ottobre 1999


Imperia è stata la prima occasione per discutere collettivamente di rappresentanza e di organizzazione. Sul piano teorico è stato individuato un segnale - tanto importante quanto labile - per orientarsi nella terra desolata della politica contemporanea. Segnale necessario certo, ma ancora insufficiente ad indicare una prassi politica e uno stile di lavoro che possano presentarsi come riferimento collettivo. Senza il necessario dibattito collettivo si constata ad esempio che non c'è più il pregiudizio antiparlamentare e anti istituzionale che aveva contraddistinto le fasi precedenti del movimento, ma tuttavia al superamento di questi pregiudizi non è subentrato un diverso giudizio – dignitosamente fondato – sul rapporto con le istituzioni e sui meccanismi elettorali. Nella fase precedente si aveva paura e disprezzo della palude, in quella presente si rischia al contrario di sentire in parte il fascino in parte la necessità di buttarsi in essa con il rischio di venire sommersi. Quando gli argini si rompono l'acqua straripa e nessuno sembra in grado di contenerla o di mapparne i mille rivoli. I due atteggiamenti – estraneità assoluta e ricerca affannosa di sponde istituzionali - appaiono speculari e forieri di antiche querelle che poco hanno a che fare con i problemi contemporanei. Nella prassi politica degli ultimi anni ciascun collettivo territoriale ha fatto le proprie scelte più per ragioni di contingenza e di opportunità – o di invarianza – che per questioni di strategia. Chiamiamo strategia naturalmente non la campagna politica che produce qualche effimero risultato – il finanziamento di un progetto, l'elezione di un amministratore – ma il canone in base al quale si sceglie o meno di avere rapporti con le istituzioni, di candidarsi o di non candidarsi alle elezioni. Ora, se il discorso vuole avere qualche base strategica deve essere invertito il metodo con cui il problema è stato fin qui affrontato. È pernicioso perdersi in interminabili discussioni sulla necessità – contingente e d'opportunità - di presentarsi alle elezioni o di avere rapporti con le istituzioni; la decisione sul se e sul come averli deve costituire l'elemento finale del discorso e non l'elemento iniziale o addirittura unico; occorre accantonare momentaneamente questa discussione e ritornare celermente all'alfabeto della politica come opzione rivoluzionaria. Alfabeto che – va puntualmente ricordato – mette al centro la sfera dei rapporti di produzione, i quali a loro volta in quel nebuloso mondo che chiamiamo la società postfordista – ne abbiamo discusso abbondantemente a Imperia – non sono altro che i rapporti di vita, il modo cioè in cui avvengono le relazioni in ogni sfera della vita. Produrre è vivere può ritenersi il motto della società fordista, il modo su cui si fondavano le relazioni sociali; vivere è produrre lo è della società postfordista. Il centro della discussione dunque deve essere invertito. Dobbiamo indagare se e come le profonde modificazioni nella sfera della soggettività abbiano anche comportato un mutamento nella sfera dell'agire pubblico e se l'agire pubblico della sfera non statale può e come porsi in relazione con l'apparato di Stato. I rapporti con le istituzioni non devono in alcun modo essere frutto dell'autoreferenzialità dei soggetti collettivi. Con l'autonomia del politico ogni collettivo di compagni dovrebbe aver fatto i conti da tempo. Non è dai mutamenti della soggettività politica che bisogna partire: ciò ci farebbe piombare nell'archeologia dello scontro tra riformisti e rivoluzionari. La domanda radicale alla quale occorre rispondere è: quale livello di mediazione politica può e deve sopportare la cooperazione produttiva sulla quale si basano i rapporti di produzione? Se la forma della cooperazione produttiva può vivere altrove o – che è lo stesso – può produrre un altrove – un altro Stato, per esempio – il problema non si pone. È evidente che le istituzioni sono l'alterità, l'inimicizia assoluta, l'estraneità totale. Se invece l'esodo dalla forma salariale e dall'organizzazione gerarchica di produzione si fonda sull'invenzione continua del territorio su cui accamparsi, su cui resistere, su cui produrre altre forme di vita, allora l'indifferenza verso le forme della politica statuale – usurpazione e sintesi della cooperazione produttiva – può consentire l'uso delle scorribande che le popolazioni nomadi hanno sempre attuato contro gli stanziali.
Dunque; primo ragionamento: quale rapporto con l'apparato di Stato è più consono alla forma della cooperazione produttiva?
Secondo ragionamento: che rapporto si esprime fra soggettività politica e cooperazione produttiva generale? Solo dopo il bagno nel mare della produttività generale ci si può sciacquare nella bagnarola della soggettività politica, ovviamente per verificarne la fondatezza prima di pensare a qualsiasi fondazione. E la fondatezza vige tutta nel rapporto tra sfera della cooperazione produttiva generale e sfera dell'autoproduzione della soggettività politica. Senza questo rapporto – di espressione più che di rappresentanza – ogni discorso è vano.
