aprile 1999
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1.
C'era una volta la Yugoslavia.
Si fa fatica oggi, guardando la situazione dei Balcani
devastati da un decennio di guerra, a ricordare che è
esistita la Yugoslavia. Nelle analisi dei commentatori,
riferimenti a remote battaglie e ad antichi antagonismi
etno-religiosi tendono ad accreditare l'idea che "da
sempre" serbi e croati, musulmani e albanesi si
siano affrontati all'ultimo sangue in quelle terre di
confine fra Occidente e Oriente, fra Cristianesimo e
Islam. Il regime di Tito viene al più ricordato
con diversi giudizi di valore come l'"artificio"
che per quarant'anni, con un duro autoritarismo e con un
alto tasso di ideologia, ha soffocato i "naturali"
antagonismi etnici, ineluttabilmente "riemersi"
dopo il crollo dei regimi socialisti. Non è questo il
luogo per ripercorrere la storia della Yugoslavia nel
Novecento, nelle due varianti assai diverse in cui un
Paese con quella denominazione, dopo la prima e dopo la
seconda guerra mondiale, comparve sulla carta geografica
europea. Né è interesse prioritario di questo
intervento sollecitare una più ponderata valutazione
della personalità e del regime di Tito, il cui indubbio
"autoritarismo" si coniugò comunque con una
costante preoccupazione per gli equilibri sociali e
istituzionali indispensabili all'integrazione di un Paese
dalla composizione così eterogenea. Quel che mi preme
sottolineare, piuttosto, è che con il trascorrere dei
decenni si erano effettivamente formate, anche
nell'opposizione al regime titino, una cultura e una
società yugoslave. Esisteva una letteratura yugoslava:
basti pensare a un precoce capolavoro come Il ponte sulla
Drina di Ivo Andriç; esisteva un cinema yugoslavo, di
cui ancora recano efficace testimonianza grandi film
sulla dissoluzione del Paese, come Undergound di E.
Kusturiça e Prima della pioggia; esisteva un rock
yugoslavo, omogenea colonna sonora della formazione delle
generazioni più giovani. Mentre lo sviluppo di queste
espressioni artistiche e culturali conduceva a rileggere
la storia dei Balcani, scoprendovi una fitta rete di
scambi e di compenetrazioni tra popoli e culture, si
modificava il tessuto stesso della vita quotidiana: nella
Yugoslavia degli anni '70 e dei primi anni '80, insomma,
ci si amava e ci si odiava, ci si incontrava e ci si
separava per mille motivi. Tra questi, l'"appartenenza
etnica" giocava un ruolo davvero marginale. 2. Imagined
Communities.
Non v'è alcun dubbio che la soluzione yugoslava fosse
una soluzione "artificale": e legittimamente se
ne potevano censurare, come hanno fatto del resto negli
anni migliaia di yugoslavi, i tratti più odiosi e
dispotici. Ma basta uno sguardo alla copiosa letteratura
storica, sociologica e politologica fiorita negli ultimi
anni sulle "nazioni" e sulle "etnie"
per rendersi conto che l'opinione prevalente tra gli
studiosi è che esse stesse siano costrutti artificiali,
comunità immaginate secondo l'efficace e fortunata
definizione di Benedict Anderson. Sono articolati
processi sociali, culturali, politici e amministrativi a
produrre le nazioni e, con esse, l'illusione ottica del
loro carattere "naturale", eterno. Con la
dissoluzione degli apparati di Stato e di partito della
Yugoslavia si è aperto un vero e proprio laboratorio
della costruzione di identità etniche e nazionali, a cui
hanno dato il loro contributo preti e pope, intellettuali
e mercanti, politici e burocrati: si lavora alacremente,
nelle Università di Belgrado e Zagabria, per canonizzare
la purezza delle lingue serba e croata e per apporre il
sigillo della scienza sulla morte del serbo-croato! In
presenza di un'oggettiva scarsità dei beni primari (incolumità
fisica, cibo, tetto), questo vivace laboratorio non
poteva che porre le basi per nuove tragedie, destinate ad
arricchire il copioso inventario degli orrori di questo
secolo: l'appartenenza etno-nazionale è stata giocata
