A cura della Commissione Lavoro della Federazione Anarchica Milanese
bel-lavoro@federazioneanarchica.org
È dallo scorso mese di Maggio che all'Hotel Royal Carlton si
è combattuta una battaglia in piena regola tra la
proprietà, la Emiliana Grandi Alberghi (Gruppo Monrif), e un
gruppo di circa 30 lavoratori, tutti addetti al settore facchinaggio,
pulizia e manutenzione, ai quali la direzione dell'Hotel aveva imposto
l'esternalizzazione alla Manutencoop, una delle tante "Cooperative" che
si prestano ben volentieri a fare questo lavoro sporco.
La lotta che i lavoratori hanno portato avanti in questi mesi con il
sostegno di RdB è stata particolarmente dura: ci sono state
giornate di sciopero, l'occupazione della hall dell'albergo e della
sede della Ascom (che gestiva in prima persona il processo di
esternalizzazione). I lavoratori avevano incontrato da una parte la
durissima resistenza dell'azienda e della Ascom stessa, dall'altra il
comportamento ambiguo di Cgil e Cisl che in tutta la partita hanno
giocato un ruolo determinante nel tentativo di mettere fuori causa il
sindacato di base per meglio far digerire le esternalizzazioni.
Ma tutto questo è stato vano di fronte alla altrettanto dura
resistenza dei lavoratori: il 30 gennaio 2010 il tribunale del lavoro
ha dovuto riconoscere la piena legittimità delle loro richieste,
condannando la Emiliana Grandi Alberghi, oltre che al pagamento delle
spese processuali, al reintegro dei lavoratori che erano stati
addirittura licenziati nello scorso mese di novembre.
Da notare che tutta la mobilitazione è stata effettuata nel
più perfetto silenzio da parte delle autorità cittadine
(di sinistra) che non si sono minimamente curate di quanto accadeva
sotto il loro occhi. Un motivo di più per plaudire ad una
vittoria che, una volta ancora, dimostra come con la lotta si vince.
La ventata di dismissioni, esternalizzazioni e quant'altro che ci
viene quotidianamente propinata dal padronato nostrano si arricchisce
di un ulteriore capitolo: quello che riguarda la Banca Depositaria del
Gruppo Intesa-San Paolo, ovvero la struttura che svolge attività
connesse ai servizi di custodia, back office, amministrazione e
controllo del patrimonio dei suoi Fondi Comuni di Investimento.
L'Intesa-San Paolo, infatti, ha sin dal 22 dicembre scorso dato inizio
alle procedure per la cessione della sua Banca Depositaria e dei suoi
360 lavoratori alla statunitense State Street Bank. Questo anche se in
un accordo precedente era stato convenuto che "il personale interessato
dall'eventuale operazione rientrerà anche giuridicamente in
Intesa Sanpaolo".
Ma come sappiamo "verba volant", soprattutto se da questa cessione si
possono ricavare circa 1.800 milioni di euro. Quindi, secondo
l'Intesa-San Paolo, i 360 devono seguire le sorti della Banca
Depositaria, destinata ad entrare nell'orbita di una banca Usa che ha
già dichiarato la sua intenzione di procedere nei prossimi anni
con l'alleggerimento della sua struttura, ovvero con licenziamenti in
massa dopo avere negli ultimi due anni già licenziato 2.100
lavoratori.
Per questo è già partita la mobilitazione dei lavoratori
che, dopo alcune giornate di sciopero e dopo avere a Torino dimostrato
in massa il 25 gennaio, si sono spostati a Milano dove hanno
manifestato al grido di "San Paolo, vergogna!".
La lotta dei lavoratori, dove la Sallca-Cub è particolarmente
impegnata, sta proseguendo con presidi e volantinaggi davanti alle
principali sedi del Gruppo a Torino e Milano.
Prima firma con Cgil, Cisl e Uil (e la supervisione della regione
Emilia Romagna) il solito accordo al ribasso, senza vincoli né
garanzie, per sei mesi di cassa integrazione più altrettanti in
deroga; poi, a distanza di soli tre mesi, persino quell'accordo
così pesante per i lavoratori diventa carta straccia.
