D I A L O G O Stanotte molto sonno, anche ieri molto sonno, ma stanotte
mi sembrava di sentire voci che non distinguevo e ho acceso la radio per
non sentirle.
Stamattina in cucina, mentre facevo il
caffè, sentivo:
<<con la
tua radio non abbiamo potuto dormire
>>
(Sara)
Le voci, quindi, sembrano avere una mente autonoma, una propria volontà, una propria coscienza e memoria. Esperienze come quelle di Sara mostrano che non è possibile liquidare le voci come mere produzioni della nostra biochimica alterata o proiezione dei nostri desideri inconsci. Le voci pensano, sentono, ricordano e agiscono, come ognuno di noi, per raggiungere un fine o evitare un pericolo. Le voci non dormono se si tiene accesa la radio. Paradossalmente questa tecnica, usata da molti uditori alla ricerca di un suono che riesca a sovrastarle, le tiene spesso solo sveglie e incazzate. Così, anche quando si riesca ad addormentarsi, al risveglio le si ritroverà lì ancora più crudeli e vendicative di prima. Il rifiuto di dialogare con le voci , si è già detto, non è un passo avanti nel cammino della conoscenza razionale del mondo, è piuttosto una strategia culturale per far fronte al terrore e alla crisi che questa, e altre esperienze del genere, aprono nel nostro ordine sociale e mentale. Dialogare con le voci, infatti, può significare smettere di essere quelli che gli altri si aspettano che siamo, smettere di comportarci in ossequio a leggi e a norme penali, morali e sociali condivise, smettere di confermare, con la nostra, l’esistenza e l’identità degli altri: in altre parole, sfuggire al controllo della nostra mente e delle nostre azioni. Il che non significa essere necessariamente liberi, ma piuttosto non essere più sottoposti ai limiti della realtà condivisa. E’ questo che probabilmente rende ai nostri occhi più pericolosi le persone che definiamo folli rispetto a quelle che chiamiamo criminali. In qualche modo sentiamo che i criminali, nell’infrangere le leggi, confermano la loro esistenza e l’esistenza di una realtà condivisa. I folli invece sembrano agire privi di qualsiasi finalità conosciuta, stravolgendo l’ordine di ciò che riteniamo reale. Se sappiamo cosa aspettarci da un criminale, rimaniamo interdetti di fronte all’universo di possibilità e radicalità che un folle ci porta davanti. Francesco d’Assisi sui tetti non è molto lontano da Giorgio costretto a scendere dal pullman di linea con cui aveva deciso di schiantarsi contro un muro (secondo la versione condivisa) o, meglio, aveva deciso di attraversarlo (secondo la sua propria versione). Non sono diversi se non altro perchè alla base dei loro gesti c’è la percezione che la realtà, così come la descriviamo, non esiste. Non solo. Sono molto simili rispetto alla crisi che aprono nel nostro sistema di controllo sociale. Essi hanno infranto la legge ma senza dolo. Vanno controllati ma non può essere dato loro lo status di persone sensate. Non sono criminali perchè non possono esserlo: se li ritenessimo tali dovremmo prendere sul serio i loro moventi e le loro ragioni, dovremmo riconoscerne l’esistenza. Non va dimenticato che Francesco, come Giorgio, compie un altro crimine che rimane impunito: nel rifiutare la propria identità e il proprio ruolo sociale, stravolge l’identità di chi gli sta accanto. Andrebbe indagato a fondo su come ci si sente ad essere le madri, i padri e i fratelli di un santo o di uno che tale si professa. Sicuramente non troveremo solo il disagio sociale a cui questo ci espone, ma un profondo disorientamento dovuto al rifiuto esplicito da parte del nostro congiunto di essere quello che ci aspettiamo che sia. Se Giorgio smette di fare il bravo padre di famiglia, non mette in pericolo solo la situazione economica dei suoi figli, manda in frantumi anche e soprattutto l’ordine mentale di tutti coloro che sul suo ruolo e sulla sua funzione di padre e di marito hanno costruito la loro identità e il senso delle loro azioni. Lina, quando riesce a sfuggire alla persecuzione psichiatrica, se ne va in giro per stazioni e università affermando di avere 25 anni e di chiamarsi Olga, parla dei suoi genitori a Milano e afferma di essere studentessa in medicina. In realtà (nella realtà condivisa) pare che abbia superato i quaranta e che i suoi genitori siano due anziani pensionati siciliani. Infrange le leggi, Lina. Va in giro sprovvista di biglietto. Non solo. Rifiuta di riconoscere la sua famiglia come la sua. Suo figlio è suo fratello. Lei non si è mai sposata, non ha mai subito l’affronto e la violenza di quell’uomo che dicono essere padre di quei suoi 2 figli. Saranno forse i figli e la vita di Lina, non i suoi. Olga fa un’altra vita, ha altre prospettive. Posso sentire chiaramente i pensieri che ci passano in mente quando ascoltiamo storie di questo genere. Crediamo che il dolore e la violenza del marito abbiano portato Lina a rimuovere gli anni e l’identità vissuti con lui. Per non soffrire lei si è come inventata una storia e una vita parallela, a cui ha finito per credere. Non dico che questo ragionamento non sia sensato o non possa essere condiviso. Credo soltanto che un’idea del genere, pur nascendo dalla volontà di comprendere Lina, porta a conseguenze paradossalmente disumane. Definendo illusoria la nuova identità di Lina, noi ne neghiamo esplicitamente l’esistenza e tendiamo a riportare Olga nel corpo e nella vita di chi ella non è più e, probabilmente, non è mai stata. Ciò che chiamiamo accettazione della realtà non è altro se non l’imposizione, a volte cieca, dell’idea che ci siamo fatti della vita e della realtà altrui. Olga non può che essere Lina. Nonostante sappiamo che la vita di Lina non vale la pena di essere vissuta, ella dovrà tornare a viverla, perchè questa è la realtà. La nostra sola preoccupazione è che lei accetti di essere quella che noi crediamo sia. La nostra identità non coincide necessariamente coi fatti o le scelte visibili della nostra esistenza sociale. Se c’è un atto o dei testimoni che provino il fatto che Lina si sia sposata, non è possibile che lei affermi di non esserlo. In realtà si può non essere sposati nonostante si siano fatti gli inviti, si sia entrati in una chiesa, si sia comprata una casa e si sia fatti un viaggio di nozze. Essere sposati implica anche il sentirsi sposati. Possiamo vivere questo e altri eventi della vita senza prendervi parte. Un po' come fanno i prigionieri dei campi di concentramento o i coatti dei reparti psichiatrici di tutto il mondo. Se torniamo a Francesco d’Assisi apparirà poi chiaro che le trasformazioni che possono avvenire in noi sono di una tale natura da soppiantare radicalmente ogni nostra identità. Francesco non era più il giovane rampollo del commerciante di tessuti di Assisi, non era più il guerriero, l’erede del patrimonio familiare. Come Lina, ora, in qualche modo, sapeva di non esserlo mai stato. La sua vera natura e identità si mostrava solo ora con la sua nudità sulla piazza. Lo svestirsi degli abiti di Francesco non è solo la rappresentazione della povertà scelta come modalità di vita, ma è soprattutto la rinuncia alla sua identità sociale di cui si era vestito e in cui si era trovato nascosto (o intrappolato). La trasformazione di Francesco, come si sa, venne prima tollerata e quindi accettata da tutti, pur se rompeva, simbolicamente e materialmente, con l’Ordine familiare e sociale in cui era inserito. Possiamo sensatamente ipotizzare che se lasciassimo libera Lina di essere Olga, lei riuscirebbe, come Francesco, a costruire una vita certo più sensata di quella coatta a cui la costringono le cure psichiatriche e familiari. Eppure ciò oggi appare impossibile da accettare. Esistono trasformazioni radicali della nostra identità personale che in nessun modo riescono a trovare un punto d’equilibrio con le aspettative sociali che si agitano intorno a noi, ancor prima di nascere. Ciononostante non possiamo privarle del loro valore e del rispetto che dobbiamo ad ogni essere umano, indipendentemente da chi egli stesso ritenga di essere. Dobbiamo lo stesso rispetto e la stessa attenzione a Lina come a Olga. Pur condividendo lo stesso corpo, esse sono due persone diverse, con sensibilità, storia, desideri diversi. O, per meglio dire, Lina è la persona che il nostro sguardo e le nostre aspettative hanno costruito, Olga è quello che lei è. La dissociazione non sta dentro Lina, ma fra lei e noi. Con lo stesso arbitrio con cui noi diciamo che ha perso se stessa, potremmo dire che siamo noi a non averla mai conosciuta. Il fatto che oggi possa avere bisogno di essere Olga, non toglie niente alla realtà della sua esistenza. Ha avuto, infatti, lo stesso bisogno di essere Lina per poter sopravvivere al suo matrimonio. Non c’é identità che non rappresenti una qualche mediazione fra ciò che sentiamo di essere e ciò che dobbiamo essere. Le idee che via via ci facciamo di noi stessi non nascono nel vuoto della nostra mente, ma dalla relazione costante con gli altri. Nel caso di Francesco o di Olga, la conferma di ciò che sentono di essere non viene dagli uomini ma da entità extracorporee e divine, a cui non ci si può sottrarre. Del resto, nel nostro immaginario, è sempre stata presente l’idea di poter essere altro da quello che sembriamo essere. La stessa idea di reincarnazione, ad esempio, condivisa da milioni di esseri umani, conferma l’ipotesi che le nostre identità attuali possono essere effimere e legate al contesto umano e sociale corrente. Allo stesso modo, specie nelle culture orientali, si dà ampio spazio alla possibilità umana di raggiungere uno stato di illuminazione, detto satori, in cui la nostra coscienza afferra il senso intimo e la natura indicibile di tutte le cose. Qualcosa del genere è successa a Francesco e succede a Olga. Qualcosa da cui lei non può tornare più indietro anche se volesse. Il che non vuol dire che non possa fare una vita normale, assumendo un ruolo nella realtà condivisa, ma semplicemente che non potrà mai più tornare ad essere Lina, così come Francesco non tornò più alla sua famiglia e alla sua identità sociale. La presa di coscienza di sè, nei suoi aspetti inquietanti o incantati, è una prerogativa dell’esperienza del sentire voci. Essa nasce dal dialogo e dal confronto quotidiano con esse. Le voci ci