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un_intervento_di_massimo_canevacci_per_questo_seminario.txt · Ultima modifica: 2008/10/28 12:55 da chiudix

Multividuo conflittuale. Interstizi anomici tra la metropoli comunicazionale



Questo saggio parte da alcune fotografie. Esse saranno analizzate in dettaglio in quanto una riflessione sulle forme altre del conflitto deve attraversare il contesto lungo il quale esso si genera: la metropoli comunicazionale che sta subentrando alla città industriale. I processi culturali di tale transito scandiscono mutanti modalità pragmatiche e politiche che rifiutano immobilismi. La dialettica sintetica, le classi sociali, il lavoro industrialista, l’identità fissa svaniscono nell’aria dei pixel respirata ed espirata da nuove soggettività. Se in-dividuo è traduzione latina dal greco atomon, l’indivisibile nucleo del sociale, l’affermarsi tendenziale di un multi-viduo esprime istanze conflittuali e molteplici basate sulla coesistenza all’interno del medesimo soggetto di una molteplicità di “ii” dalle potenziali identità fluttuanti.

- 1. Inizio l’excursus sui conflitti individuali con questa immagine. È una classica fabbrica inglese, la cui architettura industriale configura il controllo dello spazio e delle persone che vi lavorano. Li inquadra come classe, come soggetto collettivo per determinarne tempi e metodi, corpi e desideri. Al suo interno, i conflitti sono noti e vorrei solo sottolineare che, oltre al classico sciopero, spesso azioni di singoli operai hanno praticato il cosidetto sabotaggio. Con tale termine, si intende un’azione clandestina individuale che intacca un segmento della produzione. Il soggetto anonimo esprime il suo contrasto a un sistema produttivo dato o a un sistema politico al potere (fascismo) con azioni “distratte” non individuabili e quindi non perseguibili. Sabotaggio significa, quindi, azione individuale che può esprimere sia un disagio apolitico e sia lo scontro politico in quanto non vi sono altre vie praticabili in un regime dittatoriale. Questa ambiguità tra una scelta di lotta collettiva pubblica e un anonimo conflitto individuale ha accompagnato le stagioni aperte dagli anni ’60. Ma questa immagine sta prefigurando la fase successiva che si è aperta grazie ad alcuni musicisti che sono riusciti a sentire il mutamento prima della politica o degli scienziati sociali. Da una costola del punk britannico, infatti, nascono i Throbbing Gristle che a partire dagli ’80 scelgono la vecchia fabbrica come spazio ex-industriale per comporre musica elettronica trasformando quegli strumenti lavoristi - ormai dismessi - in strumenti musicali industrial. Se la fabbrica è morta, nel suo significato fordista, il luogo del lavoro si trasforma in spazio per una musica inedita.

Una musica graffiata e inaudita come dovrebbe essere la politica.

Una sensibilità acustica e “politica” in senso dissonante esce da queste esperienze che informano un tipo di soggettività. La musica si fa multisensoriale, ingloba spazi e strumenti atipici, si sente col corpo intero che non segue più i movimenti ordinati di una danza standardizzata, ma persegue la bellezza transitiva di muri scrostati, pavimenti polverosi, macchine abbandonate, da cui si emettono pulsioni soniche eXtreme e disordinanti.

Ora il lavoro che non è più il centro che ordina e dà senso a tutto il resto (musica, arte, amore, religione…); le distinzioni tra centro e periferia saltano nelle relazioni vorticose tra produzione, comunicazione, metropoli per frammentarsi in tante macchie di leopardo sempre in movimento. Allo stesso modo, i conflitti iniziano a mescolare produzione, consumo, espressività. Istanze performatiche spingono un soggetto irrequieto ad avere un tipo di attivismo sempre meno segnato dall’omologazione, che invade gli interstizi del “tempo di lavoro”, i cui codici sono influenzati da quei comportamenti di pertinenza del cosiddetto “tempo libero”. Atteggiamenti performativi perseguti tra i luoghi del consumo o del desiderio, si estendono nel lavoro e diventano pragmatiche irregolari e insubordinate alle regole dell’ordine aziendale e persino sindacale. Emergere embrionalmente un pratica politica comunicazionale che diventarà determinante nelle fasi successive, ignorata o perseguita dalla politica istituzionale: l’auto-rappresentazione. I conflitti anonimi hanno nelle pratiche del web nascente un campo di “addestramento” tutto da scoprire.

