BOSNIA, LUGLIO 1995: SREBRENICA
E ZEPA
INTRODUZIONE
AL DOSSIER
settembre
2000, a cura di Giacomo Scattolini e Tullio Bulgari
Nell'estate del 1995, più esattamente nel mese di luglio, non era difficile immaginare che la guerra in Bosnia Erzegovina era alla fine. La fine "ufficiale", quella delle strette di mano e dei trattati sarebbe arrivata qualche mese dopo. I segnali c'erano tutti. La caduta della Kraijna assomigliava più ad una ritirata che ad una verrà battaglia di "liberazione". Le enclaves musulmane di Zepa, Goradze, Biach e Srebrenica erano allo stremo mentre i serbi dei quartieri di Sarajevo stavano diseppellendo i loro morti per apprestarsi ad un viaggio di addio, senza un probabile ritorno a casa. Era chiaro che dietro tutto ciò c'era un accordo, neanche tanto segreto, di scambi di territori fra i belligeranti. E la popolazione? Il problema era presto risolto con una parola "magica" che da anni oramai risonava nelle orecchie di tutti: pulizia etnica. In fondo era il prezzo da pagare per far cessare una volta per tutti i combattimenti, così la Comunità Internazionale e l'ONU potevano gridare il loro successo. Come andò a finire oramai è storia, nomi di città come Srebrenica con il loro carico di 7.000 morti mette paura solo a sentirla nominare. I profughi li abbiamo visti ripetutamente su tutti i giornali e telegiornali, ma raramente abbiamo sentito parlare degli "scomparsi".
Esattamente cinque anni fa si consumava uno degli ultimi atti, forse il più tragico, che quattro anni di guerra in Bosnia Erzegovina ci avevano riservato. La caduta ed il massacro della Zona Protetta di Srebrenica.I fatti. La guerra oramai era alla fine, bisognava solo raggiungere sul terreno i patti che i potenti - Milosevic, Izetbegovic e Tudjman - avevano non tanto segretamente sottoscritto, con il tacito assenso della comunità internazionale: il 51% del territorio della Bosnia ai croato-musulmani ed il restante ai serbo bosniaci. Ma per raggiungere ciò bisognava togliere di mezzo queste zone protette, come ebbe a dire un generale delle Nazioni Unite. Le zone protette erano delle enclaves musulmane in un territorio completamente in mano ai serbo bosniaci ma sotto la protezione dell'ONU. Le zone protette erano un'invenzione del Generale delle Nazioni Unite Morillon, lo stesso che i media occidentali definivano "L'eroe di Srebrenica" perché era colui che era riuscito ad entrare, nel 1993, in quella città con degli aiuti. Peccato che gli stessi media sorvolarono sempre sul fatto che Morillon per tentare di uscire indenne da quella città cercò goffamente di travestirsi da un comune cittadino. Peccato poi che le donne lo riconobbero e di peso lo portarono dentro al palazzo delle poste. "Eh no caro Morillon gli avranno detto adesso tu non ti muovi fino a che non ci porti tutti fuori da questo inferno". Una notte insonne e Morillon partorì l'idea: la Zona Protetta. Le Nazioni Unite garantivano la sicurezza della città dall'assedio serbo tramite l'invio di un centinaio di soldati canadesi prima e olandesi poi.
Passano due anni ed i signori della guerra bosniaca decidono che è ora di finirla se si vuole ancora conservare il potere, ma c'è ancora da risolvere l'annoso problema dei quartieri di Sarajevo in mano ai serbi e quello delle enclaves oramai indifendibili per il governo bosniaco. Cosa meglio di uno scambio di territorio e dei relativi abitanti per pareggiare il conto? Ma cosa si fa con i caschi blu che "difendono" le enclaves? A risolvere il problema interviene l'ONU. Il 30 maggio del 1995 l'ONU pubblica un documento dove si dichiara che i Caschi Blu possono lasciare le Zone Protette. E' il segnale che i serbi bosniaci attendevano.
Il nove luglio 1995 l'esercito serbo bosniaco guidato dal Generale Mladic inizia il bombardamento di Srebrenica. I caschi Blu tentano di convincere la popolazione bosniaca alla resa garantendo che gli aerei NATO sarebbero intervenuti a difenderli. Nel frattempo Naser Oric, comandante dell'esercito bosniaco a Srebrenica, insieme con i suoi fedelissimi, vengono prelevati e trasferiti a Tuzla. L'artiglieria serba continua a martellare la città, degli aerei NATO neanche un rombo in lontanza si ode. I serbi sono in città. I Caschi Blu olandesi per salvare la pelle cedono in blocco tutto il loro armamento ai serbi. L'esercito serbo bosniaco entrano a Srebrenica a bordo dei blindati bianchi dell'ONU. La popolazione bosniaca gli corre incontro convinta che siano "i salvatori", che siano arrivati per portali via. Solo dopo si accorgeranno dell'inganno, ma oramai è troppo tardi.
Seguiranno due settimane di rastellamenti, uccisioni, stupri e fughe in massa di donne, vecchi e bambini. Gli uomini vengono fatti prigionieri. Nulla si saprà più di loro. Un esercito di vedove reclamano ancora di sapere che fine hanno fatto settemila persone. Tanti sono i "dispersi" di Srebrenica. La maggior parte di loro sono stati uccisi dell'esercito serbo bosniaco del Presidente e criminale di guerra Karadzic'. Attualmente più di quattromila morti sono stati rinvenuti nei dintorni della citta, fra i boschi e in fosse comuni.Nel libro "Lo specchio di Sarajevo" Adriano Sofri scrive: "Le persone di Sarajevo si chiedono quanti anni, e quanti milioni di altre vittime, ci separano dal giorno in cui nomi come Goradze o Srebrenica saranno celebrati come Guerninca e Marzabotto, e si faranno grandi film sul loro martirio?".
"A come Srebrenica" è un'attenta ricostruzione che vuol dare una risposta alla domanda che si è posto Adriano Sofri, "A come Srebrenica" è uno spettacolo teatrale scritto da Giovanna Giovannozzi e portato in scena da Roberta Bigiarelli alla quale abbiamo fatto una intervista.Durante la caduta di Srebrenica e Zepa molti uomini furono fatti prigionieri ed arrestati con l'accusa di "tradimento" ma solo pochi prigioniri sono stati scambiati alla fine della guerra. Molti mancano ancora all'appello. E' un enorme buco nero che, non si capisce perché, non si riesce a risolvere. Riportiamo il racconto-testimonianza diretta di una donna il cui marito è stato "arrestato" su ordine del generale Mladic all'interno di una base ONU durante le trattative per la resa della enclave musulmana di Zepa.
E' una storia tragica, assurda ed aberrante dove la ragion di stato e la real politik occidentale ha fatto si che ad una donna venisse strappato il marito. E' la storia di una lunga ricerca non ancora finita, è la storia di una madre che vuole a tutti i costi sapere in quale carcere è rinchiuso il padre delle sue due bambine, è la storia del "Comandante Avdo Palic" e dei mille altri prigionieri di guerra, di ogni fronte, non ancora rilasciati.