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DIzionARIO ANTIPSICHIATRICO
esplorazioni e viaggi attraverso la follia
INDICE 1.Introduzione 4.Paradossi psichiatrici 7.Dizionario minimo
  2.Che cos'è
la malattia mentale?
5.Ipotesi di sopravvivenza 8.Bibliografia
3.Che cos'è
l'antipsichiatria?
6.Mitologie
antipsichiatriche
 

PARADOSSI PSICHIATRICI


LE FINESTRE DOVRANNO AVERE UNA PROTEZIONE ADEGUATA. SI RACCOMANDA DI MASCHERARE LE INFERRIATE ARTISTICAMENTE PER EVITARE AL MALATO L'IMPRESSIONE DI ESSERE IN UNA PRIGIONE.

(Da un bando per la costruzione di un Ospedale Psichiatrico)


Nessuna raccomandazione chiarisce meglio di questa la sostanza delle rivoluzioni che la terapia psichiatrica ha subito in quest'ultimo secolo. Mascherare e abbellire sono le parole d'ordine. In molte prigioni psichiatriche il mascheramento è riuscito così bene che non ci sono più inferriate: al loro posto artistici vetri infrangibili danno loro l'aspetto di strutture sanitarie. Non si costruiscono più ospedali psichiatrici, sono stati sostituiti da luoghi che non sembrano affatto delle prigioni, le cui finestre sono abbellite da tendine di pizzo e gli ospiti hanno le chiavi di casa.

Questa rivoluzione viene iniziata dallo psichiatra Pinel, passato alla storia come colui che liberò i matti dalle catene. In realtà Pinel non era mosso da un istinto libertario. Al contrario,



"Philippe Pinel (1745-1826), medico francese prima al Bicetre e poi alla Salpetrière, viene celebrato ai nostri giorni come colui che tolse le catene ai pazzi. Tuttavia egli non voleva liberare i pazienti psichiatrici, ma controllarli con mezzi meno primitivi. Riferendosi al comportamento dei medici del manicomio nei riguardi dei ricoverati, Pinel disse: Per rendere gli effetti della paura solidi e durevoli, la sua influenza dovrebbe essere associata con quella di un profondo rispetto. A questo scopo, perciò i complotti dovrebbero essere evitati o condotti in modo tale da non essere scoperti e la coercizione dovrebbe sempre apparire come il risultato di una necessità..." (SHATZMAN M., in L. FORTI 1979 pag. 17)


Gli innovatori psichiatrici hanno sempre usato questa doppia morale. Le loro pratiche dovevano apparire altre da quelle che erano, la vera natura della psichiatria doveva essere celata ai nostri occhi e alla nostra comprensione. Tutte le terapie psichiatriche così ci sono state presentate come un passo avanti nell'umanizzazione della cura dei pazienti. In realtà erano forme sempre più sofisticate e crudeli di controllo della loro mente e dei loro comportamenti.

L'evoluzione delle pratiche psichiatriche, dall'inoculazione della malaria agli psicofarmaci, non è tanto frutto di approfondimenti o nuove acquisizioni scientifiche sulle cause o sull'eziologia della malattia che affermano di curare, quanto della necessità di mascherare meglio la loro vera funzione.

Così come le diagnosi psichiatriche si aggiornano con il mutamento dei nostri costumi, anche le terapie si adeguano a quella che è via via la nostra sensibilità. Non c'é invero alcuna terapia psichiatrica, per quanto crudele e inutile, ad essere stata dichiarata sbagliata dagli psichiatri o illegale dalla legge. Le terapie psichiatriche cadono semplicemente in disuso, sostituite da forme più accettabili di controllo, oppure vengono aggiornate alle nuove esigenza dell'ipocrisia sociale.
Due tragici esempi: la lobotomia e elettroshock.

La lobotomia è il simbolo di uno scandalo scientifico senza precedenti, vuoi per il premio nobel conferito al suo ideatore, vuoi per i danni irreversibili che ha prodotto e produce in chi lo subisce. Come scrive il dr. Oliver SACKS:



"Il grande scandalo della leucotomia e della lobotomia cessò, al principio degli anni Cinquanta, non a causa di riserve o di mutamenti di tendenza nel mondo della medicina, ma perchè in quegli anni si erano resi disponibili nuovi strumenti - i tranquillanti - che pretendevano (proprio come la psicochirurgia) di portare alla guarigione completa senza indurre effetti collaterali. Se poi, dal punto di vista etico e neurologico, ci sia una grande differenza fra psicochirurgia e tranquillanti, è una domanda inquietante che non è mai stata affrontata davvero". (O. SACKS 1995, pag. 102)


Le parole di Sacks pesano come macigni sulla pretesa scientificità della psichiatria. Vengono da un uomo che più di altri si impegna nello studio e nella cura delle disfunzioni cerebrali e che, quindi, conosce bene quali possano essere gli effetti devastanti di interventi sul cervello umano. Il passo citato è inserito nel racconto clinico di un suo paziente che aveva subito danni irreversibili al lobo frontale a causa di una malattia. Pensare che rendere le persone simili ai pazienti che il neurologo Sacks dispera di curare, sia essa stessa una cura è un vero paradosso, ma sembra non interessare molto gli psichiatri. Del resto essi hanno considerato cure anche infettare esseri umani con la malaria o provocare loro crisi convulsive simili a quelle epilettiche.

La lobotomia non è stata abolita, ne considerata pratica non terapeutica, è andata semplicemente in disuso. Il che significa che si è continuato a praticarla, in maniera certo meno estesa ma non per questo meno distruttiva, in attesa di riproporla, sotto false spoglie e con nuovi accorgimenti tecnici, come nuova frontiera dell'intervento terapeutico in psichiatria.

Non dovremo aspettare molto. In un libro inquietante, a cura degli psichiatri S. Bloch e P. Chodoff, dal titolo paradossale Etica in Psichiatria, un loro collega, il dr. H. MERSKEY, chiarisce drammaticamente il punto di vista della psichiatria scientifica. Dopo aver definito la psicochirurgia come gli "interventi neurochirurgici effettuati su un tessuto apparentemente sano per allievare i sintomi psichiatrici...", il dr. Merskey si rammarica che



"Un recente opuscolo della World Health Organizzation definisce la psicochirurgia come 'la rimozione o distruzione chirurgica selettiva (...) di via nervose con l'intento di modificare il comportamento'. Bridges e Bartlett fanno notare che questa definizione non è corretta perché la maggior parte della psicochirurgia moderna si interessa del trattamento delle malattie affettive gravi e intrattabili, senza alcun effetto voluto sul comportamento, anche se naturalmente il comportamento può essereb alterato dove è direttamente influenzato dalla malattia. Sfortunatamente, negli Stati Uniti, il Department of Health Education and Welfare ha assunto lo stesso punto di vista dell'opuscolo della WHO e ha definito la psicochirurgia come:


1. Chirurgia sul tessuto cerebrale normale di un individuo non affetto da malattia fisica, con lo scopo di modificarne o controllarne il comportamento;

2. Chirurgia su tessuto cerebrale malato di un individuo se il solo obiettivo dell'intervento è quello di controllare, modificare o influenzare i disturbi del comportamento.

Come affermano Bridges e Bartlett, 'una definizione migliore della psicochirurgia contemporanea è: il trattamento chirurgico di certe malattie psichiatriche per mezzo di interventi in specifici siti cerebrali'. Come si vedrà , questa materia è importante perché questa scorretta definizione è servita negli Stati Uniti come base per conclusioni irrazionali che hanno la probabilità di influenzare la disponibilità di certi interventi di valore ".
(H. MERSKEY, in AA.VV. 1995, pag. 258)


Viene da dire che queste affermazioni si commentano da sole. Il libro in questione è stato edito in Italia nel 1995, la versione originale è del 1991. L'innovazione che ci prepariamo a subire consiste nel mascherare ancora una volta il vero scopo e la vera natura dell'intervento psichiatrico. Ciò che il buon senso, l'etica, la medicina e l'Organizzazione Mondiale della Sanità affermano, non ha nessun valore per la psichiatria. Basta cambiare la definizione di ciò che si fa, per far diventare un'azione lecita la distruzione del cervello di un essere umano.

Il cervello di chi è sottoposto a psicochirurgia è solo apparentemente sano, così come lo è il cervello di chiunque, compreso quello del dott. Merskey. La scelta di operare, quindi, non è fatta sulla base di osservazioni cliniche, ma dell'opinione che ogni singolo terapeuta si fa circa la congruità dei comportamenti della persona che si trova di fronte. Non c'é qui, come negli altri interventi psichiatrici, neanche l'ombra di una cura, ma solo un puro e semplice tentativo di controllare il comportamento umano.

