SCOMPARSO: LA STORIA DI AVDO PALIC
RACCONTO TESTIMONIANZA DIRETTA DI UNA DONNA IL CUI MARITO E' STATO "ARRESTATO" SU ORDINE DEL GENERALE MLADIC ALL'INTERNO DI UNA BASE ONU DURANTE LE TRATTATIVE PER LA RESA DELLA ENCLAVE MUSULMANA DI ZEPA.


novembre 2001 di Esma Palic

 

per una introduzione sui fatti: Bosnia, luglio 1995


"In sostanza, in una trattativa ufficiale, tra delegati senza armi, in territorio ONU, sotto la protezione ONU, viene rapito un rappresentante ufficiale delle parti e fatto scomparire. Questo è successo in que-sto Paese. Questo il mondo ha tollerato che succe-desse, così come ha tollerato pulizie etniche e prati-che sistematiche di genocidio. Adesso il mondo tollera il silenzio su decine di migliaia di "scomparsi", adesso non possiamo più passare li-miti: perché così tutto può succedere, tutto è legit-timo."
(dalla lettera inviata il 7 luglio 1997 da Esma Palic ai deputati italiani in visita a Sarajevo).

Abbiamo incontrato Esma Palic a Mostar alla fine di gennaio del 1999. Conoscevamo già la sua storia attraverso il film documentario - di cui abbiamo ripreso il titolo - realizzato da Piero del Giudice e Michael Beltrami per la tv svizzera TSI e volevamo riproporla attraverso il suo racconto diretto. Quella che segue è la nostra trascrizione di una lunga chiacchierata avuta con lei, grazie all'aiuto di un'interprete. Nonostante questi oggettivi limiti di comunicazione, abbiamo cercato di riprodurre le sue stesse parole, il suo modo di esprimersi e anche lo stesso ritmo del racconto.

Mi chiamo Esma Palic e sono la moglie del coman-dante Avdo Palic. Io e Avdo siamo originari di Ze-pa, una cittadina della Bosnia orientale ai confini con la Serbia. All'inizio del 1992 eravamo ancora fidanzati. Io vivevo a Sarajevo, dove frequentavo l'Università. Nel mese di marzo decidemmo di an-dare a Zepa a trovare i nostri genitori, nonostante i loro consigli contrari. La situazione era già molto confusa, si temeva lo scoppio della guerra, ma non potevo mai immaginare che si sarebbe giunti a tan-to.
Io partii da Sarajevo il 29 marzo con un autobus e Avdo partì con un altro autobus da Vlasenica il 3 a-prile. Pensavamo di restare a Zepa per poco tempo ma la situazione peggiorò improvvisamente. Pro-prio in quei giorni era scoppiata la guerra, Rogatica e altri paesi della regione erano subito caduti sotto i primi attacchi delle milizie serbe. Solo Zepa aveva resistito e così era diventata un punto di riferimento per la gente che fuggiva dai paesi occupati. I primi profughi iniziarono ad arrivare già il 10 di aprile.
Quei primi attacchi non erano ancora molto forti, perché l'obiettivo principale era Sarajevo. Più che
altro attuavano una guerra psicologica, con qualche lancio di granate, minacce via radio, qualche azione di disturbo o incursioni notturne. Il primo attacco forte fu sferrato il 4 giugno. Pensavamo che Zepa non potesse reggere l'urto, poi però siamo riusciti a difenderci.
Già da quel giorno io e Avdo capimmo che non era possibile restare a Zepa, però decidemmo ugual-mente di fermarci ancora un po', per vedere meglio come si sarebbe sviluppata la situazione. Restammo anche a causa del passato di Avdo. Lui infatti era stato un ufficiale della JNA, l'Esercito Popolare Ju-goslavo, e dopo il congedo era stato inquadrato fra i riservisti. In quel momento a Zepa godeva di una buona reputazione come soldato, si era comportato bene durante quei primi giorni e così divenne subito un punto di riferimento per la gente.
A settembre i serbi scatenarono una seconda vio-lenta offensiva. Tutti i civili erano scappati dai vil-laggi vicini e si erano ritirati nel nucleo abitativo principale di Zepa. Anche questa volta eravamo si-curi di non poter resistere. Avdo però ebbe una brillante idea tattica e riuscì a respingere l'attacco. Fu in quella occasione che conquistò definitiva-mente la fiducia totale della popolazione e fu eletto capo militare direttamente dalla gente. Io allora non mi resi conto che Avdo, con quelle iniziative e con quell'incarico importante, si era esposto troppo e poteva correre dei pericoli. