Umanità Nova, n.5 del 14 febbraio 2010, anno 90

Bel lAvoro


A cura della Commissione Lavoro della Federazione Anarchica Milanese
bel-lavoro@federazioneanarchica.org

Primo successo dei lavoratori dell'Hotel Royal Carlton di Bologna

È dallo scorso mese di Maggio che all'Hotel Royal Carlton si è combattuta una battaglia in piena regola tra la proprietà, la Emiliana Grandi Alberghi (Gruppo Monrif), e un gruppo di circa 30 lavoratori, tutti addetti al settore facchinaggio, pulizia e manutenzione, ai quali la direzione dell'Hotel aveva imposto l'esternalizzazione alla Manutencoop, una delle tante "Cooperative" che si prestano ben volentieri a fare questo lavoro sporco.
La lotta che i lavoratori hanno portato avanti in questi mesi con il sostegno di RdB è stata particolarmente dura: ci sono state giornate di sciopero, l'occupazione della hall dell'albergo e della sede della Ascom (che gestiva in prima persona il processo di esternalizzazione). I lavoratori avevano incontrato da una parte la durissima resistenza dell'azienda e della Ascom stessa, dall'altra il comportamento ambiguo di Cgil e Cisl che in tutta la partita hanno giocato un ruolo determinante nel tentativo di mettere fuori causa il sindacato di base per meglio far digerire le esternalizzazioni.
Ma tutto questo è stato vano di fronte alla altrettanto dura resistenza dei lavoratori: il 30 gennaio 2010 il tribunale del lavoro ha dovuto riconoscere la piena legittimità delle loro richieste, condannando la Emiliana Grandi Alberghi, oltre che al pagamento delle spese processuali, al reintegro dei lavoratori che erano stati addirittura licenziati nello scorso mese di novembre.
Da notare che tutta la mobilitazione è stata effettuata nel più perfetto silenzio da parte delle autorità cittadine (di sinistra) che non si sono minimamente curate di quanto accadeva sotto il loro occhi. Un motivo di più per plaudire ad una vittoria che, una volta ancora, dimostra come con la lotta si vince.

Alla Banca Depositaria del Gruppo Intesa-San Paolo si sciopera contro la "cessione"

La ventata di dismissioni, esternalizzazioni e quant'altro che ci viene quotidianamente propinata dal padronato nostrano si arricchisce di un ulteriore capitolo: quello che riguarda la Banca Depositaria del Gruppo Intesa-San Paolo, ovvero la struttura che svolge attività connesse ai servizi di custodia, back office, amministrazione e controllo del patrimonio dei suoi Fondi Comuni di Investimento.
L'Intesa-San Paolo, infatti, ha sin dal 22 dicembre scorso dato inizio alle procedure per la cessione della sua Banca Depositaria e dei suoi 360 lavoratori alla statunitense State Street Bank. Questo anche se in un accordo precedente era stato convenuto che "il personale interessato dall'eventuale operazione rientrerà anche giuridicamente in Intesa Sanpaolo".
Ma come sappiamo "verba volant", soprattutto se da questa cessione si possono ricavare circa 1.800 milioni di euro. Quindi, secondo l'Intesa-San Paolo, i 360 devono seguire le sorti della Banca Depositaria, destinata ad entrare nell'orbita di una banca Usa che ha già dichiarato la sua intenzione di procedere nei prossimi anni con l'alleggerimento della sua struttura, ovvero con licenziamenti in massa dopo avere negli ultimi due anni già licenziato 2.100 lavoratori.
Per questo è già partita la mobilitazione dei lavoratori che, dopo alcune giornate di sciopero e dopo avere a Torino dimostrato in massa il 25 gennaio, si sono spostati a Milano dove hanno manifestato al grido di "San Paolo, vergogna!".
La lotta dei lavoratori, dove la Sallca-Cub è particolarmente impegnata, sta proseguendo con presidi e volantinaggi davanti alle principali sedi del Gruppo a Torino e Milano.

Contro il rischio di chiusura si mobilitano i lavoratori della COM Stampa Fini Compressori...