Lo scandalo dell'elettroshock non è da meno. Abbiamo scoperto dopo decenni la verità su questa terapia praticata a piene mani nei manicomi. L'osservazione originale da cui prese il via questa sperimentazione, del resto, avrebbe dovuto già metterci sull'avviso. Che a qualcuno venga in mente di far attraversare i corpi di esseri umani viventi dall'elettricità, dopo aver visto fare altrettanto per intontire i maiali del macello di Roma prima di sgozzarli, infatti, la dice lunga sulla reale funzione di tale pratica. Ciò non deve stupirci: si può facilmente mostrare che gran parte delle pratiche psichiatriche non sono pensate per rispondere ai bisogni dei pazienti, ma per piegare la loro naturale resistenza alle cure.

Che questa sia stata storicamente la funzione fondamentale dell'elettroshock in psichiatria, si evince anche dal suo rapido ridimensionamento con l'avvento degli psicofarmaci, strumenti più efficaci e accettabili di controllo (e punizione) del comportamento umano. Nonostante questa rivoluzione psichiatrica e l'esistenza di un movimento scientifico e d'opinione teso a dimostrare la brutalità, l'inutilità e la dannosità di tale trattamento, in nessuna parte del mondo si è riusciti ad arrivare alla abolizione legale dell'uso dell'elettricità per curare o torturare gli esseri umani.

Sperare del resto che gli psichiatri abbandonino tecniche di manipolazione del cervello così radicali e distruttive, è pura follia. E' come se pensassimo che i vivisezionisti possano smettere di seviziare nei modi più atroci le loro cavie animali. Non c'é in loro alcun gusto sadico nel far questo: in realtà essi considerano i corpi dei loro pazienti e delle loro cavie come oggetti e la loro missione scientifica al di sopra di ogni ragione etica.

Ricordiamo che l'elettroshock



" ...consiste in una scarica elettrica, con voltaggio da 180 a 460 volt;

   - provoca un intensissimo attacco convulsivo, identico agli attacchi più gravi di epilessia, ma ancora più forte;
   - durante l'attacco epilettico che segue lo shock elettrico, il cervello aumenta il suo metabolismo del 400%; aumentano anche il flusso sanguigno (del 400%) e la pressione sanguigna locale (del 200%);
   - lo shock danneggia la barriera emato encefalica (uno strato protettivo che impedisce a molte sostanze nocive, che si possono trovare nel corpo, di arrivare al cervello);
   - l'equilibrio biochimico del cervello viene danneggiato dallo shock elettrico: viene inibita la sintesi di proteine, di RNA, compaiono livelli abnormi di neurotrasmettitori e di alcuni enzimi;
   - compaiono alti livelli di acido arachidonico, che possono danneggiare i vasi sanguigni del cervello stesso ".

(R. CESTARI 1994, pag. 82)

La realtà dei danni che l'elettroshock provoca nei nostri cervelli apparentemente sani, è provata da una serie di studi e descritta nel libro di Peter BREGGIN Elettroshock. I danni sul cervello (cfr. P.BREGGIN 1983). Oltre ai gravi problemi segnalati da Cestari, l'autore individua una lunga serie di altri effetti devastanti sulle funzioni cerebrali di chi è sottoposto a elettroshock, prima fra tutti la capacità di ricordare, concludendo che tale pratica andrebbe bandita e vietata dalla legge.

Come ha risposto la psichiatria a queste critiche? Mascherando ancora una volta le grate. Come scrive R. Cestari:



"La maggiore motivazione adottata e usata è che oggi l'elettroshock è molto diverso dai tempi passati: viene fatto sotto anestesia, non si sente alcun dolore e le ossa non si spezzano, né si perdono i denti, poiché all'anestetico viene aggiunta una sostanza che impedisce le contrazioni muscolari".
(R. CESTARI 1994, pag. 83)


Ma

"Un anestetico e un rilassante muscolare non possono in alcun modo inteferire nei danni cerebrali sopra illustrati. Il danno cerebrale è esattamente identico. Diversa è sola la percezione del dolore momentaneo, e non vi è più il rischio di trovarsi con le ossa spezzate ed i denti rotti.

