
gennaio 1999
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DA
GENOVA, LA PROPOSTA DI COSTITUZIONE DI UN FORUM PER LA
CITTADINANZA1. Chi siamo
I compagni che firmano questo
documento, uniti pur nella diversità dei percorsi
individuali da un sodalizio politico che ha le proprie
radici nell'esperienza del movimento autonomo della
seconda metà degli anni '70, hanno lavorato negli ultimi
anni essenzialmente sulla questione dei nuovi processi
migratori. Parallelamente a un lavoro politico che ha
avuto il proprio centro nel comune riferimento
all'Associazione Città Aperta, fondata nel 1993 dopo gli
scontri di luglio in centro storico, alcuni di noi hanno
promosso un ampio lavoro di ricerca su temi connessi alle
migrazioni, all'interno di un gruppo seminariale
coordinato da Alessandro Dal Lago presso la Facoltà di
Scienze della Formazione dell'Università di Genova.
Questo lavoro di ricerca, che ha prodotto diverse
pubblicazioni (in forma di libri e di numeri monografici
di riviste) e una cospicua mole di materiale empirico (interviste,
rassegne stampa, etc.), si è altresì concretizzato
nell'organizzazione, con il Forum anti-razzista di Genova
e con la Provincia, di un corso per mediatori culturali
rivolto a cittadini di paesi non appartenenti all'Unione
europea (1997). Alcuni di noi, infine, intervengono
regolarmente nel dibattito politico-culturale della
sinistra con articoli pubblicati sia su quotidiani («il
Manifesto») sia su riviste di "movimento" («Luogo
comune», «DeriveApprodi», «Altreragioni»).
2.
Migrazioni, lavoro, cittadinanza
Affrontare la questione
migratoria ha significato per noi misurarci, da
un'angolatura particolare e tuttavia assai significativa,
con l'insieme delle trasformazioni che negli ultimi anni
hanno rimodellato il paesaggio sociale dei paesi a
capitalismo avanzato e, contemporaneamente, la carta geo-politica
e geo-economica del pianeta: la crisi del regime
d'accumulazione fordista, la "globalizzazione",
le metamorfosi del lavoro, la crisi del Welfare State, la
stessa ridefinizione della democrazia e della
cittadinanza.
Dal lavoro è bene partire.
Laddove si consideri oggi la composizione della forza
lavoro nei paesi europei, non può sfuggire il segno
strutturale impresso su di essa dall'urto permanente dei
processi migratori. Formatasi all'incrocio di processi
oggettivi di disarticolazione dell'ordine internazionale
e di dinamiche complesse di soggettivazione, la figura
del migrante contemporaneo riassume in sé un insieme di
valenze politiche, spesso oscurate dalla rappresentazione
"miserabilistica" che dei processi migratori
spesso prevale anche all'interno della sinistra.
a) Emblemi viventi di
quella mobilità del lavoro che ha storicamente imposto
al capitalismo la propria dinamica, i migranti gettano
una luce assai significativa sulle tendenze alla
deregolamentazione e alla flessibilità che negli ultimi
vent'anni hanno ridisegnato il profilo del mercato del
lavoro nei paesi a capitalismo avanzato. Quella che si
configura in prima battuta come una scelta autonoma - la
rivendicazione e la prassi del diritto di fuga dalla
miseria materiale nonché da regimi sociali e politici
tirannici - si rovescia concretamente nell'imposizione di
un regime di precarietà che trova nella condizione del
clandestino la propria esemplificazione più efficace e
più carica di valenze simboliche. Mentre gli autoctoni
sono invitati a farsi "imprenditori di se stessi",
a prendere congedo dal "sogno" di
un'occupazione fissa, a tempo indeterminato e connotata
da caratteri di rigidità, basta uno sguardo agli
sviluppi più recenti della legislazione italiana in
materia di migrazioni per rendersi conto che proprio quel
tipo di occupazione è il criterio normativo che regola
l'accesso ai permessi di soggiorno e all'acquisizione di
diritti per gli uomini e le donne che provengono dai
molti sud del mondo. Di qui deriva il tratto strutturale
della "clandestinità": essa va intesa non solo
come la condizione di radicale privazione di diritti e
soggettività di quanti non hanno accesso ai permessi di
soggiorno e sono dunque costretti a muoversi nei comparti
sommersi dell'economia legale e illegale, ma anche come
minaccia che permanentemente grava su quanti hanno
ottenuto una regolarizzazione per sua natura sempre
precaria.