come appartenenza esclusiva, come elemento di secca
riduzione della complessità delle posizioni sociali e
dei percorsi esistenziali degli individui; nazionalismi
rivali, alimentati dai miti della Grande Serbia, della
Grande Croazia, dell'unità degli albanesi dei Balcani,
hanno diviso intere popolazioni, hanno imposto al vicino
di schierarsi contro il vicino, al coetaneo di schierarsi
contro il coetaneo, all'amico di schierarsi contro
l'amico. Una logica di morte ha travolto la Yugoslavia,
fino a celebrare il proprio trionfo nei massacri e negli
stupri etnici, nei campi di concentramento e nelle fosse
comuni della Bosnia. Ma le resistenze a questa logica di
morte non sono macate: l'immagine di Sarajevo assediata
dalle truppe serbe resterà nella coscienza collettiva
non perché ha contrapposto etnia a etnia, appartenenza
ad appartenenza, ma perché ha rappresentato, pur nelle
difficoltà della guerra, l'esempio di chi si è
rifiutato di scegliere intra moenia un nemico per il
quale uccidere e morire.
3.
Ingerenza umanitaria.
Non si può dire che l'"Occidente" abbia
brillato per il proprio appoggio al diritto di diserzione
che tanti abitanti di Sarajevo hanno concretamente
praticato di fronte alle logiche devastanti
dell'appartenenza etnica. Fin dall'immediato
riconoscimento diplomatico accordato dalla Germania e dal
Vaticano alla secessione slovena e croata, che ha dato
formalmente inizio alla guerra nella ex Yugoslavia, è
sembrato anzi che molte potenze occidentali abbiano
guardato con sostanziale favore a una complessiva
riorganizzazione dei Balcani sulla base del principio di
omogeneità etno-nazionale. Francia e Gran Bretagna,
d'altra parte, non sono sembrate per lungo tempo
disprezzare il nazionalismo di Milosevic, prima di
scoprire in lui il nuovo nemico dell'Occidente.
All'insegna della nuova dottrina geo-politica del clash
of civilizations, il principio di omogeneità etno-nazionale
è stato ritenuto evidentemente funzionale da una parte,
sul breve periodo, a ritagliare spazi appunto omogenei e
aperti alla penetrazione dei capitali occidentali;
dall'altra, su tempi più lunghi e con chanche di
successo assai più incerte, a delineare una prospettiva
complessiva di "stabilità regionale",
indispensabile a consolidare il confine orientale
dell'Unione Europea. In questo quadro appare possibile
leggere l'evoluzione della crisi attuale in Kossovo.
L'attacco della NATO alla Federazione Yugoslava ha
determinato l'azzeramento degli spazi di democrazia e di
espressione del dissenso in Serbia (e per questa ragione
è stata criticata dalle forze di opposizione interna a
Milosevic); ha provocato l'accelerazione della "pulizia
etnica" da parte dell'esercito e delle milizie
paramilitari serbe in Kosovo ai danni della popolazione
albanese (come era stato puntualmente previsto dai
rapporti della CIA e del Pentagono); ha legittimato nei
fatti le forze più oltranziste dell'etno-nazionalismo
kosovaro-albanse (l'UCK). La prospettiva di una civile
convivenza di diverse comunità "etniche" in
Kosovo, che rappresentava nominalmente ancora l'obiettivo
dell'"Accordo di Rambouillet", era già stata
messa a dura prova prima dall'involuzione, letteralmente
fascista, del nazionalismo serbo e poi dal secessionismo
armato dell'UCK. I bombardieri della NATO hanno
completato l'opera. E pare arduo pensare al futuro
prossimo dei Balcani, così come esso sta delineandosi
con gli effetti devastanti della guerra in corso sugli
equilibri interni della Macedonia, del Montenegro,
dell'Albania, senza un ruolo permanente - di deterrenza e
di "gendarmeria" - della NATO. In questo senso
potrebbe consolidarsi nel ruolo di potenza regionale
emergente la Turchia, il cui approccio alla questione
kurda, decisamente assai simile a quello di Milosevic
alla "questione albanese" in Kosovo, è
sufficiente a sollevare più di un dubbio sulle pretese
motivazioni "umanitarie" dell'attacco alla
Federazione Yugoslava.