guidano alla conoscenza di noi stessi e del mondo e rivelano il segreto fine della nostra esistenza. Non è qualcosa di nuovo per noi. La voce dei nostri genitori, del prete, dell’insegnante... hanno avuto la stessa azione sulla nostra mente. Ci ha insegnato a riconoscere noi stessi come figli, studenti, credenti... e ci ha fornito le coordinate per muoverci nel mondo e riconoscere come nostri il linguaggio e la logica comuni. L’unica differenza è che in questo caso il dialogo avviene con voci che non appartengono alla realtà così come l’abbiamo ereditata dai nostri genitori. Visto che non si possono zittire, tanto vale dialogare con loro. E’ questo il suggerimento che abbiamo colto dagli uditori di ROMME. Il dialogo non sarà sempre agevole, spesso ci inquieterà, altre volte ci terrorizzerà, altre ancora ci farà tremare d’emozione, ma se arriveremo alla fine di questo percorso, probabilmente, la nostra coscienza e capacità di percezione acquisteranno abilità e potenzialità prima sconosciute. Ma è possibile farlo? E come? A questa domanda è possibile rispondere solo a partire dalle esperienze concrete di chi sente le voci. Cito, fra le altre, le testimonianze di tre donne, diverse fra loro, che sono riuscite a dialogare con le voci e a fare di questo dialogo uno strumento di crescita individuale e collettiva. Una mistica, S.Teresa d’Avila; una rappresentante della new age, Eillen Caddy; una libera ricercatrice, Emy. Tutte e tre queste donne hanno saputo trovare la chiave per avviare una selezione e un dialogo con le voci. Teresa è stata aiutata dalla tradizione religiosa che, più di ogni altra, ha elaborato strategie di comprensione e gestione delle voci; Eillen è stata sostenuta dalla filosofia new age che afferma che ognuno è o può essere un canale della trasmissione dei messaggi divini; Emy, invece, l’unica ad aver vissuto un’esperienza di terapia psichiatrica, è ancora alla ricerca di un senso compiuto alla sua esperienza, e usa in maniera eclettica le conoscenze derivanti dalla telepatica o dalla filosofia rosacrociana, per collocare filosoficamente ciò che gli accade. Tutte e tre sono state capaci di gestire un dialogo positivo con le loro voci, riconoscendone l’identità e costruendo, a partire da questo dialogo, la loro esistenza quotidiana. Il caso di Eillen, poi, è particolare perchè la voce che per tutta la vita le ha fatto da guida, è diventata la guida di centinaia di altre persone che non la udivano ma che ne riconoscevano il senso e l’autorità morale. Ma analizziamo le loro testimonianze. Scrive Teresa d’Avila: "Dunque, mentre consideravo perchè la vostra giustizia rifiutasse a tante vostre serve fedeli i favori e le grazie che ricevevo io, nonostante la mia indegnità, Voi mi rispondeste: "Tu servimi, e non pensare ad altro!". Era la prima volta che udivo da Voi, e ne rimasi molto spaventata". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 183) Inizia così la storia della relazione di Teresa con la voce di Dio che la accompagnerà tutta la vita. Spesso amiamo pensare ai santi come a persone stra-ordinarie, capaci di gestire le proprie esperienze in un modo radicalmente diverso dal nostro. In realtà essi vivono le stesse nostre angosce e paure di fronte a ciò che accade loro. La parole di Teresa sono inequivocabili: "Vorrei anche farmi capire perchè si è ancora agli inizi, per cui quando il Signore accorda queste grazie, l’anima non le capisce e non sa che fare. Grandissima allora la sua pena se Dio la conduce per la via del timore come ha fatto con me, e non trova alcuno che la intenda, mentre ne avrebbe gioia vivissima se le facessero una fedele pittura del suo stato, in modo da poter vedere lei stessa la via che batte, essendo utilissimo in ogni grado di orazione sapere quello che si deve fare. Se io ho sofferto molto ed ho perduto molto tempo, fu appunto per non sapere quello che dovevo fare". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 144) I problemi di Teresa non sono, come si vede, diversi da quelli di ogni essere umano che inizia a sentire voci. La sua prima reazione è il terrore di essere preda di un’illusione o, peggio ancora, vittima del demonio. La sua prima omissione tentare di tacere per evitare il giudizio altrui. "Mentre conversavo con una persona che avevo conosciuto da poco, il Signore si degnò di ammonirmi; e illuminandomi nella mia grande cecità, mi fece intendere che tali amicizie non mi convenivano. Mi si presentò Gesù Cristo con aspetto molto severo, dandomi a conoscere quanto ne fosse dispiaciuto. Lo vidi con gli occhi dell’anima, ma più chiaramente che con quelli del corpo, e mi rimase così impresso che, nonostante siano trascorsi ventisei anni, mi pare ancora di vederlo. Ne fui così spaventata e confusa che non volevo più vedere la persona con cui stavo parlando. Allora non sapevo che si potesse vedere non con gli occhi del corpo. E questo mi fu di danno, perchè il demonio tenendomi in questa opinione, mi fece credere che era impossibile, che era un’illusione, un artefizio di Satana ed altre cose del genere, nonostante che in fondo mi rimanesse l’impressione che fosse opera di Dio, e non un inganno. Ma siccome questo pensiero non mi andava a genio, cercavo io stessa di vedervi un’illusione, guardandomi dal farne parola con qualcuno". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 83) Del resto le persone a cui Teresa si rivolge per avere aiuto, pur essendo confessori di grande sensibilità e vocazione religiosa, sembrano non intendere la sua esperienza, ossessionati come sono ad escludere la presenza del demonio in ogni manifestazione stra/ordinaria che investa gli esseri umani. Il loro atteggiamento è simile a quello degli psichiatri e psicoterapeuti moderni che classificano i comportamenti e le esperienze umane senza essere capaci di comprenderle e sentirle nella loro profondità e realtà. Dei confessori e psichiatri di ogni epoca e luogo, Teresa scrive: "Per conto mio ho più paura di chi ne ha tanta del demonio che non del demonio stesso, perchè questi non mi può far nulla, mentre quelli, specialmente se confessori, gettano l’anima nell’inquietudine: per causa loro ho passato diversi anni in così gravi travagli che ancora mi meraviglio d’esser riuscita a sopportarli". (Teresa d’AVILA 1985, pag. 250) Come si fa a darle torto. I suggerimenti e le prescrizioni di questi confessori erano straordinariamente simili alle cose che si sentono dire i laici uditori rinchiusi nei reparti psichiatrici di tutto il mondo. A Teresa vengono vietate le letture e l’isolarsi in meditazione, deve rifiutare i messaggi che le arrivano e ritenerle manifestazioni del diabolico. Addirittura le si prescrive di farsi il segno della croce e fare le corna ad ogni accenno di visione extrasensoriale. E, per prima cosa, non deve parlarne con alcuno. "Una volta un confessore a cui mi ero rivolta da principio, visto che si trattava di uno spirito buono, mi consigliò di non dire più nulla a nessuno, essendo ormai bene tacere. Il consiglio non mi dispiaceva, perché nel manifestare tali cose al confessore provavo tanta ripugnanza e vergogna quanta non ne avrei provata nel confessare i più grossi peccati; e ciò specialmente quando le grazie erano più grandi, perchè mi pareva di non essere creduta e che mi dovessero burlare. Volevo tacere anche perchè temevo che per questo ne venisse a scapitare la riverenza dovuta alle grazie di Dio". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 253) E ancora: "Parecchi servi di Dio, che io giustamente stimavo, si erano riuniti per trattare delle cose mie. Io non conferivo che con uno di essi, e solo parlavo con gli altri quando egli me lo diceva. Essi poi mi volevano bene e, temendo che fossi illusa dal demonio, discutevano seriamente per venirmi in aiuto. (...) Il mio confessore mi venne dunque a dire che quei tali (credo che fossero cinque o sei, e tutti gran servi di Dio) erano d’accordo nel dichiararmi vittima del demonio, per cui non dovevo comunicarmi tanto spesso, ma distrarmi e non stare mai sola". (Teresa d’AVILA 1985, pag. 245) Come per ogni altro essere umano che senta le voci, non importa se dettate dal demonio o dalla malattia mentale, anche per Teresa scattano le misure che tendono a limitare la sua libertà di scelta e di comunicazione. "Già da più giorni mi avevano tolta la comunione e proibita la solitudine, uniche cose che mi erano di conforto, né avevo alcuno con cui trattare, perchè tutti mi erano contrari. Quando parlavo delle mie pene, alcuni mi burlavano come se delirassi, altri ammonivano il mio confessore a stare in guardia ed altri dicevano chiaramente che ero in balia del demonio". (Teresa d’AVILA 1985, pag. 246) Teresa obbedisce alle prescrizioni ricevute, seppure con sofferenza e senza ottenerne alcun beneficio. Nella sua cultura e educazione, così come nella cultura di ognuno di noi, è radicata l’idea che ci siano altri che meglio di noi possano chiarire quanto ci accade. Esperti delle umane e sovrumane cose e esperienze. "Quelli eran dotti e di vita incomparabilmente più santa della mia: perchè dunque non credere?" (Teresa d’AVILA 1985, pag. 246) afferma retoricamente la santa. La sua esperienza, come quella di molti uditori, mostra che è indispensabile trovare un contesto culturale o una guida per poter imparare a decifrare e a dialogare con le voci. Nessuno fra coloro che non le sentono o non credono nella loro realtà, può esserci d’aiuto. Il che vale soprattutto per coloro che, investiti da una certa autorità e potere, cercano di imporre loro il silenzio. La voce stessa di Dio diventa per Teresa la guida per imparare a sentirla, riconoscerla e dialogare con lei. In questo ascolto Teresa si avvale dell’esperienza di altri santi della chiesa e di un metodo certo di discernimento elaborato da loro. Scrive Teresa: "Cominciando a leggere le "Confessioni di S. Agostino", mi parve di vedere in esse la mia vita, e mi raccomandai molto a questo santo glorioso. Quando giunsi alla sua conversione e lessi della voce che udì in giardino, ne ebbi una così viva impressione come se l’udissi pur io, e per lungo tempo rimasi a sciogliermi in lacrime con l’anima travagliata da grandissima lotta". (Teresa d’AVILA 1985, pag. 103) L’entrare in contatto e conoscere