Impiegati nel settore dei "servizi
personali", nell'edilizia, come stagionali in
agricoltura, i migranti giocano altresì un ruolo
strategico nei distretti industriali italiani più
avanzati, dal nord-est alla pedemontana alle Marche. Nel
cuore dello sviluppo capitalistico "post-moderno"
essi incarnano il prepotente riemergere di una figura che
le retoriche dominanti vorrebbero confinata alla sua
preistoria: il lavoratore muto, macchina umana di infimo
ordine, tool and machine secondo la definizione di Adam
Smith. Margine estremo - e tuttavia fondante - della
cooperazione produttiva, il migrante concentra in sé un
insieme di caratteri che gli attuali processi di "globalizzazione"
mostrano in tutta la loro inquietante modernità: dagli
sweat shops di New York alla cintura della maquilladora,
dalle molteplici forme di lavoro coatto nei paesi del
Golfo Persico e in Brasile all'organizzazione del lavoro
nelle fabbriche cinesi e vietnamite, gli elementi bruti
della coazione al lavoro e del dominio personale
celebrano i propri fasti proprio laddove più stretto è
il rapporto con il mercato mondiale. Nel rappresentare
visivamente questi elementi all'interno delle nostre
opulente società, i migranti ci ricordano quanto essi
siano vieppiù condivisi da fasce rilevanti del lavoro
autoctono: dalle giovani operaie esposte al ricatto del
licenziamento in caso di gravidanza alle mille forme di
un precariato cui corrisponde la condanna all'invisibilità
e all'assenza di diritti.
Negli anni '60 dell'Ottocento
Marx scriveva, pensando all'esperienza degli Stati uniti,
che «il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi in
un paese in cui viene marchiato a fuoco quando è in
pelle nera». Il monito implicito in queste parole
dovrebbe condurre a ritenere imprescindibile, per
affrontare politicamente la questione migratoria, la
riformulazione intransigente di un'opzione
universalistica ed egualitaria sul terreno dei diritti.
Ad essa dovrebbe accompagnarsi lo sviluppo di un nuovo
sindacalismo radicale, capace di dare voce e visibilità
ai migranti e contemporaneamente a tutte le componenti
della forza lavoro che vivono nel cono d'ombra
dell'esclusione sociale. Solo così, infatti, è
possibile aggredire quegli elementi di non-rapporto che
segnano la figura contemporanea della cooperazione
sociale e che trovano un'efficace rappresentazione
proprio nello stigma della clandestinità e nella
trasformazione del migrante in un nuovo nemico pubblico.
b) Quel mondo che, dopo
l''89, si sarebbe dovuto progressivamente unificare nel
segno del "dolce commercio", si presenta così
vieppiù diviso da vecchi e nuovi confini. Confini
esterni, in primo luogo: basti pensare al nuovo regime di
frontiera varato a Schengen e ratificato a Dublino nel
contesto del processo di unificazione europea. Difesi
militarmente non contro ipotetici eserciti stranieri ma
contro uomini e donne alla ricerca di una vita migliore,
i "confini esterni" europei sono oggi un grande
laboratorio sociale, in cui vengono sperimentate nuove
tecnologie di controllo e dominio. Ma al tempo stesso
essi sono la sanzione politica di una divisione
internazionale del lavoro che consente all'imprenditore
nord-estino di far lavorare "fianco a fianco"
il contoterzista di Belluno e le operaie di Timisoara, a
quello pugliese di estrarre plusvalore dalla cooperazione
fra l'artigiano di Monopoli e gli operai di Durazzo. Sono
così messi a valore non soltanto i differenziali
salariali che i confini proteggono dalla "critica
pratica" esercitata dai migranti, ma anche "forme
di vita", regimi sociali e politici incommensurabili.
A questa nuova funzione svolta
dai confini "esterni" nel processo di
globalizzazione (che si potrebbe agevolmente
esemplificare con riferimenti ad aree geografiche diverse
da quella europea) si accompagna una proliferazione dei
confini anche all'interno dei paesi a capitalismo
avanzato. Non diversamente ci pare interpretabile il
prepotente riemergere, negli ultimi anni, di una
questione sociale che torna a essere declinata, non solo
nel discorso pubblico ma anche nelle politiche concrete,
in termini di esclusione. La stessa crescita della
disoccupazione, dal momento che il lavoro continua a
essere il criterio fondamentale di accesso ai diritti e
ai servizi, rientra in questo scenario: ma più in
generale ci sembra che la frantumazione del lavoro, la
tendenza crescente a sostituire forme di contrattazione
individuale al contratto collettivo, la progressiva
erosione, anche all'interno delle grandi fabbriche, di
quella figura del lavoratore a tempo indeterminato su cui
il movimento operaio aveva costruito la propria forza
siano tutti aspetti di una crisi complessiva del modello
che aveva consentito proprio al lavoro di essere matrice
della cittadinanza, vettore di inclusione "democratica"
e di integrazione sociale, per quanto conflittuale.