4.
Profughi.
Non credo che siano stati molti i lettori dei giornali
italiani che si sono sorpresi nell'apprendere che in
questi giorni, ai confini con la Slovenia delle province
di Trieste e di Gorizia, decine e decine di cittadini
yugoslavi in fuga dal loro Paese perché hanno disertato
o perché non vogliono essere arruolati nell'esercito di
Milosevic vengono respinti alla frontiera o espulsi dal
territorio italiano come "immigrati clandestini
extracomunitari". Non lo credo perché, negli ultimi
anni, i profughi e i migranti privi di regolare permesso
di soggiorno sono stati presentati con impressionante
regolarità in tutti i paesi europei come una minaccia
all'integrazione europea, come nuovi nemici contro cui
armare le frontiere e pattugliare i mari (due anni fa una
motovedetta della Marina Militare italiana speronò e
fece colare a picco un'imbarcazione albanese carica di
profughi in fuga dalla guerra civile albanese). La stessa
comprensione per la "catastrofe umanitaria"
delle centinaia di migliaia di kosovari espulsi con forza
dalle terre in cui vivevano ha limiti ben precisi: il
Presidente del Consiglio italiano Massimo D'Alema, uomo
di punta della nuova sinistra di governo europea, ha
giustificato la scelta di soccorrere i profughi in
Albania con la "necessità imprescindibile" di
evitare che l'Italia fosse sommersa da una nuova ondata
di boat people. Il punto è che la produzione di
centinaia di migliaia di profughi e di nuovi migranti non
è un aspetto marginale, "incidentale", della
guerra nei Balcani: non si possono comprendere gli
effetti di lungo periodo della guerra prescindendo dal
contributo che essa apporterà al gigantesco processo di
ridislocazione di masse di uomini e di donne nel
continente europeo in atto da anni. Come ha dichiarato
qualche giorno fa Brunson McKinley, direttore generale
dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim)
che in questo momento si occupa del trasporto aereo dei
kosovari, "ci vorranno anni per risolvere la crisi
dei profughi del Kosovo, e molti di loro probabilmente
non torneranno mai a casa, nonostante quel che dicono i
leader occidentali": l'esperienza bosniaca dimostra
chiaramente che non è facile convincere un ragazzo a
tornare nella terra in cui ha visto stuprare la madre o
uccidere il fratello! E che dire degli operai delle
fabbriche serbe distrutte dai missili della NATO? Quanti
di loro cercheranno di ricostruirsi una vita
attraversando, magari "clandestinamente" le
frontiere dell'Unione Europea? Profughi e migranti sono
stati figure chiave, in questi anni, nella trasformazione
delle società e dei mercati del lavoro europei: hanno
spesso pagato il prezzo più alto delle nuove filosofie
neo-liberali della "flessibilità" e sono stati
le vittime sacrificali della xenofobia di cui proprio le
nuove condizioni di insicurezza prevalenti nella "società
del rischio" (U. Beck) hanno agevolato la diffusione
tra la popolazione "autoctona". Da questo punto
di vista la guerra nei Balcani non pone all'Unione
Europea soltanto problemi di "politica estera e
della sicurezza comune" (il cosiddetto "secondo
pilastro" dell'integrazione); chiama in causa lo
stesso modello di società che si va affermando
all'interno dei confini di Schengen. Su questo terreno,
nel prossimo futuro, si giocheranno battaglie decisive.
Sandro
Mezzadra
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