le esperienze di altri che sentono o hanno sentito le voci, aldilà delle differenze sostanziali che possono esistere nelle storie di ognuno, costituisce un passaggio fondamentale nella costruzione di una relazione positiva con le voci stesse. Se non altro perchè diminuisce l’ansia che proviamo di fronte ad esse e ci mostra la possibilità concreta di gestirle. Questo da solo non basta, ma certo è importante poter attingere alla conoscenza di altri che hanno vissuto la stessa esperienza, per potersi orientare meglio all’interno di essa. Le esperienze degli altri ci aiutano a non subire le voci passivamente, ma ad entrarvi in rapporto discernendo ciò che riteniamo compatibile con la nostra esistenza e la nostra morale, e ciò che non lo è. Nel caso di Teresa, il suo principale problema era definire se chi le parlava era davvero il Cristo, e non invece il demonio che cercava di rubarle l’anima. In questo, i suoi confessori, non sembravano poterla aiutare. Ossessionati com’erano da ciò che non riuscivano a spiegare, la loro unica azione era quella di vietare questa o quell’altra pratica religiosa, nella speranza di impedire che quella voce prendesse possesso della mente della loro protetta. Anche qui, come abbiamo visto già nel rapporto fra psichiatri e pazienti, i confessori ingaggiano una lotta furibonda con la voce, per assicurarsi il controllo di Teresa. "Quando il Signore mi dava un comando nell’orazione e il confessore me n’imponeva un altro, Sua Maestà tornava a dirmi di stare alla parola del confessore. Poi gli faceva cambiare parere, inducendolo a darmi il medesimo comando". (Teresa D’AVILA 1985. pag. 254) Di fronte a questo braccio di ferro impossibile fra i confessori e la voce, l’unico sollievo veniva a Teresa da quest’ultima. "Quando fu proibita la lettura di molti libri in volgare mi dispiacque assai perchè alcuni mi ricreavano molto, e non avrei più potuto leggere perchè quelli permessi erano in latino. Ma il Signore mi disse: "Non affligerti perchè io ti darò un libro vivente" (Teresa D’AVILA 1985, pag. 254) Come si vede le voci acquistano valore e senso anche e soprattutto rispetto alla reazione spropositata e insensata che esse provocano nei nostri interlocutori. Come direbbe HEIDEGGER, sembra che ciò che ci salva nasca proprio lì dove c’è il pericolo, ciò che ci inquieta sembra essere la sola cosa che ci calma. Così come scrive Teresa: "...a togliermi dall’angoscia in cui ero e a quietarmi del tutto bastarono queste parole: "Non aver paura figliola, sono io, e non ti abbandonerò. Non aver paura!" Per lo stato in cui ero, nessuno sarebbe riuscito a calmarmi, o almeno mi pareva che ci sarebbero volute molte ore. Ma con quelle sole parole mi sentii subito tranquilla, piena di coraggio, di forza, di sicurezza e di luce". (Teresa D’AVILA 1985, pagg. 247-248) Del resto l’unica vera fonte di ansia per Teresa non era costituita dal sentire le voci, ma dall’incertezza di considerarla o meno un dono divino o una tentazione demoniaca. La cultura religiosa riconosce l’esistenza di un mondo invisibile e sovrumano e, soprattutto, riconosce possibile che questo entri in contatto con noi o, meglio, con alcuni fra noi. Il fatto di non essere percepite da altri o di non poter essere registrate dai nostri strumenti, non è, per il religioso, prova dell’inesistenza delle voci quanto piuttosto della loro natura soprannaturale. Il fatto che siano percepite da pochi, poi, è parte integrante del mistero che racchiude il progetto di Dio su ogni uomo. In altre parole la natura divina di queste comunicazioni viene confermata dalle stesse prove che fanno dire con certezza agli psichiatri che ci si trova di fronte ad una malattia mentale. In realtà credo che ci sia solo un conflitto apparente fra queste due posizioni. Se sostituiamo la parola demonio alla più scientifica, ma altrettanto aleatoria, parola malattia mentale, troviamo che la psichiatria non fa altro che continuare la lunga tradizione di negazione che parte dai confessori di Teresa, passa attraverso i Tribunali della Santa Inquisizione per giungere ai moderni reparti psichiatrici. Ciò che ci appare come un fatto scientifico è piuttosto eredità diretta della eterna paura e dell’universale lotta per negare il male. Dove per male non si intende solo il malessere o la sofferenza individuale e collettiva, ma anche la possibilità che le persone pecchino e cioè non rispettino con i loro pensieri, le parole e le opere, l’ordine che ci siamo dati. Di questa scelta blasfema i cattolici hanno sempre chiamato a rispondere Satana piuttosto che gli uomini. Allo stesso modo la psichiatria chiama a risponderne la malattia mentale piuttosto che le persone che agiscono, pensano e parlano come non dovrebbero. Nell’un caso e nell’altro, per punire Satana o curare la malattia mentale, i confessori come gli psichiatri agiscono sui corpi e sulle menti delle persone da loro abitate. Irresponsabili in teoria, in pratica trattati come i peggiori criminali o gli appestati più infetti. Ma torniamo a Teresa. Cosa sentiva? E come era riuscita a convincersi della provenienza divina della sua esperienza? Abbiamo parlato di discernimento. Si tratta di un procedimento in fondo semplice che porta l’uditore a verificare la rispondenza dei messaggi che riceve con il quadro di riferimento culturale o personale che la voce stessa si è data. In questo caso con le Sacre Scritture. Se una voce dice di essere Dio, le sue comunicazioni dovranno uniformarsi a ciò che è scritto sulle Sacre Scritture. Teresa assume questo punto di vista a partire da questa esortazione di S. Vincenzo Ferreri ai mistici cristiani: "Se vi dicessero cose contro la fede, la Sacra Scrittura e i buoni costumi, e sostenessero la loro dottrina con il prestigio di fatti soprannaturali, disprezzate le loro visioni come effetto di demenza e i loro rapimenti come arrabbiamenti". (in Teresa D’AVILA 1985, pag. 199) Il metodo è l’unico a nostra disposizione sia di fronte a voci divine, che demoniache, che umane. Le complicazioni nascono da quella percentuale, a volte elevata, di discrezionalità che ci viene lasciata nell’interpretare gli eventi, e che a volte può essere guidata più dalle nostre paure e dai nostri bisogni che dal buon senso. Non esiste infatti contesto culturale che non presenti al suo interno discrepanze e contraddizioni anche molto profonde. Quando ad esempio ci troviamo a discernere circa la natura divina di certe comunicazioni che riceviamo da una voce che si dice Dio, possiamo rifarci a varie tesi delle Scritture che si occupano dell’oggetto in questione e, in particolar modo, alla filosofia del Vecchio o del Nuovo Testamento. Carmelo è in manicomio criminale perchè accusato di aver dato fuoco alla casa di sua madre per purificarla dalle presenze demoniache che vi abitavano. La stessa cosa ha fatto Bettino. Si sono convinti dei suggerimenti delle loro voci in cui il Dio vendicatore e implacabile dell’Antico Testamento li investiva di questo compito purificatore. Del resto, non fu la stessa voce di Dio che portò Abramo fino sul punto di uccidere il figlio Isacco per provarne la fede o che parlò a Noè per rivelargli la prossima fine del mondo attraverso il diluvio? Questo Dio, che crediamo davvero di aver sostituito con il Dio misericordioso del Nuovo Testamento, ancora parla agli uomini e produce gran parte dei disastri che noi imputiamo alle voci. E il Dio che parla ai moralizzatori di ogni epoca, a coloro che fanno dell’intolleranza la loro bandiera, a quelli che hanno gestito o gestiscono i lager o i manicomi, a quelli che danno fuoco ai barboni per strada o uccidono le prostitute. Non è necessario che la sentano quella voce. Spesso ce l’hanno dentro: è la loro stessa coscienza. Quando parlo di discernimento, credo che dobbiamo imparare a discernere anche fra le voci che si dicono divine, e che lo sono, sia quando parlano a Teresa D’AVILA, sia quando incendiano il cuore di Carmelo. Un esempio di ciò che intendo è dato da Gesù Cristo nella sua risposta alle tentazioni di Satana. Si legge infatti nel Vangelo di Matteo: "Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: ‘Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane’. Ma egli rispose: ‘Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio’ Allora il diavolo lo condusse con sè nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: ‘Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poichè sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare un sasso il tuo piede’ Gesù gli rispose: ‘Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo’ Di nuovo il diavolo lo condusse con sè sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: ‘Tutte queste cose io ti darò, se prostandoti, mi adorerai’. Ma Gesù gli rispose: ‘ Vattene, satana! Sta scritto: Adora il signore Dio tuo e a lui solo rendi culto’ Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano. " Come si vede Cristo risponde ad ogni tentazione inserendo ogni risposta nel solco della tradizione religiosa. Egli sceglie fra una serie di massime possibili, alcune fatte proprie dallo stesso Satana, quelle che gli permettono di rispondere con senso alle provocazioni che riceve. Non c’è rifiuto del dialogo, nè negazione della realtà dell’interlocutore, c’è un argomentare serrato che fa sì che egli superi l’impasse in cui l’altro cerca di incastrarlo. Le stessa tecnica di Cristo viene usata da Teresa e da tutti i mistici che hanno attraversato e attraversano la storia del mondo. Essa è una tecnica ma, anche e soprattutto, un’arte che si disvela solo a chi ha il tempo, la possibilità e la costanza di applicarsi nel tentativo di appropriarsene. I fallimenti in questa sfida sono all’ordine del giorno, acuiti da un ambiente sociale e umano che è, oggi, ostile come non mai verso chi tenta di padroneggiare questa esperienza. Scrive Teresa "Vorrei anche farmi capire perchè si è ancora agli inizi, per cui quando il Signore accorda queste grazie, l’anima non le capisce e non sa che fare. Grandissima allora la sua pena se Dio la conduce per la via del timore come ha fatto con me, e non trova alcuno che la intenda, mentre ne avrebbe gioia vivissima se le facessero una fedele pittura del suo stato, in modo da poter vedere lei stessa la via che batte, essendo utilissimo in ogni grado di orazione sapere quello che si deve fare. Se io ho sofferto molto ed ho perduto molto tempo, fu appunto per non sapere quello che dovevo fare". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 144) La voce di Dio le viene in aiuto: "Un giorno dopo aver durato a lungo in orazione e supplicato il Signore ad aiutarmi per potergli piacere, cominciai la recita dell’inno, e mentre lo recitavo mi colse un rapimento così improvviso da rimanermene quasi fuori di me. Era la prima volta che Dio mi faceva questa grazia, nè potei mai dubitarne per essere stata molto evidente. Intesi allora queste parole: Non voglio più che conversi con gli uomini, ma soltanto con gli angeli". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 236) Da quel momento, tenendo sempre fermo il riferimento alle Scritture, Teresa comincia a dialogare con Dio e a riconoscerlo. A partire dalla sua esperienza, ella traccia le caratteristiche fondamentali di ciò che gli accade. Le sue riflessioni circa la natura e gli effetti del sentire voci sono quanto mai attuali e coerenti con le esperienze uditive, sia mistiche che laiche, degli altri uditori.. Scrive, infatti, Teresa: "Vorrei mostrare le illusioni in cui è facile cadere. Ben è vero che chi ha esperienza non vi cadrà o vi cadrà assai di rado, ma si richiede che l’esperienza sia grande. Vorrei anche far vedere la differenza che vi è quando le parole vengono dallo spirito buono e quando dal cattivo e dire insieme che alle volte possono essere un’apprensione dell’intelletto, oppure parole che il nostro spirito si rivolge da sè. Non so se questo sia possibile, ma fino ad oggi mi è parso di sì". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 238) E poi passa ad analizzare: "Quando uno s’indugia a raccomandare a Dio con grande istanza un affare che lo preoccupa, è molto facile alle volte che gli sembri di udirne la risposta, se la domanda per cui prega sarà esaudita o no. Ma chi ha sentito come suonano le parole di Dio vede di che si tratta, perchè la differenza è grandissima. Altrettanto se è l’intelletto, perchè, per quanto ci metta sagacia, si vede subito che è lui: lui che compone e parla, mentre ben diverso è comporre un discorso e sentirlo dire da altri. Anche l’intelletto si accorge che invece di ascoltare sta parlando. Inoltre le sue parole sono come un rumore sordo e fantastico, mancanti di quella chiarezza che è propria delle parole di Dio, senza poi dire che possiamo sospendere il discorso e tacere, mentre questo è impossibile nelle parole di Dio. Altro segno più evidente è che le parole dell’intelletto non producono nulla, mentre quelle di Dio sono parole ed opere. Anche se non sono parole di devozione, ma solo di rimprovero, cambiano in un istante le disposizioni dell’anima: l’abilitano, l’illuminano, l’inteneriscono, l’inondano di gioia, e se essa è nell’aridità, nell’inquietudine e nel turbamento, sente come una mano che le toglie tutti i suoi mali, o qualche cosa di meglio. - Insomma, sembra che Dio voglia far capire che Egli è potente e che le sue parole sono opere". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 239) Le parole che vengono dalla voce di Dio "...sono molto distinte: non si odono con le orecchie del corpo, ma si sentono molto più chiaramente che non percependole con esse, tanto che i nostri sforzi in contrario non riuscirebbero a nulla. Almeno tra noi, se non si vuol dare retta ad alcuno, si tappano le orecchie o si attende ad altro in tal modo che, udendo, non si oda; ma qui è impossibile. Bisogna ascoltare anche se non si vuole: l’intelletto è come obbligato a star attento a quello che il Signore gli vuole far capire. Non c’é volere o non volere che tenga: Quegli che può tutto la fa veramente da padrone, persuadendoci che non c’è da far altro che come vuol Lui. E io lo so per esperienza, perchè con i miei timori ho cercato di resistere quasi due anni. Qualche volta provo ancora, ma mi giova poco". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 238) "Spesso mi accadeva di esitare alquanto prima di credere a ciò che udivo, dubitando di esser vittima di qualche illusione: ma, questo, dopo che tutto era finito, perchè nell’atto della grazia il dubbio è impossibile. Poi, dopo molto tempo vedevo avverarsi ogni cosa. Le parole di Dio si fissano in mente così bene che non è possibile scordarle, mentre quelle dell’intelletto somigliano a un lampo di pensiero che subito svanisce". (Teresa D’AVILA 1985, pag. 241) Le parole che vengono da Satana, invece, "... non solo non lasciano buoni effetti, ma ne producono di cattivi. Io le ho udite non più di due o tre volte, ma il Signore mi ha sempre fatto capire di chi erano.(...) Le parole del demonio non apportano alcuna tenerezza, ma disgusto e spavento". (Teresa D’AVILA 1985, pagg. 243-244) Come si vede, la vita dei mistici non è così lineare come sembra. Essi dubitano della loro salute mentale, della natura delle loro esperienze, della verità di ciò che ascoltano, dubitano di essere stati scelti, dubitano di esserne degni. Il cammino attraverso cui accettano il loro destino è lungo e tortuoso e, spesso, non riescono ad arrivare in fondo, si perdono irrimediabilmente fra i binari di qualche stazione. I mistici religiosi, fra gli uditori, sono quelli che hanno la vita più facile. Da loro ci si aspetta che abbiano delle visioni, che entrino in contatto in una qualche maniera con il mondo invisibile che governa la nostra realtà. Essi hanno un contesto culturale di riferimento ben stabile, costruito attraverso l’esperienza di generazioni di asceti e ricercatori dello spirito e, soprattutto, socialmente tollerato. L’unica cosa che si chiede loro è di limitare i luoghi e i modi delle loro comunicazioni. Il digiuno di S.Caterina da Siena, ad esempio, è un dono divino o un miracolo finchè ha come cornice, materiale e simbolica, il convento; si trasforma in anoressia se praticato all’interno di un monolocale o di un appartamento qualsiasi delle nostre città. Ciò che i mistici fanno, sembra essere la ripetizione di un copione già scritto. Essi raramente aggiungono qualcosa di nuovo all’esperienza in cui sono coinvolti. Al contrario, essi seguono le indicazioni dei loro padri spirituali come i marinai seguono la bussola o le stelle. La loro esperienza ha senso finchè si muove dentro il solco tracciato della tradizione. Senza questa continuità e questi punti cardinali, essi rischierebbero di perdere se stessi e di non ritornare. Diversa è la situazione per i laici che incontrano le voci. Essi si trovano a dover inventare un percorso e a costruire da sè un contesto culturale di riferimento; a difendersi dall’accusa di essere malati e ad evitare un ricovero; a trovare un modo socialmente accettabile di esprimere e comunicare la propria esperienza e a far sì che essa si realizzi. Come dice Teresa, le parole di Dio sono opere. Ciò naturalmente vale per qualsiasi voce noi sentiamo. Se esse ci parlano è per raggiungere un fine che può essere interiore, sociale o, all’occasione, universale. Dobbiamo capire chi siamo veramente, dobbiamo realizzare un rifugio per gli angeli, dobbiamo ricostruire il cuore del pianeta. Ogni volta che aprono il canale di comunicazione, le voci lo fanno per ricordarci la nostra missione impossibile o il nostro impegno verso noi stessi. Con più o meno capacità di comprensione, a seconda del carattere e del tipo di relazione che abbiamo instaurato con lei, la voce è sempre lì in primo piano ad affermare la centralità del suo ragionamento. Spesso gli uditori affermano di aver agito così come chiedeva, con la segreta speranza che poi essa smettesse di tormentarli. Agire così non è mai una buona strategia, anche se a volte può dare frutti positivi e insperati. Meglio, se ci riesce, instaurare un dialogo e impegnare le voci in un confronto serrato con la nostra realtà di esseri umani. Se l’impossibile sembra essere il loro progetto, sta a noi renderlo possibile. Il dialogo a cui penso è una costante opera di traduzione in pratica dei messaggi che si ricevono. Il che non vuol dire realizzarne acriticamente i suggerimenti, ma appunto renderli pratici, confrontandoli con la realtà di ogni giorno, con la nostra sensibilità, le nostre relazioni personali, le nostre idee. Spesso il dialogo con le voci ripercorre i passi di ciò che potremmo definire un percorso di iniziazione. Esse ci mettono costantemente alla prova e, al contempo, ci forniscono prove tangibili della verità di quanto affermano. Come si sa ogni seria iniziazione porta, prima o dopo, ha un vero e proprio salto nel vuoto, un momento in cui viene chiesto all’iniziando l’impossibile, con lo scopo di spostare la sua consapevolezza, in maniera definitiva, su un altro piano di vita. Solo questa esperienza in cui l’adepto rinuncia definitivamente alla sua volontà, coscienza e individualità, per abbandonarsi nelle braccia dell’ignoto, segna il suo passaggio ad un’altra dimensione dell’essere. E’, in tutti i sensi, un’esperienza senza ritorno. In essa l’iniziando sfida la sua morte fisica e psichica per diventare altro da sé o per essere quello che è. Non dovremmo così stupirci più di tanto, se la voce che ode suggerisce a Giorgio la prova finale: attraversare il muro del reale con il suo pullman. Non è meno sensata della voce di Don Juan che accompagna Carlos Castaneda nel suo salto nel vuoto in un burrone dell’altopiano messicano. Anche qui, non fa alcuna differenza sostanziale avere per guida la voce di una persona materiale o invisibile. Ciò che davvero conta è il tipo di relazione che noi instauriamo con questa. Del resto, a ben guardare, gli uomini hanno sempre messo a rischio se stessi per raggiungere una qualche conoscenza definitiva sulla natura delle cose. Sembra davvero che solo là dove c’è il pericolo, nasca anche ciò che salva. Molti di noi rinunciano a capire, altri non possono farlo. Non c’è una ricetta razionale o scientifica che possa farci distinguere un vero maestro o guida spirituale, da un cialtrone che mette inutilmente a rischio la nostra vita. Ciò vale nel mondo materiale come in quello invisibile delle voci. Il fatto che le voci siano spirituali non significa che non possano essere false o insensate. Non c’è nessuna