Ridefinendo le forme della dipendenza del lavoro in uno
spettro che comprende al suo interno la coazione
personale e l'autonomia formale, il capitalismo
contemporaneo sembra aver posto una seria ipoteca sulla
possibilità stessa di una rappresentanza generale del
lavoro, quantomeno nelle varianti storicamente agite dal
movimento operaio negli ultimi decenni. Si tratta dunque
di predisporsi a vivere una fase in cui il problema
fondamentale non potrà essere quello della
ricomposizione immediata del lavoro, nei pur diversi
termini ipotizzati dalla tradizione rivoluzionaria e da
quella riformista, ma la sperimentazione di forme
puntuali di organizzazione e conflitto, che sappiano in
primo luogo dar conto della ricchezza e
dell'articolazione del lavoro vivo contemporaneo.
L'unico orizzonte generale di
"medio periodo" al cui interno si può pensare
di far convergere queste forme puntuali di organizzazione
e conflitto può essere a nostro giudizio quello di un
movimento democratico che sappia riarticolare e innovare
continuamente l'istituto della cittadinanza, in una fase
storica in cui sempre più platealmente ne emerge la
dimensione esclusiva, sia all'interno dei singoli paesi
sia su scala internazionale. Un movimento in cui pratiche
"di classe" e lotte per i diritti possano
confrontarsi e "contaminarsi", nella comune
tensione alla reinvenzione di uno spazio pubblico
condiviso.
3.
Le ragioni del confronto con il Partito della
Rifondazione Comunista
E' nostra convinzione che
l'uscita del PRC dalla maggioranza parlamentare che
sosteneva il governo Prodi segni una decisiva svolta
nella storia del partito. E questo non certo per via
della scissione "cossuttiana", che, pur non
irrilevante dal punto di vista delle sue ricadute sui
livelli della rappresentanza istituzionale, ci pare abbia
avuto un impatto molto limitato sul "corpo" del
partito. Il punto è che, con la fine del governo Prodi,
sono venute meno le condizioni che da una parte avevano
garantito al PRC una forte visibilità "mediatica"
e dall'altra gli avevano consentito di giocare un ruolo
fondamentale di condizionamento e di pressione sulle
politiche del governo. Questa inedita collocazione
istituzionale era tuttavia vissuta, all'interno del
partito, almeno in due modi fondamentalmente diversi: da
una parte essa era considerata in una linea di piena
continuità con la linea politica tradizionale del P.C.I.,
come espressione di un'alleanza di lungo periodo - contro
la minaccia reazionaria delle destre - tra le forze
storiche del movimento operaio, settori di borghesia
illuminata e componenti progressiste del mondo cattolico;
dall'altra parte essa era ritenuta espressione di una
convergenza contingente, ancorché di fondamentale
importanza, tra "due sinistre" per il resto
orientate a perseguire diverse modalità di insediamento
sociale e diversi modelli di società. Per i sostenitori
di questa seconda opzione l'orizzonte del governo non
poteva essere, nelle attuali condizioni storiche, un
orizzonte strategico: la presenza di Rifondazione
all'interno della maggioranza poteva al più avere la
funzione di garantire un effetto di amplificazione, e una
parziale ricaduta sull'azione di governo, a un insieme di
movimenti sociali che sarebbero dovuti risultare da uno
scenario di cui si intuiva con forza la radicale novità.
Indipendentemente dagli sviluppi
istituzionali che hanno condotto alla caduta del governo
Prodi, ci pare che il limite fondamentale contro cui si
è scontrata l'ipotesi politica sostenuta dal Segretario
di Rifondazione sia stato rappresentato proprio
dall'assenza, nel corso dei due anni del governo Prodi,
di significativi movimenti sociali. E occorre
sottolineare, da questo punto di vista, che anche il tema
su cui il partito ha maggiormente investito le proprie
energie militanti - quello delle 35 ore - è stato
guardato con sostanziale freddezza anche da parte di quel
nucleo centrale di classe operaia che si pensava ne
sarebbe divenuto il "naturale" alfiere. Non si
tratta di imputare al PRC un'incapacità di propaganda e
mobilitazione: si tratta di prendere atto della
circostanza che rispetto al paesaggio sociale prodotto
dalle trasformazioni di questi anni, e dunque rispetto
alle condizioni di sviluppo dei movimenti del lavoro e
della società, scontiamo tutti un deficit di conoscenza
pratica e, vorremmo aggiungere, di immaginazione politica.
