di una propria coscienza. E ancora, il riuscire ad abbandonare
una pratica sindacale, che fa riferimento ad una concezione di lotta,
ormai affermata e consolidata. Infine, i nostri numeri. Che, inutile
negarlo, sono scarsi. Ma è raro che la quantità vada
d'accordo con la qualità. Quale, invece, il blocco pratico,
oggi, all'azione diretta e volontaria, trasformatrice della
realtà lavorativa? Essa, infatti, non è applicata
né dal sindacato né (salve eccezioni e solo se "con
l'acqua alla gola") dai lavoratori. Questo perché il sindacato
non ha intenzione di interrompere sistemi gerarchici e di profitti che
gli fanno comodo; e il lavoratore, invece, perchè ha appurato
che deve "passare" obbligatoriamente per vie sindacali e perchè
non ha coscienza della propria capacità e volontà di
opposizione e di autorganizzazione. Come anarchico, mi sento di fronte
ad un bivio: accondiscendere ad una logica attendista e denigrante per
il lavoratore o tentare una via nuova. Seppur (come scritto
inizialmente) con i dubbi sia della novità in quanto tale sia
dei contenuti di essa, ritornando alla domanda "sindacato o
sindacalismo?", rispondo, quindi, che sono a favore di un sindacalismo,
purché esso sia un mezzo definito negli ambiti dell'indipendenza
e volontarietà del lavoratore, che vuole emanciparsi dalla sua
condizione di sfruttato. Alcune pagine importanti della storia operaia
nazionale e internazionale, raccontano di lavoratori che,
autorganizzati, hanno saputo attivare processi di rivendicazione senza
pari. Che ciò sia di sprone! E non si deve dimenticare che
è anche all'interno del movimento operaio che si sono trovate le
basi per una organizzazione, poi, societaria. Occorre perciò
ripartire e "reinvestire" dal e nel mondo del lavoro. Perché,
come scriveva Fabbri, "…lo scopo dell'anarchismo contiene e comprende
anche il sindacalismo…".
Luca Lattuada