ragione per credere loro sulla parola, né esse possono avere altra autorità se non quella che noi gli concediamo. Per questo insisto molto sul dialogo: esso è l’unico strumento che abbiamo per sondare e verificare questa esperienza. Con un inciso: le voci che non accettano di dialogare con noi sono da considerare, con tutta probabilità, improduttive e anzi dannose per la nostra crescita interiore. Il dialogo è un altro criterio di selezione uditiva che mi sento di suggerire. La storia di Eillen Caddy è, del resto, emblematica di ciò. Oggi Eillen è una dinamica donna anziana, cofondatrice della comunità di Findhorn nel nord della Scozia. Una comunità ordinaria, come altre sorte in varie parti del mondo negli anni ‘70, ma con una storia straordinaria alle spalle. Per anni la Comunità è stata retta dai messaggi che una voce comunicava ad Eillen. La stessa voce, del resto, aveva cambiato la sua vita e originato la comunità stessa. Il primo contatto fra Eillen e la voce che le rivela di essere Dio, avviene in una cappella riservata alla preghiera e alla meditazione. Eillen aveva appena lasciato il marito, abbandonato i figli e si era innamorata di un altro uomo. In poco tempo aveva stravolto la sua identità sociale e personale in maniera radicale, scoprendo risorse e sensazioni che non aveva mai pensato di avere. Ciò la attraeva e la inquietava allo stesso tempo. Scrive Eillen di quella prima esperienza: "Dal più profondo del cuore invocai aiuto: non avevo che Dio a cui rivolgermi. <Stai quieta e sappi che sono Dio> La voce era perfettamente chiara, e mi girai per vedere chi avesse parlato. Non potevano essere Peter e Sheena, e nella stanza non c’era nessun altro. La voce era nella mia testa. Stavo diventando pazza? Sedevo immobile, rigida per la paura, con gli occhi stretti". (Eillen CADDY 1993, pag. 32) Siamo nel XX secolo, la paura di Teresa di essere tentata dal demonio, viene sostituita dal terrore di Eillen di stare per impazzire o di essere già pazza. E’ la prima reazione istintiva e sensata che ci si può aspettare da chi vive in una realtà che esclude dal suo orizzonte tutto ciò che non vede, non sente o non registra. "La voce continuò: <Hai preso una decisione molto grave nella tua vita. Ma se segui la Mia voce, tutto andrà bene. Ho fatto sì che tu e Peter vi incontraste per uno scopo molto particolare, per fare uno specifico lavoro per Me. Lavorerete come uno solo, e ve ne accorgerete più pienamente con il passare del tempo. Sono pochi quelli che sono stati guidati in questo modo. Non temere, poichè Io sono con te>" (Eillen CADDY 1993, pag. 32) La voce sembra comprendere il disagio di Eillen. Come uno che conosce a fondo gli esseri umani, ha parlato sempre con loro e li ha creati, la voce di Dio la tranquillizza e allo stesso tempo le fornisce le prime indicazioni circa il senso da dare a questa esperienza. JAYNES direbbe che il cervello destro, attivato dallo stress di dover prendere una serie di decisioni importanti per la propria vita, ha ripreso il controllo dell’emisfero sinistro e della coscienza di Eillen, parlandole attraverso la voce di Dio. Può darsi, ma il compito che questa voce affiderà a Eillen solo in parte coinciderà con la risoluzione dei suoi problemi. Aprirà soprattutto prospettive collettive straordinarie e, in nessun modo, chiuse nella sua scatola cranica o nella sua roulotte. "Quando uscimmo dalla cappella, dissi tremando: <Ho avuto una strana, terribile esperienza, là dentro. Ho sentito una voce che mi parlava, ed era dentro di me. Ho paura di stare impazzendo>" (Eillen CADDY 1993, pag. 32). Eillen non riesce a tenere quella paura tutta per sè. Sa che a raccontare l’accaduto rischia che i suoi amici confermino la sua insanità mentale, ma non può fare altrimenti. Peter, l’uomo di cui è innamorata, e Sheena, sua moglie, hanno invece una reazione inaspettata. "<E’ magnifico, Eillen! - fu la reazione di Sheena quando ebbi finito di parlare - E’ la conferma di tutto. Adesso sono sicura che è stato Dio a far incontrare te e Peter> Ero trasecolata: per me non c’era niente di cui rallegrarsi. <Ripeti le parole che hai sentito> incalzava Peter. <Stai quieta e sappi che sono Dio - ripetei lentamente - Le riconosco queste parole. Le ho lette da qualche parte nella Bibbia> Già da questa prima esperienza, oltre i ragionevoli dubbi del caso, ci sono tutti gli elementi che porteranno Eillen ad imparare ad ascoltare e a dialogare con la sua voce. C’è un contesto umano e culturale che accoglie e riconosce come vera questa esperienza. Persone che riconoscono valore e un senso a ciò che le sta accadendo. E c’è un istintivo discernimento che permette a Eillen di riconoscere l’origine divina del messaggio. Ma siamo solo all’inizio del dialogo, quando l’esperienza uditiva è soltanto un monologo e rischia di rimanere tale. "Peter e Sheena erano convinti che avessi sentito proprio la voce di Dio. Io non ne ero affatto sicura, eppure se accettavo ciò che avevo udito, doveva essere la voce di Dio. Più ci pensavo e più mi sentivo preoccupata. Mi ricordai delle persone con cui Dio parla nella Bibbia, ma quelle erano molto speciali, con speciali compiti da svolgere. Perchè dio avrebbe dovuto parlare con una donna che aveva lasciato marito e figli per ‘vivere nel peccato’ con un altro uomo?" (Eillen CADDY 1993, pagg. 32-33) Dubbi ragionevoli quelle di Eillen che non tenevano conto allora, e forse non potevano farlo visto l’impatto emotivo degli eventi che la interessavano, del fatto che le strade del Signore si sono rivelate sempre infinite. In quel momento del resto l’unica cosa davvero necessaria era chiudere in qualche modo la breccia che si era aperta nella sua testa, per tener fuori quella voce che la invadeva. La resistenza alla volontà divina è una costante nei rapporti fra Dio e gli uomini. Non tutti amano diventare santi, se non altro perchè la santità ci espone al martirio, alla confusione e all’ incomprensione. La volontà divina ci catapulta aldifuori della realtà umana e storica in cui viviamo, trancia i nostri legami con il mondo degli affetti e dei desideri, distrugge la nostra storia, la nostra individualità e la nostra identità. Ci sradica, per così dire, dal mondo dei più, costringendoci nel deserto della verità. Naturalmente non è sempre così, ma il rischio di diventare santi e, quindi, statue, idoli, immaginette e souvenir, è sempre presente in ogni esperienza mistica. Ciò che colpisce in Teresa o in Eillen che, pur se toccate dalla voce divina, esse rivendichino ancora la loro identità e carattere umani. Probabilmente le storie dei santi e dei mistici andrebbero lette dal loro proprio punto di vista, piuttosto che raccontate da altri. Eillen, pur avendo incontrato in quella chiesetta la voce del Dio che la accompagnerà per tutta la vita, offrendole conforto e gioia, descrive questo primo periodo come "...il più terrificante della mia vita". (Eillen CADDY 1993, pag. 33) Si tratta in sostanza del periodo in cui ognuno si gioca la possibilità di capire, dialogare e imparare a gestire le voci. Per tutto questo periodo Eillen ebbe sempre accanto Peter e Sheena. Essi credevano fermamente alla possibilità che ognuno di noi diventi canale consapevole dei messaggi e dell’energia proveniente da esseri superiori. L’ascolto e la selezione delle voci diventa così uno strumento prioritario di conoscenza della vera natura dell’universo. Un po' come, nella religione cattolica, le visioni mariane diventano messaggi e indicazioni operative per gli uomini. Il metodo di ascolto che essi imposero a Eillen era molto duro, ma servì certamente a temprarne la volontà e a prepararla psicologicamente a fare da sola. "Durante questo periodo del mio apprendistato, dovevo dedicare del tempo all’ascolto della voce interiore tre volte al giorno: alle 6 di mattina, a mezzogiorno e alle 9 di sera". (Eillen CADDY 1993, pag. 37) Agli uditori che leggono questa testimonianza potrà suonare impossibile riuscire a limitare il dialogo con le voci in orario e con modalità così rigide. Le voci per lo più parlano e si comportano nella più completa anarchia, non tenendo in genere in alcun conto il nostro stato mentale, il luogo in cui ci troviamo o la nostra voglia di sentirle. Questo almeno nell’esperienza di chi ha uno scarso controllo su di loro. Esistono esperienze, come quelle di Eillen, dove la costanza con cui ci si impone e si impone alle voci delle regole certe e chiare di rapporto, portano progressivamente a ridurre la sensazione di ingerenza e di invasione che esse provocano nella nostra esistenza, permettendo al contempo una qualche forma costruttiva di dialogo. Il messaggio che si comunica alle voci è del tipo: ora non posso darvi retta. Riconosco che quanto avete da dirmi è importante e complesso e necessità di tutta la mia attenzione. Parleremo più tardi, in tranquillità e per tutto il tempo che sarà necessario. Questa strategia comunicativa ha permesso a diverse persone che conosco di dare un minimo ordine a questa esperienza. Non solo. Così facendo hanno potuto trovare una qualche forma di mediazione fra l’ascolto che dobbiamo alle voci e quello che le persone intorno pretendono. Se la storia fra Antonio e S.Filippo finisce così spesso in un ambulatorio psichiatrico, ciò è dovuto essenzialmente al fatto che Antonio non riesce in alcun modo a mediare fra il dovere di ascoltare tanto S.Filippo che la moglie. Il problema non sta però tutto in Antonio. E’ anche vero che spesso chi sta intorno alle persone che sentono le voci non sa o non riesce ad articolare nessun discorso sensato. Come i confessori di Teresa, ogni qualvolta apriamo bocca è per vietare qualcosa a Antonio, per negare quanto ci sta dicendo, per punirlo di qualcosa che ha fatto. Parte dei contenuti francamente distruttivi delle voci, non derivano tanto da una loro cattiveria innata, quanto dalla necessità di difendersi dal pericolo che i buoni consigli e le voci dei nostri cari ci convincano a non prestare loro attenzione. Le persone più care ci verranno descritte come traditori e assassini, noi stessi verremo dipinti come esseri spregevoli che meritano ogni sorta di disgrazia e di insulto da parte dell’universo intero. Il metodo imposto a Eillen invece tendeva a selezionare e a costruire