- 2. Passando alla seconda immagine, essa rappresenta una transizione fondamentale per conflitti lavorativi, mutazioni metropolitane, transizioni espressive. La fabbrica morta, una centrale elettrica al centro di Londra – assieme all’area dei vecchi docks – è gentrificata con lungimiranza politica-urbanistica. In tal modo diventa Tate Modern, il più significativo luogo espositivo di arte contemporanea. Tate Modern accompagna la metamorfosi dalla città industriale alla metropoli comunicazionale: la produce. L’arte - come le soggettività - necessità di ampi spazi su cui vivere le proprie opere; che diventano performatiche come gli spazi del consumo, i parchi tematici, i siti web. Qualcosa connette (non omologa) questa trasformazione delle aree dismesse in spazi metropolitani attraverso la partecipazione performatica di quelli che non sono più frettolosi spettatori. Tate di nome e Modern di cognome.

Tate-ex-fabbrica non ha finestre come tutti gli shopping center. L’osservazione deve essere indirizzata all’interno e non al suo esterno. Dalla foto si può notare che la struttura architettonica è quella classica moderna, design industrialista, prospettiva geometrica squadrata e fissa come quella dell’operaio che ci lavora dentro. In questo senso vi è un’affinità tra architetture e soggettività: quella fabbrica richiede un’identità altrettanto fissa, unitaria, ripetitiva, radicata, omogenea. Al suo interno i conflitti sono quelli ben noti di classe, con la dialettica come arma del pensiero e dell’azione, e la sintesi come visione generale del politico. Eppure già in quella fase iniziano conflitti spontanei e irregolari di singole persone che contestano l’organizzazione aziendale.

I conflitti individuali da anonimi diventano progressivamente anomici. E la differenza è fondamentale. Si sollecitano atteggiamenti ambigui di apppropriazione e di narrazione, voglia di esprimere il proprio punto di vista. In poco tempo, Tate Modern, con la sua pesante struttura architettonica esterna e il mutante design interno, diventa insufficiente per le esposizioni e per una comunicazione simbolica oscillante tra esterno immobile e interno mutante. Singolare affinità con quanto accade ai lavoratori esternamente irreprensibili e internamente dissonanti. E allora, gli architetti che disegnarono la ristrutturazione, Herzog e de Meuron, progettano la costruzione della nuova Tate. Per cui è possibile sostenere che essi sono i politici contemporanei. Le loro scelte architettoniche sono tra le più politiche per attestare la transizione dall’era industriale a un dopo incerto ma che non è post-moderno.

Anomia, auto rappresentazione, interstizi accompagnano i conflitti di soggetti multividuali.

Le forme conflittuali sono simmetriche alla mutazione espressiva della metropoli; tale design architettonico inspira i conflitti che emergono dal suo interno attraverso l’auto-rappresentazione. I soggetti sono stanchi di essere narrati e rappresentati da altri. E le tecnologie digitali favoriscono questo decentramento, un controllo decontrollato produttivo contrattato giornalmente da chi lavora nei diversi luoghi. Il controllo decontrollato apre varchi e interstizi ai conflitti singolarizzati. La sfida di un’antropologia politico-comunicazionale passa sul come la tensione, la dialogica e anche il conflitto tra etero e auto-rappresentazione verrà affrontato e risolto dalle soggettività in gioco. Le metodologie secondo cui antropologi o politici rappresentavano l’altro - con logiche esterne, scritture aliene, autorità discutibili - si sono esaurite sotto le spinte esterne post-coloniali e interne della comunicazione digitale. Con l’auto-rappresentazione i modi plurali attraverso cui quelli che sono stati considerati solo oggetti di studio o di sfruttamento si rivelavo soggetti che interpretano in primo luogo se stessi e poi anche la cultura di antropologi, politici, industriali. E questo vale sia per le culture cosiddette “etniche” che per le culture giovanili. Insomma nuove tecnologie e nuove soggettività sfidano il monopolio obsoleto di una politica scissa dalla metropoli. La comunicazione visuale spezza la delega monologica della rappresentazione dell’altro. Per questo politici e imprenditori non possono rimanere tranquilli e fermi nelle passate certezze: è iniziato il tempo fantastico e fantasioso attraverso cui affermare polifonie linguistiche, stili conflittuali, immagini anomiche, suoni dissonanti presentati da irriducibili multividui.