Crediamo che la ricerca e il
dibattito all'interno di Rifondazione debbano ripartire
da questo dato. E se certo il nuovo scenario
istituzionale pone problemi (di visibilità, in primo
luogo) che siamo ben lungi dal sottovalutare, esso pone
anche al partito una sfida da cui dipende il suo intero
futuro: un corpo politico ampio e articolato, come quello
di Rifondazione, deve saper resistere alla tentazione,
inevitabile, dell'arroccamento identitario, deve saper
mettere in discussione le proprie certezze, deve
predisporsi a rifondare nel quotidiano le ragioni e la
vitalità di una forza politica comunista. E' una grande
avventura politica quella che si prospetta al PRC; e
vogliamo auspicare che le difficoltà e i silenzi di
questi mesi corrispondano alla consapevolezza della
portata dei problemi da affrontare e non preludano invece
alla scelta di scorciatoie organizzativistiche tanto
facili da imboccare quanto politicamente improduttive.
4.
La situazione a Genova
Le difficoltà e i rischi
connessi all'interrogativo di quale azione politica possa
dispiegarsi oggi all'interno del quadro sopra descritto
potrebbero trovare numerosi riscontri da una panoramica,
anche veloce, della situazione genovese.
La chiusura di alcuni centri
sociali (es. Baraonda a Prà), il fallimento sostanziale
dell'intervento tra i medi e gli universitari,
l'impossibilità evidente di un'organizzazione delle
figure presenti al collocamento, l'assenza di
conflittualità operaia, l'estraneità di queste figure
tra loro, impone l'evidenziare alcuni elementi di
riflessione sulla situazione genovese. Nel breve volgere
di alcuni anni un intenso ciclo di privatizzazioni,
dismissioni, prepensionamenti ha portato ad una modifica
strutturale della modalità di produzione ed
accumulazione capitalistica della nostra città e nella
nostra regione. Alla crisi del regime di accumulazione di
tipo fordista è subentrata una realtà che ha visto un
aumento del lavoro manuale (legale o meno) in un'area ad
elevato tasso di disoccupazione,un lavoro manuale
radicalmente diverso da quello che conoscevamo. E' in
realtà su questo enorme serbatoio che le statistiche
definiscono «iscritti al collocamento» che si basa una
notevole parte dell'accumulazione odierna a Genova.
Alla realtà di una situazione
siffatta corrisponde una mancata percezione di sé come
forza produttiva: senza identità non si ha voce né
rappresentanza - neppure delegata - ma richiesta di
assistenza. Altrimenti come spiegare, ad uno sciopero
generale per l'occupazione, l'assenza di quei soggetti
che lo avrebbero dovuto dirigere? Non solo assenti ma
anche estranei. L'alto numero di iscritti al collocamento
testimonia non tanto la «disoccupazione», ma piuttosto
l'esclusione dall'accesso ad un reddito decente e ad una
migliore qualità della vita.
Un altro aspetto, non secondario,
da mettere in rilievo è la durata della giornata
lavorativa, che in generale ha visto un aumento delle ore
di prestazione, all'interno di un quadro di flessibilità
in cui può capitare di rimanere a casa, oppure di
lavorare per due ore, così come se necessario, dodici o
quattordici. Gli infortuni e le morti sul lavoro
nell'edilizia, alla Fincantieri o in porto sono un fatto
frequente che testimonia quanto sia a volte alto il
prezzo imposto al conseguimento di un reddito.
All'interno di questi processi è
"fisiologico" che si sviluppino momenti di
resistenza, di ricerca di tutela sia individuale che
collettiva, che possono variare da atti di ribellione ad
azioni legali. E' nostra convinzione che la presenza del
PRC a Genova possa avere un ruolo fondamentale e
trainante in un'opera di inchiesta e per la
trasformazione in vertenze esemplari di alcune di queste
situazioni (es. lavoro, reddito, qualità della vita).
Le mobilitazioni dei comitati
della Valbisagno sul T.A.V. e del Ponente sulle aree
demaniali sono un riuscito esempio di una risposta su
questo terreno. Più in generale, l'abbandono a se stesse
delle periferie causato dalla fine delle politiche di
welfare che supportavano il compromesso fordista, ha
portato ad un enorme aumento delle cooperative sociali,
che coprono gli spazi lasciati vuoti. Queste cooperative
si reggono sulla figura del socio-lavoratore o del
prestatore d'opera.