un’abitudine condivisa all’ascolto delle voci. " All’inizio udivo tante voci diverse ed ero confusa. Sheena mi disse di individuare proprio la prima che avevo sentito a Glastonbury. <Cerca di ignorare tutte le altre e concentrati su quella: pian piano vedrai che le altre scompariranno. E’ per questo che voglio che tu prenda nota di tutto ciò che odi, così posso aiutarti a distinguere, finchè non ci sarà più l’ombra di dubbio su quale voce è quella di Dio, e seguirai solo quella>" (Eillen CADDY 1993, pagg. 37-38) La scrittura e, quindi, la possibilità di un’analisi meditata di quanto udiamo, scevra dall’impatto emotivo che il fatto stesso di sentire le voci provoca, è un altro metodo irrinunciabile per chi vuole tentare di trovare e svolgere il filo della questione. Fra l’altro essa diventa documento irrinunciabile per permettere a terzi di conoscere e valutare quanto andiamo sentendo. Le voci che sentiamo sono, infatti, inudibili. Questa handicap può essere in parte superato scrivendo il contenuto di ciò che ci dicono e confrontarlo con altri. E’ quello che fa, ad esempio, la giovane donna catanese che trascrive i messaggi trasmessi da voci divine e poi le discute insieme al suo gruppo di preghiera. A tutt’oggi essa non si è mai sentita, ne è stata mai giudicata malata da nessuno. Non solo. Finalizzando l’ascolto delle voci, ella ne ha ricavato conforto, conoscenza e guida, senza mettere in gioco la sua esistenza sociale nel mondo dei più. Esistono centinaia di esperienze del genere. Tante quante quelle di persone che non riescono a venire a capo di niente. L’intuizione di ROMME vale anche per noi: occorre permettere alle persone che sentono le voci di uscire allo scoperto, confrontarsi e scambiare le loro esperienze. Noi che non le sentiamo dobbiamo solo limitarci a non interferire in ciò e, se vogliamo, a prestar loro un ascolto discreto e rispettoso. Quando ciò accade, storie come quelle di Eillen diventano norma. Da soli o con l’aiuto di altri, è indispensabile riuscire a selezionare le voci che ascoltiamo. Concentrarsi su quella che riteniamo più in linea con il nostro carattere e le nostre aspettative, è cosa diversa dal suggerimento di ignorarle che ci viene da più parti. Dobbiamo pensare a noi stessi come ad una radio. Una volta accesi dobbiamo trovare la nostra sintonia. Se non riusciamo a farlo in breve tempo, qualcuno potrà pensare sensatamente di spegnerci. E’ quello che fa, come abbiamo visto, la terapia psichiatrica. La vita di Eillen da quel momento è guidata dalla sua voce interiore che la consiglia sul da farsi in ogni circostanza. A poco a poco impara a usarla da sé. Senza aspettare che essa parli, Eillen gli chiede ogni sorta di consigli e dialoga con lei circa le decisioni da prendere. La fiducia che gli altri ponevano nei messaggi che Eillen riceveva, era di una tale intensità che lei ne ricavava la forza e il coraggio di continuare, anche nei momento in cui le sembravano francamente insensati e provocatori. Con la guida di Dio Eillen e Peter, dopo alterne vicende, fondarono la comunità di Findhorn in un luogo designato dalla voce. Un luogo desertico e improduttivo in cui giunsero privi di qualsiasi risorsa e di qualsiasi idea di che cosa ci si aspettava da loro. La comunità crebbe grazie alle indicazioni della voce interiore di Eillen e l’aiuto di altre voci e entità naturali che insegnarono loro a dialogare con i deva, gli spiriti delle piante. Erano esse stesse a dare indicazioni agli esseri umani su dove, come, quando e cosa fare per rendere più florido il raccolto. Con queste guide essi fecero diventare fertile e produttivo quel territorio, costruendo una esperienza ormai consolidata e estesa a diverse centinaia di residenti. Ecco la missione che Dio le aveva assegnato: creare un luogo di incontro fra visibile e invisibile, materia e spirito, finito e infinito. Un luogo di potere, come lo chiamerebbe Don Juan. Una breccia, un punto di passaggio... Oggi la voce di Eillen ha smesso di guidare la comunità. Posso immaginare che essa continui la sua missione con Eillen, cercando di prepararla e guidarla nel viaggio, attraverso la morte, fino a Lui. Forse le voci sono solo alterazioni biochimiche del nostro cervello, ma quello che ci permettono di fare, di pensare e di capire è di una tale straordinaria potenza e meraviglia, che occorre battersi perchè esse non vadano mai guarite. Ciò che è in pericolo non è solo il cervello assediato o la vita di chi sente le voci: è in pericolo la possibilità di rimanere esseri umani sensati in un mondo che significhi ancora qualcosa. Dobbiamo certo imparare a zittire le voci crudeli che ci perseguitano, così come dobbiamo smettere di avere incubi la notte. Ma come non accetteremmo di smettere di sognare per guarire dalla malattia di avere incubi, così non possiamo smettere di sentire le voci per guarire dalle parole insulse che a volte ci gridano contro. Emy ha trovato una strada istintiva e personale per farlo. Una strada non solitaria, ma soprattutto una strada percorribile da tutti. Mentre scrivo questa guida all’ascolto delle voci, ho sempre il timore di cadere anch’io nell’errore di santificare le persone di cui parlo, impedendo quella sana identificazione che credo possa servire a vincere l’isolamento e il terrore di quello che ci sta succedendo. Aldilà dell’enfasi che metto in ciò che scrivo, voglio chiarire che nessuna delle persone di cui ho fin qui parlato, inclusa Emy, è in sè men che ordinaria. Ad essere straordinaria è l’esperienza in cui sono coinvolte, le risorse e le possibilità umane che essa mette in campo, le trasformazioni che essa genera. Se proviamo a metterci per un attimo nei panni di Eillen o di Teresa, così come di Antonio, non credo che avremmo meno dubbi e meno certezze di quelle che loro stessi hanno raggiunto. Sono esseri umani ordinari che usano gli strumenti ordinari che ci mette a disposizione la nostra cultura. L’unica e vera differenza fra Eillen CADDY e Carmelo, il ragazzo rinchiuso in manicomio criminale per l’incendio di casa, non sta in nessuno dei due, nè tantomeno nella voce che hanno sentito (in ambedue i casi la voce di Dio), ma nel contesto umano che gira loro intorno. Laddove Eillen ha potuto confrontare e analizzare collettivamente la sua esperienza, Carmelo è rimasto chiuso in casa per giorni, senza parlare con nessuno, lasciando divampare l’incendio. Anni di terapia psichiatrica gli hanno insegnato a tenere per sé queste voci e a usare litri di psicofarmaci in gocce per tentare di spegnere l’incendio. Paradossalmente l’unica cosa che essi sono riusciti a spegnere è stata la sua volontà. Così Carmelo si è trovato senza difese di fronte all’imperativo di Dio; privo di forze certo, ma non tanto da non potere accendere un fiammifero e cospargere di alcool le vecchie cose accatastate nella soffitta. Torneremo sulla questione dei rischi, delle possibilità e dei limiti della terapia psicofarmacologica nella gestione delle voci, se non altro perchè essa rappresenta la scelta di una parte consistente di coloro che usano sostanze (legali o illegali che siano) per farlo. Per adesso proviamo ad entrare nell’esperienza di Emy così come lei stessa la racconta. Ad un certo punto una voce mi disse: "Perchè non guarisci te stessa, fai tante cose per gli altri e non guarisci te stessa". Io gli chiesi qual era la mia malattia e la voce rispose che ero dissociata. Gli chiesi cosa voleva dire per lui, la voce rispose che se l’avessi capito io avrei potuto dare una spiegazione migliore di quelle che si conoscevano. Gli chiesi di starmi vicino, di aiutarmi, che io avrei cercato di capire. Così fece. Gli chiesi di venire da me ogni giorno, di dialogare e di vedere se il giorno dopo ricordavo la conversazione. Cominciò così un dialogo psichico consapevole e logico. Il dialogo continuò per un po' , poi mi disse di andare da lui. Qui cominciarono i problemi, anche perchè io avevo paura di affrontare una voce che mi aveva svelato il nome ed alla quale non sapevo come avvicinarmi senza rischiare di sputtanarmi. Ero perfettamente consapevole che se fossi rimasta delusa, se avessi sbagliato, se la voce fosse stata un imbroglio, io sarei piombata nella disperazione più profonda. Nel frattempo mi resi conto che non era solo una la voce che sentivo, erano moltissime, faticai a portare a termine l’impegno che avevo preso, perchè ad un certo punto erano molte le voci che mi dicevano "Vieni da me" ed io cominciavo ad essere di nuovo confusa e ad avere paura. Mentre dialogavo telepaticamente sapevo che avevo una vita reale, ma nella realtà non ricordavo la vita telepatica. Mi resi conto così della dissociazione. Non c’erano vasi comunicanti tra le due realtà. Lo riferii alla voce e lui mi disse di scrivere quello che ci dicevamo telepaticamente. Io ci provai, ma quando prendevo in mano la biro per scrivere, nella mia testa c’era il vuoto, non ricordavo niente. Allora appoggiavo la biro, tornavo a concentrarmi sulla mia testa e ricominciavo a sentire la voce che mi chiedeva se avevo scritto, ed io rispondevo che non riuscivo. Nella vita telepatica ero consapevole, era nella realtà che ero dissociata. Gli chiesi di insistere, gli dicevo: "Ora prendo la biro, tu continua a chiamarmi, grida, col pensiero, vediamo se sento". Lui così fece, dopo alcuni giorni di esercizio finalmente riuscii a scrivere. Telepatia e scrittura si erano riunite. A questo punto mi uscivano delle frasi legate alla vita telepatica anche nei dialoghi reali. Vita telepatica e dialoghi si riunivano. A questo punto mi chiesero come facevo a non raccontare mai a nessuno i fatti che mi raccontavano, né nella realtà, né nella vita telepatica. Gli dissi che io non sapevo che dialogavo con persone diverse e, comunque, non avevo memoria. La vita telepatica per me era un attimo fuggente, non restava alcun ricordo. Allora chiesi di mettersi in tre, di parlare con me a distanza di 10 minuti uno dall’altro e vedere se ricordavo. Così fecero, ma io non ricordavo niente. Allora chiesi che tra di loro si raccontassero ciò che mi dicevano e poi, a distanza di 10 minuti, mi facessero delle domande relative ai discorsi precedenti. Così fecero e io cominciai ad avere vaghi ricordi. Erano tutti impegnati ad aiutarmi