Quello che succede al cervello è determinato solo dal cervello stesso e dalla elettricità: né l'uno né l'altra sono cambiati nel corso degli ultimi 50 anni".
(idem, pag. 83)

Qualcosa del tutto simile all'alternativa che si è trovata alla brutalità delle camice di forza o dei letti di contenzione: i cocktail di psicofarmaci e la terapia del sonno. Oggi non ci scandalizziamo nel vedere una persona ridotta ad uno zombie senza volontà, più di quanto ci scandalizzavamo un tempo nel vederla legata. Riteniamo infatti, oggi come allora, che si tratti di una misura necessaria per evitare che la persona danneggi se stessa o gli altri. L'uso di farmaci in alternativa alle fasce, poi, maschera come sanitario questo intervento di contenzione. Gli psichiatri definiscono la resistenza dei loro pazienti involontari come un vero e proprio sintomo di malattia e, quindi, chiamano terapeutico ogni loro intervento volto a spezzarla.

Ciò che va sotto il nome di psichiatria alternativa italiana, in buona sostanza, non è che quest'opera di mascheramento della sostanza della pratica psichiatrica. Nè deve ingannarci il fatto che essa sia nata proprio dal processo inverso di smascheramento dell'inganno psichiatrico manicomiale. E' possibile, infatti, che gli psichiatri alternativi non abbiano saputo cogliere la radicalità che la loro stessa critica comportava e abbiano finito per perpetuare il mostro che intendevano distruggere.

Scriveva, infatti, BASAGLIA:



"Non è che noi prescindiamo dalla malattia, ma riteniamo che per avere un rapporto con un individuo, sia necessario impostarlo indipendentemente da quella che può essere l'etichetta che lo definisce. Io ho rapporto con un uomo non per il nome che porta ma per quello che è. Quindi nel momento in cui dico: questo individuo è uno schizofrenico (con tutto ciò che per ragioni culturali è implicito in questo termine), io mi rapporto a lui in modo particolare sapendo appunto che la schizofrenia è una malattia per la quale non c'é niente da fare: il mio rapporto sarà solo quello di colui che si aspetta soltanto della 'schizofrenicità' dal suo interlocutore. E' quindi comprensibile come - su queste basi - la vecchia psichiatria avesse relegato, imprigionato e escluso questo malato, per il quale riteneva non vi fossero mezzi né strumenti di cura. Per questo è necessario avvicinarsi a lui mettendo fra parentesi la malattia, perchè la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento, che va oltre il significato reale della malattia stessa. (...) La depsichiatrizzazione è un po' il nostro leit- motiv. E' il tentativo di mettere fra parentesi ogni schema, per agire in un terreno non ancora codificato e definito. Per incominciare non si può che negare tutto ciò che è intorno a noi: la malattia, il nostro mandato sociale, il ruolo. Neghiamo cioè tutto ciò che può dare una connotazione già definita del nostro operato. Nel momento in cui neghiamo il nostro mandato sociale, noi neghiamo il malato come malato irrecuperabile e quindi il nostro ruolo di semplici carcerieri, tutori della tranquillità della società; negando il malato come irrecuperabile, neghiamo la nostra connotazione psichiatrica; negando la nostra connotazione psichiatrica, neghiamo la sua malattia come definizione scientifica; negando la sua malattia, depsichiatrizziamo il nostro lavoro e lo iniziamo su un terreno tutto da arare " (BASAGLIA F. 1968, pagg. 31-32)


Viene da chiedersi cosa sia nato da questo lavoro e che frutti abbia portato.

Da qualche parte ho letto una dichiarazione di Basaglia che suonava più o meno così: 'Bene, ci rendiamo conto che, con la chiusura del manicomio e il rientro in famiglia e società di un gran numero di reclusi psichiatrici, abbiamo alterato il vostro prezioso equilibrio. Siamo disponibili però a lavorare al vostro fianco per affrontare e risolvere i problemi che nasceranno da questa convivenza'. Proposito nobile, ma destinato a riproporre, come poi è avvenuto, il vecchio schema di controllo manicomiale.

Perché?