La "nebulosa" che ci
troviamo di fronte, senza voce, rappresentanza e identità,
è però anche un terreno su cui sperimentare forme nuove
di organizzazione. Non solo: noi immaginiamo che da
questo magma sociale possano svilupparsi dei conflitti su
cui pensiamo si dovrà misurare il PRC e la sua forma-partito.
Da qui la nostra proposta di costituzione di un forum per
la cittadinanza che vuole essere progetto-ponte di
organizzazione e sperimentazione, possibile istituzione
nascente di nuova soggettività proletaria.
5.
La proposta di costituzione di un Forum per la
cittadinanza a Genova
Si è detto in precedenza che la
qualità nuova dei processi contemporanei di "esclusione
sociale" consiste nel fatto che essi, lungi dal
riguardare soltanto soggetti "marginali",
perimetrano lo spazio comune al cui interno si svolgono
la vita e la cooperazione lavorativa di fasce consistenti
di popolazione. Il punto fondamentale è che, se
tradizionalmente l'escluso di colloca fuori dal ciclo
produttivo, intersecandolo saltuariamente, oggi
l'esclusione è una delle condizioni materiali su cui si
regge la stessa accumulazione capitalistica. Con la
proliferazione di figure lavorative "atipiche",
che fuoriescono dai profili classici su cui si è
costruito lo stesso strumentario giuridico del diritto
del lavoro, lo stigma dell'esclusione finisce per
coinvolgere, direttamente o potenzialmente, anche
soggetti inseriti a pieno titolo, e in posizione
tutt'altro che marginale, nel ciclo produttivo. Contro
ogni tentazione neo-coroporativa il Forum intende porsi
come istanza di ripoliticizzazione della questione
sociale come il luogo in cui le diverse diverse figure
del lavoro vivo contemporaneo, con le loro esperienze di
organizzazione e conflitto, si confrontano nella
prospettiva di costruire e affermare politicamente nuovi
diritti e nuove garanzie universali.
I centri sociali, il movimento
degli "invisibili", pezzi di sindacato,
l'associazionismo, il mondo del "terzo settore"
sono i "naturali" interlocutori della nostra
proposta, tra cui dovranno essere individuati i soggetti
costituenti del Forum. Va da sé, inoltre, che il
confronto con l'amministrazione municipale sarà uno dei
tratti fondamentali delle iniziative del Forum, che
verificherà volta per volta l'opportunità di
intraprendere con essa vertenze conflittuali o forme di
cooperazione. Al Partito della Rifondazione Comunista
proponiamo di assumere la dimensione del Forum come forma
privilegiata attraverso cui ripensare la propria presenza
sul territorio cittadino, senza per questo evidentemente
rinunciare alla specificità della propria azione e delle
proprie strutture di partito, che troveranno nel Forum un
momento essenziale di verifica e di rinnovamento. E' un
punto su cui è bene intendersi: quello che proponiamo
non è la formazione di un'area di movimento e di
opinione che possa costituire il "retroterra"
del partito, ma l'avvio di un processo politico-organizzativo
originale e indipendente, al cui interno possa e debba
essere continuamente verificata la necessità di un
partito comunista all'altezza dei tempi. Per questo
riteniamo utile che il progetto del Forum, sia definito
nelle sue linee fondamentali, venga discusso nelle
sezioni del partito e possibilmente all'interno del
prossimo congresso provinciale.
Il Forum potrebbe articolarsi in
queste strutture:
a) Una Casa delle culture
che si proponga da una parte di suscitare in città,
attraverso la presentazione di libri, l'organizzazione di
seminari e convegni, un ampio dibattito sia sugli aspetti
generali della "grande trasformazione" in atto
sia sulle sue ricadute sul piano locale; e dall'altra di
organizzare, attraverso feste e spettacoli, momenti di
scambio, conoscenza e contaminazione tra le diverse
"culture" presenti sul territorio: da quelle
giovanili a quelle del lavoro a quelle dei diversi nuclei
di immigrati.
b) Una Camera dei diritti
che si proponga da una parte di avviare e coordinare una
grande inchiesta sul lavoro a Genova e in Liguria;
dall'altra di approntare, autonomamente o collaborando
con strutture già esistenti, strumenti efficaci e
flessibili di difesa giuridica dei soggetti non tutelati.
c) Una Convenzione che si
proponga di attuare le iniziative politiche vere e
proprie del Forum, puntando sia alla promozione di
vertenze e di campagne di informazione sia
all'allestimento di progetti mirati alla soluzione di
singoli problemi.
Genova,
gennaio 1999
Roberto
Demontis, Roberto Faure, Sandro Mezzadra, Agostino
Petrillo, Emilio Quadrelli
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