e tutti assecondavano le mie richieste. Fu un esercizio che durò diversi mesi, contemporaneamente. Poi mi resi conto che la telepatia era legata agli ambienti. La facevo in casa, in ufficio e in macchina, mai per strada. Allora chiesi di aiutarmi e, quando stavo per scendere dalla nacchina, glielo dicevo e gli dicevo di insistere, di gridare forte col pensiero. E così la telepatia non era più legata all’ambiente, era in ogni occasione, in ogni momento. Bastava che prestassi attenzione. Sono dipendente provinciale, faccio sindacato e vado giù dura. All’amministrazione non piaccio. Ad un certo punto ho conosciuto un politico della Provincia che voleva farmi entrare nel giro. Mi ha presentato un prefetto, un avvocato, mi invitava alle sue feste, voleva che mi divertissi e la smettessi di fare sindacato. Nella realtà non ha mai accennato alla mia attività sindacale, ma nel periodo in cui io lo conoscevo, sono andata in assemblea sindacale e una voce mi diceva "Devi scegliere: o l’amministrazione o il sindacato!" Inoltre mi ero presa una cotta e una voce mi diceva: "Non mi interessa il tuo amore, non era quello che volevo, non so cosa farmene". E’ così che la mia testa ha finalmente cominciato a lavorare seriamente. Siccome ero consapevole del fatto che non avevo memoria, ad altre voci che sentivo ho chiesto di ricordarmi ogni giorno che quella persona era un pezzo di merda. E così fece. Ogni giorno una voce mi giungeva e mi diceva: "Guarda che quello lì è un pezzo di merda!" Dopo qualche giorno gli chiesi perchè era un pezzo di merda e la voce mi disse: "Non lo so, non me l’hai detto il perchè, mi hai chiesto semplicemente di ricordartelo". avendo un filo logico e continuativo, vita telepatica e reale si sono ricongiunte. A questo punto ero perfettamente cosciente e consapevole, ed il mio inconscio mi stava restituendo tutti i ricordi legati alla mia vita psichica. Così ricordai che io le voci le avevo sempre sentite, fin da quando ero ragazza, ma che passai dei grossi guai da quando cominciai a parlarne in giro. Ricordai tutte le volte che le voci mi avevano spinta al suicidio, alla violenza verso le mie bambine, alle cattiverie verso colleghi ed amici per tenermi emarginata e sola. La mia situazione mi sembrava più o meno normale. Separata, con due figlie, abitavo in un appartamento di mia proprietà, guidavo la mia automobile e lavoravo regolarmente in ufficio. La mia vita affettiva era molto limitata, sia nelle amicizie che nell’amore. Non desideravo forti emozioni, il mio impegno era teso a conservare il mio equilibrio. Inoltre ero sempre molto stanca, per questo il tempo libero lo trascorrevo volentieri dormendo. Ad un certo punto però ho cominciato a sentirmi arida e così ho deciso che dovevo fare qualcosa. Ero dissociata anche perchè la mia vita reale era troppo limitata e cercavo nei dialoghi telepatici, la compagnia che non avevo nella realtà. Quando nel 1984/85 mi sono resa conto di sentire le "voci", volevano spingermi a diffondere la droga nella scuola. Io che non ho mai fatto uso di stupefacenti, improvvisamente cominciai a chiedere in giro cosa si provava drogandosi, dove si poteva acquistare e altro. E’ stato questo che mi ha creato dei guai. Fino ad allora io non avevo mai fatto parola dei miei pensieri. Cominciare a parlarne voleva dire che mi stavo "ricomponendo". Io non dovevo parlarne, credo, semplicemente dovevo lasciare che questi pensieri frullassero per la mia testa e trasmettere il pensiero tra le persone che avvicinavo. Le "voci" cominciarono a spingermi ad uscire, andai in discoteca, non conoscevo bene la strada, ci sono arrivata seguendo la "voce". Ma non entrai mai in nessun giro né di droga, né di prostituzione. Una sera una voce perentoria e persecutoria, alla quale non riuscivo a sottrarmi, mi disse di dare lo psicofarmaco a mia figlia. Aveva due anni, era sconvolta anche lei come me. Io dissi "Va bene, quanto gliene devo dare?", la voce mi disse "Quanto ne prendi tu". io risposi di sì. Poi mi disse "Ora lascia tua figlia da tua madre ed esci". Così feci. Salii in macchina e cominciai ad andare dove mi dicevano di andare. Io dicevo dove mi trovavo leggendo le segnalazioni stradali, e loro mi guidavano. Mi dissero di fermarmi, di entrare in un bar, bere qualcosa. Così feci. Poi tornai in macchina e ripartii. Ad un certo punto dissi: "Di fronte a me c’é un muro, io devo girare a destra o a sinistra?" La voce cominciò a gridare "Schiaccia forte l’acceleratore, schiaccia, schiaccia, vai contro quel muro una volta per sempre!" L’istinto di sopravvivenza ha avuto sempre il sopravvento. A quel punto mi sono risvegliata, non ero più annichilita, frastornata, ero lucidissima. Ho cominciato a gridare col pensiero: "Vaffanculo, vacci tu contro il muro, schiantati tu, brutto bastardo! Io torno a casa da mia figlia". Tornai a casa e andai a letto. Il mattino successivo la voce mi disse "Come sta tua figlia?" "Bene!" risposi. "Come bene, ieri sera le hai dato lo psicofarmaco, non può star bene?!" "Invece sì" risposi "Sta bene perchè lo psicofarmaco ho detto che glielo davo, ma in realtà non glielo ho dato". A quel punto ha cominciato ad insultarmi e poi se ne è andato dicendomi "Ci risentiremo!" Non ho mai potuto raccontare tutto questo né a mio marito, né ai miei familiari, perché come dicevo delle voci, mi costringevano a prendere lo psicofarmaco. Ho vissuto nella paura per tutti questi anni, senza potermi difendere, perchè non ho mai saputo da chi. C’erano voci negative o comunque che mi davano fastidio. Dopo aver letto dei libri di magia ed esoterismo, cominciai a minacciare di maledizioni tutti coloro che mi davano fastidio e a lanciare maledizioni, con tutta la rabbia e l’aggressività di cui ero capace, alle voci che volevano farmi del male. Del tipo: "Che il male che tu auguri a me, ritorni a te e ti colpisca come un boomerang e ti spacchi il cuore" oppure "Che tu sia maledetto per l’eternità, maledetta carogna!" oppure "Che la maledizione e la sventura colpisca te e la tua famiglia", con l’aggiunta di tutti gli insulti che mi venivano in mente per sfogare la mia rabbia. Perchè le maledizioni colpiscano, devono contenere la potenza delle nostre emozioni. In questo modo molte voci negative si sono allontanate, ma devo sempre stare all’erta. Ho la vaga impressione che una volta entrati nel mondo astrale, non sia facile uscirne, se non addirittura impossibile: starci in maniera consapevole ed in grado di difendersi, però, è meno angosciante. Mentre facevo tutto questo, c’era una voce che mi diceva "Devi elevare il tuo spirito". Per fare questo avevo bisogno di una religione in cui riconoscermi. Per questo mi sto avvicinando alla "gnosi" che dà molte spiegazioni, sia scientifiche che esoteriche, sui problemi dell’uomo, degli ego, dei viaggi astrali ecc. Praticamente mi sta spiegando come si definiscono le esperienze che per anni ho fatto, involontariamente, istintivamente e inconsapevolmente. Ho chiesto se loro considerano i viaggi dei drogati dei viaggi astrali, e mi è stato risposto che non bisogna confondere le allucinazioni coi viaggi astrali. A questo punto io non so se quelli che sentono le voci sono come me, cioè dei sensitivi inconsapevoli, o se hanno delle allucinazioni. Quando io ho cominciato a parlare delle mie voci in molti volevano convincermi che erano allucinazioni, ma io ero sicura che erano invece dei pensieri provenienti dall’esterno e non erano frutto della mia mente, ma non potevo dimostrarlo. Ora io sono sicura che ero una sensitiva inconsapevole, ma non so cosa dire degli altri, bisognerebbe applicare la mia esperienza a diverse persone: solo così si può avere la conferma se allucinazioni e viaggi astrali sono cose nettamente separate. Ad un certo punto il mio dialogo con le voci diventò confidenziale. Visto che erano sempre presenti, decisi di usarle per migliorare la mia vita. Quando non sapevo cosa fare da mangiare, lo chiedevo al mio pensiero ed improvvisamente giungeva un’idea. Oppure, se dovevo fare la spesa dicevo: "Prendi nota tu od io?" e la voce "Ci penso io" e al supermercato mi faceva l’elenco di ciò che mi serviva. Se avevo un problema con le mie bambine dicevo: "Senti, aiutami tu, ho questo problema, cosa ne pensi?" A volte ne nasceva un dialogo come tra marito e moglie, altre volte mi sentivo rispondere: "Cos’é, m’hai preso per tuo marito? A me dei tuoi problemi non importa niente". Allora reagivo mandandolo a dar via il culo, insultandolo e allontanandolo da me, perchè a me i "pezzi di merda" non interessano, né nella realtà né nella telepatia. E’ stato dando alle voci un valore reale che ho potuto prendere coscienza del fenomeno e dominarlo, per quel che si può dominare. Fin qui ampi stralci della corrispondenza tenuta con Emy. In questa storia, sono messi in campo e risolti tutta una serie di questioni e di nodi che abbiamo visto essere costituitivi dell’esperienza del sentire voci. Il riconoscimento della realtà delle voci, la loro gestione quotidiana, il loro utilizzo evolutivo, la necessità di un contesto culturale di riferimento... tutto condito dalla tenacia e dalla vitalità di questa donna che ha saputo fare, di quella che per molti diventa una disgrazia, un colpo di fortuna. Ho lasciato fuori fin qui le riflessioni che Emy fa sull’uso degli psicofarmaci. La sua esperienza a tal riguardo è illuminante. Quando lo psicologo mi ha somministrato lo psicofarmaco, dapprima ho provato il Lexotan, ma non lo tolleravo, mi faceva dormire. Allora siamo passati al Serenase associato ad Akineton. All’inizio mi sentivo rincoglionita ed incapace di reazioni, concentrazione, lucidità. Mi sentivo un po' handicappata. Col tempo mi sono abituata alla nuova personalità, piuttosto piatta, senza più fantasia e creatività. E’ stato molto doloroso. Dopo un certo periodo, 6 mesi/1 anno, ho deciso che non era il massimo, ma potevo riuscire a vivere anche così, che mi era successo qualcosa che da sola non riuscivo a dominare e, quindi, avevo bisogno dello psicofarmaco fino a quando non fossi stata sufficientemente forte da riuscire a dominare e controllare le mie ansie, i miei turbamenti e, soprattutto, il fenomeno delle "voci". Dopo aver preso questa decisione mi sono resa conto che tolleravo molto