Mi sono convinto che nel discorso volto all'umanizzazione e alla trasformazione del modo in cui vengono trattate le persone che riteniamo affette da malattia mentale, niente sia veramente cambiato e niente possa probabilmente cambiare. Se come Basaglia si mette fra parentesi la malattia mentale, e cioè si mette fra parentesi la questione circa l'esistenza, la natura e la cura di una tale patologia, per affrontare la questione dello smantellamento delle istituzioni totali, della trasformazione delle condizioni di vita degli internati e del loro reinserimento sociale, non si intacca necessariamente la logica e la realtà dell'esclusione e dell'internamento psichiatrico. Al contrario, le si ripropone.
Il fatto di trattare meglio le persone, non significa trattarle da persone. Iniettare un farmaco endovena sembra, almeno apparentemente, meglio che essere legati ad un letto. Ma nell'uno come nell'altro caso, il fine ultimo di queste azioni è analogo: impedirci di muoverci e di agire liberamente. La necessità che giustifica entrambi gli atti è la stessa: la cura e il controllo dei nostri comportamenti.

Trattare le persone da malate di mente significa sostituirle nelle loro scelte e decidere della loro esistenza. Poco cambia, dal loro punto di vista, se altri decidono di rinchiuderli in un manicomio o in una casa famiglia, niente cambia se usano le parole o le botte per convincerli a cambiare idea: ciò che rimane invariato è il giudizio attraverso cui, per definizione, noi perdiamo il controllo della nostra esistenza.

Allo psichiatra che fa disegnare margherite e prati a Francesco per distrarlo dall'idea di essere un extraterrestre, non sfiora mai il dubbio che ciò possa essere vero, così come non sembrava vero al suo collega che lo internava al reparto agitati del manicomio. Che i pensieri di Francesco possano essere condivisi da qualcuno o produrre, nel bene e nel male, effetti concreti nella vita delle persone che ha intorno, è e rimane fuori discussione tanto se si trova di fronte uno psichiatra manicomiale che uno alternativo.

Il fine ultimo del manicomio non è poi tanto diverso, ad esempio, da quello delle case famiglia: confinare Francesco in un ambiente protetto in cui la sua idea, se non potrà essere piegata, sarà quantomeno contenuta. In un caso e nell'altro, la diagnosi impedirà che venga considerata una cosa seria, frutto della sua esperienza e della sua emozione, così come i muri, ancora una volta, impediranno il contatto fra questa idea è il patrimonio di idee e di uomini che si aggirano sul nostro pianeta.

Se la situazione sociale di Francesco è certamente cambiata con la dimissione dal manicomio, non è certa cambiata la sua vita. Mi rendo conto che affermazioni come questa possano essere difficili da accettare e apparire come un voler forzare la realtà dei fatti. Come si può dire che assumere dieci gocce di serenase tre volte al giorno, sotto controllo medico, sia uguale ad essere lobotomizzati? Come si può affermare che participare al torneo di calcetto per utenti dei servizi psichiatrici, sia la stessa cosa che essere abbandonati nelle proprie feci, nudi, sul pavimento di qualche reparto?

Dal nostro punto di vista non è certo la stessa cosa acconsentire alla lobotomia di un nostro caro o praticarla noi stessi su di loro, rispetto al versare delle gocce di nascosto nel loro piatto di minestra. Allo stesso modo non è indifferente se giochiamo a calcio con loro, invece di prenderli a calci quando tentano di ribellarsi alle cure e scappare.

Ma proviamo a metterci nei loro panni. Ognuno di noi ha probabilmente qualcosa in cui credere o comunque crederà nella verità dei propri sentimenti e pretenderà rispetto per le sue idee e le sue emozioni. I credenti amano dire che non di solo pane vivono gli uomini, ed è probabilmente vero. Noi ci sentiamo di esistere solo se sentiamo che in qualche modo l'esistenza dei nostri sentimenti, delle nostre idee, delle nostre percezioni, è riconosciuta e riesce ad influire sull'esistenza altrui.

La nostra mano che afferra una sedia e la scaraventa contro il vetro del reparto psichiatrico, non è una mano umana, ma una cosa che spinge un'altra cosa contro una terza cosa. Non viene riconosciuto a questo gesto la natura di un'azione cosciente, e quindi umana, ma l'espressione di forze inarrestabili e oggettive come la forza di gravità.

La rabbia, così come ogni altro sentimento, ci individua come esseri umani e ci rende vivi e inaggirabili. Provate a pensare alle volte in cui avete provato questo sentimento senza riuscire ad esprimerlo o, peggio ancora, senza ottenere alcun riscontro in chi vi sta accanto. Provate a moltiplicare questa sensazione di impotenza e di inesistenza per un milione di volte, tante sono le occasioni in cui ogni giorno gli utenti psichiatrici si scontrano con la realtà dell'inesistenza delle loro idee o dei loro sentimenti.

