A COME SREBRENICA
INTERVISTA A ROBERTA SULLO SPETTACOLO TRATRALE SCRITTO DA GIOVANNA GIOVANNOZZI


settembre 200O intervista a cura di Giacomo Scattolini

 

per una introduzione sui fatti: Bosnia, luglio 1995

 

Nel libro "Lo specchio di Sarajevo" Adriano Sofri scrive: "Le persone di Sarajevo si chiedono quanti anni, e quanti milioni di altre vittime, ci separano dal giorno in cui nomi come Goradze ­ o Srebrenica ­ saranno celebrati come Guerninca e Marzabotto, e si faranno grandi film sul loro martirio?".
"A come Srebrenica" è un'attenta ricostruzione che vuol dare una risposta alla domanda che si è posto Adriano Sofri, "A come Srebrenica" è uno spettacolo teatrale scritto da Giovanna Giovannozzi e portato in scena da Roberta Biagiarelli.
L'attrice da sola sopra il palco per un'ora e mezza diventa narratrice e protagonista di questa storia, dell'assedio di Srebrenica, dove la ragion di stato e gli interessi della politica internazionale hanno giocato a Risiko con la vita di decine di migliaia di persone. Abbiamo incontrato la protagonista del monologo, Roberta Biagiarelli, dopo uno spettacolo fatto a Bolzano nell'ambito del Festival Euro Mediterraneo organizzato dalla fondazione Alexander Langer. Un teatro pieno, nonstante la contemporaneità della partita di calcio dell'Italia, a dimostrare che c'è un'altra Italia che vuol ragionare e ricordare.

Come è nata l'idea di scrivere "A come Srebrenica" ?
Chi mi ha fatto conoscere questa città, questa storia è stata l'autrice del testo Giovanna Giovannozzi. Ma possiamo dire che il padre putativo del racconto è Luca Rastello perché Giovanna è partita proprio leggendo il capitolo su Srebrenica descritto da Rastello nel suo libro (La guerra in casa ­ Ed. Einaudi, ndr). Il testo originario era completamente diverso da come lo è adesso, è cambiato, è cresciuto, ci sono stati dei tagli fino ad arrivare al testo attuale. Poi insieme alla regista Simona Gonella abbiamo fatto la drammaturgia del testo. Non esiste un testo ufficiale perché il racconto lo cambio ogni sera, muto alcune parti, le miglioro, gli do un ritmo che sia efficace per far si che la comunicazione arrivi dove deve arrivare.

Perché la necessità di raccontare quello che è suc-cesso a Srebrenica?
Io sono partita nel 1997 a raccontare questa storia perché era una guerra finita da due anni e già dimenticata ma combattuta a poche centinaia di chilometri da noi, che è la cosa forse più devastante. Certo ci sono molte altre guerre dimenticate ma questa è successa a due passi da casa e tu non la ve-di, ti sfugge e quindi la cosa è ancora più grave. Sono partita con la voglia di raccontare questa storia proprio perché nessuno se la ricordava più. Ora la guerra è finita - è finita poi davvero mi chiedo? ­ e paradossalmente ora dopo cinque anni è dimenticata. Abbiamo più vivi nella memoria i racconti degli stermini del 1945 che quelli di cinque anni fa. E' come dare alle tragedie un peso, una gravità in base a dove si sono verificate. Bisogna avere l'attenzione di non dimenticare, ma no "non dimenticare" per averlo vivo nella memoria ma "non dimenticare" per fare per essere operativi, da subito, da ora.

Perché la scelta di rappresentarlo sottoforma di monologo e non con una compagnia di attori più ampia?
La scelta è stata dettata dalla necessità di fare uno spettacolo economico, con pochi soldi, agile, senza musiche e scenografie. Lo spettacolo è l'attore che parla e si fa portavoce del testo. Non potrei imma-ginare come poterla fare a più voci non avendo poi il testo una struttura dialogica, a personaggi ma è qualcuno che è la stessa persona che diventa i per-sonaggi che ti da la sfaccettatura e l'inquadramento della storia.