meglio lo psicofarmaco. Ritrovai la capacità di concentrazione, ricominciai ad assumermi più responsabilità di quanto il mio ruolo di impiegata richiedesse, perchè sapevo che se fossi riuscita a sopportare maggiori responsabilità sarei diventata più forte. Mi feci eleggere al Consiglio d’Istituto e scoprii che era il luogo ideale per scaricare la mia aggressività portando avanti le lotte in cui credevo. Poi cominciai a verbalizzare le sedute, riscoprendo una memoria a breve termine formidabile. Tutto serviva a farmi sentire più vive, più vera. Periodicamente provavo a smettere lo psicofarmaco, ma il fenomeno delle voci, in breve tempo, mi travolgeva, mi impediva di condurre una vita normale ed ero costretta a ricominciare. Volevo smettere perchè mi mancava troppo la vita emotiva, creativa e sentimentale. Ero fredda, scostante ed incapace di qualsiasi passione o coinvolgimento. Per il mio carattere era castrante. Prendevo lo psicofarmaco perchè pensavo che mi schermasse, mi difendesse dal fenomeno delle voci. In realtà il fenomeno non è mai cessato, solo era inconsapevole. Nel momento in cui sono riuscita a smettere, la memoria mi ha restituito la mia storia psichica che era una vita parallela a quella reale. La mia parte cosciente era nella realtà, l’inconscio lavorava contemporaneamente, autonomamente, senza lasciare traccia. Quella era la dissociazione. Ora che mi sto ricomponendo e non faccio più uso di psicofarmaco, quando vado in discoteca bevo vodka o birra. Gli alcolici sì che sono uno schermo. Sento un leggero peso in testa, ma è chiusa, non sento voci e contemporaneamente nel corpo sento come se la corazza lentamente cadesse. Chiusa la testa, si libera il corpo: con la testa aperta, il corpo è bloccato. E’ una difesa, perchè se non c’é la padronanza della testa, allora domino il corpo, se invece ho la padronanza della testa, libero il corpo. Esiste, fra quanti si battono per il superamento degli usi e degli abusi psichiatrici, una critica costante e puntuale alla somministrazione coatta di psicofarmaci , basata sull’infondatezza medica di queste ‘cure’ e sugli innegabili effetti devastanti nella mente e nel corpo di chi li assume. (cfr. BREGGIN P. 1985; ANTONUCCI G. 1993; CESTARI R. 1994; ANTONUCCI G., COPPOLA A, 1995) Non si può del resto non sottoscrivere la testimonianza di Roberto, ex paziente psichiatrico, in uno dei convegni sui diritti umani: "Volevo dire anche qualcosa sugli psicofarmaci. A me me li hanno fatti a dosi decisamente alte. Quando mi facevano questi psicofarmaci, io perdevo completamente la coscienza. Una caratteristica di questi psicofarmaci è proprio quella di toglierti la possibilità di esprimere... di essere critico nei confronti della realtà. Questo è un fatto negativo perchè una persona ha un significato, e acquisisce un significato, nella misura in cui riesce ad assumere, nei confronti della realtà, un atteggiamento critico e fortemente critico. Quello che gli psicofarmaci ti tolgono, è proprio questo atteggiamento critico nei confronti della realtà. E questa sarebbe una ragione per cui gli psicofarmaci andrebbero eliminati e aboliti". Gli psicofarmaci sono sostanze che alterano lo stato di coscienza e la percezione delle persone che li assumono. Il problema non è tanto, o solo, stabilire se e in che misura essi sono dannosi per l’organismo, ma anche, e soprattutto, capire se le modificazioni che inducono sono quelle che chi li usa ricerca in quel dato momento. L’equazione psicofarmaci = cura = malattia è una mistificazione psichiatrica. In realtà queste sostanze non curano alcunché (né dimostrano, come vorrebbero gli psichiatri, che ci sia una patologia alla base dei comportamenti inaccettabili). Essi nella maggiorparte dei casi limitano le facoltà di giudizio, critica e azione delle persone, producendo una situazione di dipendenza psichica e di passività relazionale che, paradossalmente, può essere vissuta, date certe condizioni , come liberatoria dalle persone. Un po' come la vodka libera il corpo di Emy, così, a volte, l’assunzione di psicofarmaci ci libera dal dover prendere delle decisioni o dal percepirne il peso. L’uso cosciente di una qualsiasi sostanza, legale o illegale che sia, va rispettato e inserito nel percorso di vita di chi la sceglie. Ciò che non può essere tollerato è il fatto che altri possano decidere come deve funzionare la tua mente, la tua biochimica, i tuoi ritmi sonno-veglia. Ho scritto altrove (BUCALO G. 1996b) che il rifiuto di assumere psicofarmaci da parte della stragrande maggioranza dei pazienti psichiatrici, non nasce nè dalla non coscienza di malattia, né tantomeno dalla paura dei danni fisici che essi provocano. Non c’é neanche un rifiuto aprioristico verso sostanze che alterano il proprio stato di coscienza (se vero che chi sente le voci spesso usa l’alcool o le droghe per tentare di contenere questa esperienza). Il motivo fondante di questa opposizione strenua alle cure psichiatriche è, a mio avviso, il rifiuto della ideologia in cui la prescrizione di psicofarmaci è inserita. Fra il serenase prescritto dal tecnico e il serenase assunto e gestito da Emy dopo 1 anno, c’é una distanza incolmabile. Nel primo caso esso era una medicina che, per il solo fatto di assumerla, presupponeva l’accettazione dell’irrealtà delle proprie percezioni e esperienze. Nel secondo caso diventava strumento, l’unico allora a sua disposizione e conoscenza, per imporre una tregua nell’assedio delle voci. Non a caso anche gli effetti chimici della sostanza sembravano ed erano sostanzialmente diversi. Quando ci si autoprescrive una sostanza, non si attua una negazione della propria esperienza, si batte una ritirata strategica di fronte a un nemico che si riconosce reale, ma che si è consapevoli non potere affrontare. Quando la stessa sostanza ci viene prescritta da altri, ciò che ci si impone è una resa incondizionata a un nemico che nessuno riconosce come tale. ROMME cita studi psichiatrici in cui si afferma che circa 1/3 delle persone che sentono voci e assumono psicofarmaci, non ne hanno alcun giovamento. Per gli altri 2/3 è possibile ipotizzare l’effetto di devitalizzazione descritto da Emy. Non si ha più l’energia di articolare un rapporto vivente con la propria esistenza e le proprie percezioni. Così come, raramente, la scomparsa apparente delle voci. Anche in quelle esperienze in cui le persone testimoniano l’effetto positivo degli psicofarmaci sulla percezione delle voci, questi arriavano ad annullarle. L’autodefinizione che le persone danno di sè come malate, non è la presa di coscienza di un fatto oggettivo, ma anch’essa una strategia per far fronte alle voci. Il libro di Lori SHILLER, ancorchè essere sponsorizzato dall’industria farmaceutica, è un esempio di ciò. Scrive Lori: "Di tanto in tanto sento ancora le Voci ma cerco di mettere in pratica il mio stesso consiglio: mi distraggo, mi faccio una ramanzina, mi concentro sul mondo esterno. Ho insegnato a me stessa ad usare una piccola trappola quando loro ricompaiono: "Queste Voci non sono reali, non spaventarti, non ti innervosire, non sono reali, non far sì che prendano il sopravvento, cerca di pensare a quello che è successo prima che tu le avessi udite. C’è qualche emozione che puoi isolare che aiuti a spiegare perché ora loro sono qui? Non sono reali, va tutto bene, non ti spaventare". Quando sento le Voci, mi scuoto e torno alla realtà usando tutti i miei sensi. Se sono sul treno per Manhattan, ad esempio, mi concentro sul sapore della Diet Coke e sull’odore del mio profumo. Guardo fuori dal finestrino il paesaggio che cambia e ascolto attentamente il rumore del controllore che raccoglie i biglietti. Sento il mio biglietto che si muove avanti e indietro tra le mie dita". (SHILLER L. 1994, pagg. 312-313) Non esistono strategie giuste o sbagliate, ognuno cerca da sè quella che più corrisponde alle sue esigenze e alla sua sensibilità. Possiamo non condividere l’enfasi con cui Lori parla del farmaco che ha cambiato il suo rapporto con le voci, come qualcun altro potrà non trovare liberatorio l’affidarsi di Eillen alla volontà divina. E’ impossibile, del resto, definire chi siano le persone che possiamo considerare libere. E poi libere da che? E’ molto probabile che un uso protratto di psicofarmaci porti ad un’incapacità di percepire le voci. Ma questo coprire il fenomeno, oltre a rivelarsi inumano e inutile, a lungo andare provoca danni sociali, personali e sanitari, spesso irreversibili (discinesia tardiva, isolamento, emarginazione sociale, internamento...). La stessa Lori afferra la questione quando conclude "Per anni ho cercato di nascondere le Voci perchè supponevo che terrorizzassero le persone, mentre ultimamente ho scoperto che non sempre è così. Quando uno dei postini che fanno distribuzione nel nostro edificio si mostrò interessato, io gli diedi un articolo su di me e la mia storia. Era giovane e io lo guardai attentamente mentre lo leggeva. Alla fine guardò su. "Senti le voci?" chiese incredulo. "Si, mi succede a volte" dissi, e aspettai che apparisse uno sguardo di orrore sul suo viso. Ma il suo sguardo fu, invece, di pura ammirazione. "Wow!" disse, con incredibile entusiasmo. Volevo abbracciarlo". (SHILLER L. 1994, pag. 313) Esperienze come il sentire voci sono fenomeni complessi e dinamici. Nessuna strategia o sostanza può pensare di controllarne stabilmente l’evoluzione. Ciò che abbiamo davanti non è un processo patologico, né una cosa: ci troviamo di fronte ad una relazione sensata fra esseri umani (e non), con le sue emozioni, i dubbi, i desideri, le contraddizioni che gli sono proprie. C’è una storia che va costruita ogni giorno, che va affrontata e a cui va dato un senso ogni giorno. Può servire, a volte, stordirsi e dormire, diventare tanto insensibili da non farsi toccare, perdere la coscienza di sé, ma in nessun caso ci può essere imposto o può diventare una scelta di vita. Le voci su questo sono molto chiare. Scrive JAYNES: "Un paziente paranoico vide apparire in aria la parola veleno nel momento stesso in cui l’infermiere gli faceva prendere la medicina". (JAYNES J. 1984, pag. 121) Non sempre la verità è riconosciuta come tale. Spesso la psichiatria la chiama paranoia e noi facciamo finta di non sentire. |