Si diffonde una combinazione tra atteggiamenti creativi digitali, opposizioni anomiche, conflittualità ludiche. L’hacker inventa virus simbolici di conflitti visibilmente invisibili. Se il verbo inglese to hack significa sfrondare, tagliare, aprirsi un varco tra i codici dei vari software, la ricaduta di tale termine diventa uno stile che incrocia un’arte processuale, auratica/riproducibile, comportamenti connettivi e non collettivi come il soggetto che agisce: il multividuo la cui astuzia anomica penetra un potere percepito non più come struttura da sovvertire, bensì come interstizio da intaccare con guerriglie digitali. E così gli interstizi metropolitani – soggettivi e digitali - diventano il contesto di conflitti fluidi come le identità. Interstizio è una zona poco visibile che si colloca “tra” spazi parzialmente conosciuti e controllati. Interstizio è materiale-e-immateriale come le nuove merci. Merci visuali pregne di feticismi potentemente visuali. Feticismi visuali che si devono penetrare e non osservare a distanza, sfidando il rischio di essere assorbiti, cercando di forare e dissolvere con sguardi allenati le loro proliferazioni. Conflitti anomici infrangono le protezioni cifrate, forano i sistemi di sicurezza informatici, rubano dati, manomettono e scompaginano codici. Interstizio è ubiquo, una pragmatica oscillante tra atti dolosi finalizzati a interessi personali e iniziative di momentanee sovversioni “politiche-senza-polis”. Interstizio è metamorfico dentro-fuori, falso-vero, materiale-immateriale, organico-inorganico tra la metropoli comunicazionale. Astuzia digitale e inventiva multividuale: questi i nodi virali di conflittualità visibilmente invisibili. Si vedano i 15 attacchi hacker più devastanti della storia, tra cui quello alla francese Dassault. L’activism indica le forme hackerate di un’azione diretta che mescola arte digitale e politica irregolare per migliorare la propria vita senza delegare a nessuno la rappresentazione del proprio agire. Attivismi digitali, guastatori mediatici, pacifisti telematici. Le reti sono tessuti pixellati di cambiamenti e conflitti.

Si penetra all’interno di siti inaccessibili e tanto più si è giovani e tanto meglio si riesce al gioco della penetrazione illecita. Al sito del Vaticano si cancella la home page per scriverci quello che si vuole. Lo stesso in tanti forzieri tra i più custoditi del potere mondiale. Le tecnologie digitali hanno questa intrinseca ambiguità che sono verticistiche e maneggevoli, dominanti e decentrabili. Marx direbbe sensibilmente sovrasensibili. Si scoprono chi sono manager corrotti e pagamenti fuori ogni liceità. Si inseriscono nuove parole chiave disturbanti. Non è più il residuo marginale che furbescamente finge di adeguarsi e come può mina l’ordine stabilito. Siamo di fronte a ben altro di quanto lodato da sociologi populisti alla de Certeau.

Lui/lei può stare dentro o fuori, vicino e lontano, essere un furbacchione che pensa al suo tornaconto o un altruista preso da nuove visione del mondo. Rifiutare di pagare la musica come diritto alla cittadinanza digitale o semplice voglia di risparmiare sul reddito. E gli uffici del personale le pensano tutte per controllare l’incontrollabile digitale: imbrigliare il lavoratore che durante l’orario possa navigare tra siti porno o religiosi; mandare mail dall’ufficio con password anomiche. Modificare Youtube o facebook tra una procedura e una pausa caffè.

L’altro termine eXtremo che emerge è anomia, ossessione delle scienze sociali con vocazione a ordine e legalità. Anomia è crisi del concetto di nomos, la cui legge è la totalità sociale che ingabbia le potenzialità del soggetto. Tali conflitti, quindi, si possono interpretare non più come anonimi, cioè senza soggetto: essi sono anomici senza regole: non rispettano “La Legge” (come i Socrate che ci vorrebbero far ripetere all’infinito), bensì colgono il dominio di specifiche leggi come il copyright e lo contestano infiltrandosi tra gli interstizi produttivi o comunicazionali non controllabili. L’anomico non è illegale: è il praticare l’oltre la legalità data e l’anticipare nuove regole decentrabili.

Dall’anonimo all’anomico. L’avvento del digitale espande questa tensione verso una crescente autonomia del soggetto, che si percepisce sempre meno legato a un’identità stabile e fissa, che desidera scorrere su piani multipli delle proprie potenzialità espressive e identitarie. D’altronde i conflitti sul copyright esprimono al massimo questo processo di liberazione dal controllo vetero-industriale sulla fruizione della comunicazione espressiva da parte dei singoli. È politica comunicazionale allo stato anomico.