Ho ancora dentro le orecchie le grida di una ragazza dispersa in un reparto psichiatrico, un milione di anni fa, che non voleva essere confinata nel letto vicino alla finestra. Se ne andava in giro battendo i piedi e gridando che non ce la faceva più, non voleva entrare in quel letto, non voleva essere inghiottita da quel luogo. Si aggirava sola, scansata dagli altri coatti e dal personale del reparto. Tutti la osservavano come in genere guardiamo le persone che ci sembrano fissate, cercando di non ascoltarle e, soprattutto, rimanendo indifferenti a quello che dicono o di cui si lamentano.

Era una situazione infernale, la ragazza era un'anima in pena, ma nessuno di noi si sentiva il suo carnefice. Ognuno trovava normale che venisse presa e costretta a tacere, con le buone o con le cattive. Tutti pensavano che il fatto che smettesse di lamentarsi fosse un segno di guarigione e che costringerla in quel letto fosse una forma di terapia. Inutile dire che in nessuna delle nostre menti sensate passava neanche l'ombra dell'idea che lo stesso risultato lo avremmo ottenuto liberandola da quel posto.

Nessuna persona che affermi di voler prendersi cura di noi getterebbe del sale sulle nostre ferite, ma cercherebbe semmai di curarle. Nel caso della ragazza noi non vedevamo alcuna ferita da curare, così gettevamo del sale per farle capire che non c'era alcuna ferita. Potremmo dire che le ferite dell'anima non sono visibili a chi pensa che non abbiamo più un anima, dei sentimenti, una mente o un'esistenza umana. Era per questo che la ragazza gridava, fra una fiala e l'altra, senza che questo ricordasse a nessuno di noi le paure che teniamo nascoste fra le pieghe della nostra esistenza.

Il problema della psichiatria non è mai stato quello di capire perchè la ragazza stesse gridando, ma farla smettere di gridare. Solo così infatti essa si guadagna lo status di scienza medica e terapeutica. Per anni non ci siamo interrogati su come facesse ad ottenere quei risultati, oggi lo facciamo e quello che andiamo scoprendo non ci rende certo orgogliosi di essere sani.

Ciò che a mio avviso è sfuggito tragicamente a Basaglia, e continua a sfuggire a tutta la nuova psichiatria, è il fatto che non è possibile pensare di costruire un rapporto dialettico fra il gridare della ragazza e l'esigenza di dormire dei suoi, continuando a definire quel gridare una patologia e il sonno una cosa normale.

Se il gridare è sintomo di una malattia, esso non ha voce e non è sentito, con esso non ci si confronta ma lo si estirpa. Così gridare dentro casa propria o in un reparto manicomiale non cambia la sostanza del fatto che si rimane soli, abbandonati e inascoltati. Si è comunque inesistenti, indipendentemente dal fatto che si sia prigionieri o meno di un luogo fisico o di un luogo comune, poichè le nostre stesse parole, così come le nostre azioni e i nostri pensieri, non sono più nostre, non parlano di noi ma della malattia di cui altri dicono noi siamo affetti.

E' un paradosso insolubile quello di chi definisce altri malati di mente e poi cerca di trattarli da persone. Un malato di mente non è una persona perché, per definizione, non è capace di scegliere autonomamente e di gestire la sua vita secondo il suo punto di vista. Un malato di mente non può essere trattato da persona, perché ogni rapporto con lui è finalizzato a fargli cambiare idea e a curarlo della malattia di essere quello che è. Non si tratta di fargli mancare un tetto, del cibo o dei vestiti, ma di azzerrare ogni sua possibilità di avere credito ed essere considerato responsabile di ciò che pensa, vuole e fa.

Se togliamo questo ad una persona, quello che resta è un corpo, un oggetto inanimato, che può essere smontato e rimontato, appeso ad un filo o esposto in piazza, lasciato libero o legato al letto, tenuto su o addormentato, preso a calci o accarezzato, riempito di aria o di elettricità...

Questo è ciò che la psichiatria ancora oggi fa. Quello che ancora oggi noi le permettiamo. L'unica cosa che del resto può e sa fare.