Prima firma con Cgil, Cisl e Uil (e la supervisione della regione Emilia Romagna) il solito accordo al ribasso, senza vincoli né garanzie, per sei mesi di cassa integrazione più altrettanti in deroga; poi, a distanza di soli tre mesi, persino quell'accordo così pesante per i lavoratori diventa carta straccia.
Così la scorsa settimana i padroni della COM Stampa Fini Compressori di Zola Predosa, nel bolognese, decidono che quanto concordato non vale più e per 109 lavoratori (su 236) aprono la procedura di mobilità.
Le vicende di questa azienda sono la triste storia di un lento ma costante e macabro massacro sociale: prima smantellano i reparti produttivi e ridimensionano notevolmente i magazzini, quindi iniziano a delocalizzare ogni prodotto in Cina, dismettendo quasi tutti gli stabilimenti.
Gli affari sono affari e il profitto conta di più di 109 persone senza lavoro. Ora a temere per la loro sorte sono tutte le 236 persone che attualmente vi lavorano.
I motivi di questa decisione non vengono neppure spiegati, ma non ci vuole molto a comprenderli: i terreni su cui sorge la fabbrica (regalati alla Fini dal Comune!), una volta chiuso lo stabilimento daranno la possibilità di sviluppare una redditizia speculazione immobiliare.
Il "Comitato dei Lavoratori in Lotta" sostenuto dai sindacati di base, lancia un appello al sostegno e alla mobilitazione, per opporsi a questa barbarie, ridare forza ai lavoratori, rompere il meccanismo della delega sindacale e "diventare protagonisti della difesa del lavoro".
La scorsa settimana un primo corteo a Bologna, ma le iniziative si moltiplicheranno man mano che aumenterà il rischio chiusura.

Alcoa: gli operai allontanano i dirigenti  dallo stabilimento

Se una cosa si può dire dei lavoratori della Alcoa, è che giorno dopo giorno dimostrano una tenacia ed una grinta senza pari. Sono già trascorsi 3 mesi da quando il loro caso è balzato alla ribalta e da allora sono sottoposti ad uno snervante tira e molla fatto di annunci e successive smentite mentre proseguono le trattative tra il governo, l'azienda e l'Unione Europea.
Nonostante tutto però loro non mollano e contro la minaccia della cassa integrazione e della perdita del lavoro proseguono con fermezza la loro protesta, ad esempio occupando per 4 ore l'aeroporto di Cagliari, dove si sono poi confrontati con la polizia in tenuta antisommossa. Una dimostrazione della loro grinta l'hanno poi ampiamente fornita sia mentre presidiavano nella giornata del 2 febbraio, e poi per tutta la notte successiva, il palazzo di Montecitorio durante l'ennesimo ed inconcludente incontro tra governo e direzione della Alcoa, sia quando, al ritorno in azienda, ancora una volta a mani vuote e furenti per il comportamento tenuto dall'azienda, i 500 operai tornati da Roma hanno senza mezzi termini allontanato dagli edifici i tre dirigenti presenti.
La lotta va avanti.

A Faenza le operaie OMSA picchettano i macchinari

«Da qui non entra e non esce più niente, non vogliamo che si portino via i macchinari e i prodotti». Le 320 lavoratrici dello stabilimento OMSA di Faenza sono scese in lotta contro la chiusura decisa dalla proprietà, il Gruppo Golden Lady di Castiglione delle Stiviere (Mn), nome di fama mondiale nel settore delle calze da donna.
Da tempo lo stabilimento di Faenza è nell'occhio del ciclone e sono già stati effettuati periodi di cassa integrazione, l'ultimo dei quali è partito il 18 gennaio. La direzione ha ultimamente dichiarato lo stato di crisi e ha precisato in 600 gli esuberi in tutto il Gruppo, che ha stabilimenti sparsi in tutta Italia, negli Usa ed in Serbia. Ma ormai l'intenzione di delocalizzare è chiara, magari proprio in Serbia dove il Gruppo Golden Lady ha già uno stabilimento con 1.600 operai e dove gli stipendi si aggirano sui 300 euro mensili contro il migliaio pagato in Italia.
Ma a Faenza le operaie non ci stanno e hanno deciso il tutto per tutto per difendere il posto di lavoro: per questo hanno organizzato il picchetto e presidiano 24 ore su 24 le entrate dell'azienda per impedire che – come viene ventilato – i macchinari siano prelevati e trasferiti altrove. 

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