- 3. Ora se si osserva il progetto della Tate Modern Due, il processo è compiuto. La transizione è avviata ed è chiaro che i vari post (industriale o moderno) diventano obsoleti: quello che emerge con chiarezza è metropoli comunicazionale. Si innalza un edificio sincretico, polifonico, metamorfico dalle sfaccettature irregolari, sovrapposte, diagonali, dissonanti, coabitanti. Soprattutto multiple. Si pratica l’oltre la geometria euclidea, la prospettiva rinascimentale, l’identità lavorista. Simmetricamente a quanto accade ai soggetti più sensibili del lavoro e oltre il lavoro. Già Marx distingueva werke da arbeit: il primo ripetitivo e alienato, il secondo creativo e libero, ma entrambi all’interno della struttura industriale. È tempo di nuovi concetti e opus tenta di esprimere attività mutanti come le identità del soggetto. Si prospettano attenzioni diffuse verso proprie realizzazioni non proiettate in un futuro ipotetico, bensì nel qui ed ora. La voglia di esprimersi cresce con l’estensione di spazi diagonali performativi e con la diffusione delle tecnologie digitali. Queste immanenze spingono il soggetto a cercare composizioni delle proprie identità che siano altrettanto multi-sfaccetate, fluide, irriducibili alle geometrie politiche. Il digitale è non solo tecnologia: è anche potenzialità espressiva che induce auto-rappresentazioni anomiche. Non solo hacker, quindi. Un flusso irresistibile di nuove soggettività emerge e si disperde lasciando detriti nel suo transitare. I comportamenti diventano affini a tali nuove composizioni: penetrando questo progetto - non più avveniristico bensì contemporaneo - si possono immaginare politiche e conflitti del presente-futuro.

Le identità sono il territorio più difficile e conflittuale per tali transiti. A lungo il concetto di identità è stato rivendicato come fondato su radici precise e inamovibili: identità connessa a un lavoro fisso per tutta la vita, a un matrimonio indissolubile, a un territorio conosciuto, una sessualità definita, a una classe-di-età esatta. Lavoro-amore-territorio-generazione inquadravano l’identità dentro una cornice stabile. Ora tutto questo si diluisce in una costante mutazione identitaria che favorisce, specie in alcuni soggetti, la possibilità di vivere molteplicità lavorative, sessuali, spaziali, generazionali come mai prima. Il multividuo – un soggetto che coabita con grappoli inquieti di “ii” – entra in scena e confligge con gli schemi tradizionali del politico.

La crisi del copyright sarà emblematica del proliferare di conflitti anomici e interstiziali: esso esprime un rapporto di potere tra autore e proprietà in conflitto con tecnologie decontrollate. L’autore che ha capito per primo tale processo è Walter Benjamin: l’opera d’arte, dice, non è più auratica, legata a uno spazio e a un tempo dati, connessa a classi aristocratiche borghesi; diventando riproducibile, essa si estende alle classi operaie, libera potenzialità politiche che erano bloccate dal potere classista dell’aura. Ma il digitale trasforma questi dualismi e l’opposizione benjaminiana tra aura e riproducibilità diventa obsoleta. Il riproducibile digitale è anche auratico e l’aura si ibridizza col riproducibile. DAR: Digitale Auratico Riproducibile. Questo lo scenario dei conflitti attuali che si diffonderanno dentro e fuori la futura Tate.

Innesti transurbani, compresenze multi-logiche, sincretismi digitali aprono scenari senza fine. Chi può considerarsi proprietario della propria musica quando viaggia online? E chi è l’autore di un tratto espressivo – musicale e non - quando tutti lo possiamo modificare? Scaricare la musica significa aprire conflitti anomici sul fronte del consumo e della comunicazione: ma anche della produzione. La comunicazione digitale riassume e amplifica le connessioni possibili tra consumo e produzione. I termini di legalità appaiono improprovvissamente retro e comunque inadeguati a intendere quello che sta accadendo. Il decentramento digitale si connette alla molteplicità identitaria di soggettività decentrate.

La Tate Modern Due è un multividuo architettonico, auratico-e-riproducibile, così come un soggetto che naviga tra i siti aziendali è un multividuo anomico. Entrambi producono metropoli di spazi comunicazionali. E tale multividuo non è più determinato dal suo ruolo nel processo produttivo: determina il suo lavoro-opus.

Se osservo adesso la squenza tra i diversi soggetti-architettonici, mutano le relazioni tra politica, partito, conflitti, comunicazione. La frontalità industrialista e mono-prospettica della vecchia Tate è il sintomo di una sinistra rinchiusa in una fabbrica che è stata svuotata delle sue macchine tayloriste e persino dei dispositivi toyotisti per diventare qualcosa di altro e di oltre. Un oltre interno, ancora non pienamente visibile da fuori. Ancora non ha capito, tale sinistra, che la fabbrica è diventata uno spazio ludico e performativo. Quella che sta emergendo di lato manifesta una prorompente multi-spazialità dalle prospettive oblique e diagonali, inquiete geofilie intessono un montaggio simultaneo di codici tra loro asimmetrici e sincretici. Le opere che si potranno contenere al suo interno saranno attratte da tale composizione sensoriale. Essa produce metropoli e comunicazione, non merci. E la metropoli è composizione transitiva di materiale/immateriale. Le persone che si dirigono verso tale agglomerato sono potenziali multividui in attesa di qualcosa che si possa ancora chiamare politica.
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