Così la scorsa settimana i padroni della COM Stampa Fini
Compressori di Zola Predosa, nel bolognese, decidono che quanto
concordato non vale più e per 109 lavoratori (su 236) aprono la
procedura di mobilità.
Le vicende di questa azienda sono la triste storia di un lento ma
costante e macabro massacro sociale: prima smantellano i reparti
produttivi e ridimensionano notevolmente i magazzini, quindi iniziano a
delocalizzare ogni prodotto in Cina, dismettendo quasi tutti gli
stabilimenti.
Gli affari sono affari e il profitto conta di più di 109 persone
senza lavoro. Ora a temere per la loro sorte sono tutte le 236 persone
che attualmente vi lavorano.
I motivi di questa decisione non vengono neppure spiegati, ma non ci
vuole molto a comprenderli: i terreni su cui sorge la fabbrica
(regalati alla Fini dal Comune!), una volta chiuso lo stabilimento
daranno la possibilità di sviluppare una redditizia speculazione
immobiliare.
Il "Comitato dei Lavoratori in Lotta" sostenuto dai sindacati di base,
lancia un appello al sostegno e alla mobilitazione, per opporsi a
questa barbarie, ridare forza ai lavoratori, rompere il meccanismo
della delega sindacale e "diventare protagonisti della difesa del
lavoro".
La scorsa settimana un primo corteo a Bologna, ma le iniziative si
moltiplicheranno man mano che aumenterà il rischio chiusura.
Se una cosa si può dire dei lavoratori della Alcoa, è
che giorno dopo giorno dimostrano una tenacia ed una grinta senza pari.
Sono già trascorsi 3 mesi da quando il loro caso è
balzato alla ribalta e da allora sono sottoposti ad uno snervante tira
e molla fatto di annunci e successive smentite mentre proseguono le
trattative tra il governo, l'azienda e l'Unione Europea.
Nonostante tutto però loro non mollano e contro la minaccia
della cassa integrazione e della perdita del lavoro proseguono con
fermezza la loro protesta, ad esempio occupando per 4 ore l'aeroporto
di Cagliari, dove si sono poi confrontati con la polizia in tenuta
antisommossa. Una dimostrazione della loro grinta l'hanno poi
ampiamente fornita sia mentre presidiavano nella giornata del 2
febbraio, e poi per tutta la notte successiva, il palazzo di
Montecitorio durante l'ennesimo ed inconcludente incontro tra governo e
direzione della Alcoa, sia quando, al ritorno in azienda, ancora una
volta a mani vuote e furenti per il comportamento tenuto dall'azienda,
i 500 operai tornati da Roma hanno senza mezzi termini allontanato
dagli edifici i tre dirigenti presenti.
La lotta va avanti.
«Da qui non entra e non esce più niente, non vogliamo
che si portino via i macchinari e i prodotti». Le 320 lavoratrici
dello stabilimento OMSA di Faenza sono scese in lotta contro la
chiusura decisa dalla proprietà, il Gruppo Golden Lady di
Castiglione delle Stiviere (Mn), nome di fama mondiale nel settore
delle calze da donna.
Da tempo lo stabilimento di Faenza è nell'occhio del ciclone e
sono già stati effettuati periodi di cassa integrazione,
l'ultimo dei quali è partito il 18 gennaio. La direzione ha
ultimamente dichiarato lo stato di crisi e ha precisato in 600 gli
esuberi in tutto il Gruppo, che ha stabilimenti sparsi in tutta Italia,
negli Usa ed in Serbia. Ma ormai l'intenzione di delocalizzare è
chiara, magari proprio in Serbia dove il Gruppo Golden Lady ha
già uno stabilimento con 1.600 operai e dove gli stipendi si
aggirano sui 300 euro mensili contro il migliaio pagato in Italia.
Ma a Faenza le operaie non ci stanno e hanno deciso il tutto per tutto
per difendere il posto di lavoro: per questo hanno organizzato il
picchetto e presidiano 24 ore su 24 le entrate dell'azienda per
impedire che – come viene ventilato – i macchinari siano prelevati e
trasferiti altrove.