Il terzo ragionamento – ultimo anche per importanza – inerisce al rapporto tra cooperazione produttiva, autoproduzione della soggettività politica e apparato di stato. Qualsiasi rapporto con il terzo elemento della relazione – anch'esso ultimo per importanza – ha senso solo se è in grado di rafforzare gli altri due. La legittimità del rapporto con le istituzione è tutta qui. Banalizzarla a criteri di scelta individuali, geografici, micropolitici o a chissà che tradimenti; enfatizzarla e collocarla al centro dei problemi: ecco errori da non ripercorrere.
Onde non rimanere nel campo fascinoso, ma purtroppo sterile, della chiacchiera si può pensare a una specie di percorso a ostacoli. Superato il primo si procede verso gli altri, da definire in un secondo momento.
Proponiamo un incontro pubblico – da estendere anche a soggetti politici non ancora inseriti nel Laboratorio del Nord Ovest - da svolgersi in tardo autunno su:
A) rapporto con le istituzioni;
B) rappresentanza.
È il caso di segnalare che i problemi posti non riguardano solo i collettivi politici, ma tutto il mondo dell'associazionismo e dell'autorganizzazione. Chiedere finanziamenti, assumere cariche, condurre una trattativa – lo abbiamo detto ad Imperia – non sono banali problemi della morale comunista; riguardano la capacità di spezzare i vincoli gerarchici e salariali della relazione produttiva. Tra associazionismo e collettivi politici vi è stata una bella virata. Qualche anno fa l'identità dei collettivi politici era talmente forte che l'associazionismo risultava se non antagonista almeno totalmente estraneo ad essi. Oggi, viceversa, a volte è difficile distinguere l'attività di un collettivo politico da quella di un'associazione di volontariato se non per soverchia cialtroneria del primo. Questa altalena tra identità granitica e mero volontariato laico necessita di riflessione: forse non sarà restituito alcun baricentro dell'azione pubblica collettiva, ma magari è il caso di ridurre l'oscillazione tra stili di lavoro che a volte sembrano simili a quelli delle segreterie politiche soggettive, altre volte si confondono con quelle da asilo Mariuccia. In tale occasione perciò, come è stato fatto a Imperia e a Milano, al dibattito strettamente teorico dovrà accompagnarsi l'autoriflessione della prassi, che in soldoni significa: quali sono i criteri, quali le necessità e quali gli esiti delle scelte operate territorialmente in campo di rappresentanza – sindacale e politica – e di rapporto con le istituzioni? Significa anche verificare se le scelte corrispondono a strategie definite o a meri problemi legati alla sopravvivenza e alla visibilità dei soggetti politici.
Quanto ai collettivi politici, sarebbe interessante che sciogliessero almeno un nodo della questione. Ci si muove verso un nuovo soggetto politico nazionale o si individua di volta in volta, ciascuno nel suo orto, il cavallo per entrare – quando lo si decide - nell'arena della rappresentanza? Sarebbe utile soprattutto decidere se debba esistere una priorità verso una delle due strategie o se ai fini del potenziamento della cooperazione produttiva la questione può essere indifferente. Appare però certo che le vicende dell'ultimo anno – dovunque stiano le ragioni e i torti, con la scelta di molti tra di noi o vicini a noi di affrontare il problema come se riguardasse esclusivamente il proprio territorio - hanno indebolito le forze di ciascuno e quelle di tutti. Le ha indebolite territorialmente e, cosa di non secondaria importanza, le ha rese meno credibili nelle molteplici trattative che sono state operate con i diversi soggetti politici e istituzionali. La Carta di Milano – che era stata un'utilissima dichiarazione d'intenti collettiva – non ha avuto la forza di proporre e di fondare una prassi comune su questioni così delicate. L'incontro proposto, quindi, dovrebbe servire ad affrontare tali problemi nell'ipotesi che una prassi comune sia possibile. I materiali preparatori dovranno essere preparati per tempo.

Il percorso ulteriore, che per il momento può essere solo abbozzato e che andrebbe discusso nell'incontro proposto, potrebbe essere il seguente.
Definito un percorso teorico, si può pensare alla sperimentazione politica. Sperimentazione significa:
A) verifica dello stato delle relazioni tra cooperazione produttiva generale, autoproduzione della soggettività politica e apparato di Stato negli ambiti territoriali;
B) individuazione dei frammenti della cooperazione produttiva generale che si relazionano territorialmente alla soggettività politica;
C) verifica territoriale della possibilità che il terreno della mediazione politica sia in grado di rafforzare le relazioni tra frammenti della cooperazione produttiva e soggettività politica.
D) Socializzazione a tutti i soggetti politici del Laboratorio del Nord Ovest – e agli altri non ancora presenti - della sperimentazione svolta.


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