Hai mai realizzato lo spettacolo davanti a profughi di quella città per capire se ciò che dici sono le stesse sensazioni, storie e drammi che loro hanno vissuto?
Per me è complicato fare lo spettacolo sapendo che fra il pubblico c'è chi ha vissuto realmente ciò che io racconto con un artificio o con una metafora, anche se con l'uso di una finzione io cerco di essere il più vicino alla realtà. In una rappresentazione fatta a Milano lo scorso mese era presente fra il pubblico un ragazzo di ventidue anni profugo dell'enclave di Bihac in Bosnia. Lui ha visto tutto lo spettacolo piangendo. Mi ha confessato di aver apprezzato moltissimo lo spettacolo ammettendo che era entrato a teatro con scetticismo. Pensava che nessuno potesse raccontare quello che lui aveva passato. La casa bruciata, il vicino che il giorno prima ci gioca a pallone poi il giorno dopo gli punta una pistola contro. "Io credo ­ mi ha detto - che nessuno sia capace di raccontare comunque quello che abbiamo vissuto. Io mi sento straniero in questa terra. Voglio ritornale là a vivere." In un'altra occasione, ad Alba, ho incontrato l'Associazione delle Donne in Nero di Srebrenica. Durante la loro conferenza stampa hanno raccontato l'assedio prima e il massacro poi. Una di loro nel massacro ha perso dodici membri della sua famiglia. Sentendo i loro racconti la sensazione che si aveva era di sentire a tratti il testo dello spettacolo. Eppure loro non lo avevano mai visto. Io nel testo ho scritto delle cose che pur non essendo stata là durante l'assedio, ma che ho desunto dai racconti o dai libri, corrisponde a ciò che è realmente successo. E questo è la forza che il teatro ha dentro di se quando viene fatto in senso civile. Quando incanali tutte le tue energie e riesci a vedere anche dove non sei mai stata.

Come definisci questo tipo di teatro?
Un'orazione civile. Dopo lo spettacolo di Paolini sul Vajont, che ha fatto un po' da apripista, ed il timbro che gli è stato dato penso che "Orazione civile" sia il termine giusto. A volte oltre allo spetta-colo teatrale si affianca anche un "Laboratorio" tenuto da Luca Rastello dove si cerca di sviscerare il perché della guerra. Da uno spettacolo teatrale si passa ad un lavoro più prettamente giornalistico.
Raccontando solo la storia di Srebrenica riconosci dei limti oggettivi al tuo racconto vista la complessità della guerra in ex Jugoslavia?
Una cosa di cui il testo difetta e a cui stò comunque cercando di lavorare e la cosiddetta "ragione degli altri". Il pubblico, nelle 25 repliche che ho fatto da gennaio ad oggi, quando viene a vedere lo spettacolo dicono: bello, brava però l'unica critica che mi fanno, in special modo una parte del pubblico più preparata su certi argomenti,è che dalla rappresentazione i serbi né escono alquanto malconci. Sembra che siano tutti cattivi mentre i musulmani siano tutti buoni. Attualmente sto cercando di inserire nel testo dei chiarimenti per far capire che quando parlo di "serbi" intendo l'esercito, i mercenari del defunto Arkan e Seselij. E' chiaro che non mi riferisco alla popolazione serba, ma per raccontare la storia di Srebrenica un punto di vista teatrale dovevo pur prenderlo ed ho deciso di raccontare la storia dal punto di vista di chi veniva massacrato. Nel caso di Srebrenica è così: i serbi sono stati i massacratori. Alla luce dei bombardamenti della Nato sulla Serbia mi viene fatto questo appunto che non si può fare di tutto un'erba un fascio. Sono consapevole che per qualcuno questo può essere un limite.

Hai mai pensato di realizzare lo spettacolo proprio in Bosnia, magari invitando chi ha Srebrenica ha vissuto quei giorni?
Per un periodo ci abbiamo pensato poi abbiamo desistito per la lingua, che è comunque uno scoglio insormontabile, e poi perché penso che sia più importante la divulgazione qua per far si che non si dimentichi perché come mi ha detto Nadira, dell'agenzia ANSA a Sarajevo, "Bisognerebbe davvero fare lo sforzo di capire quello che è successo, perché ora il mondo ci ha dimenticati".

 

Per informazioni sullo spettacolo: 0338-8591387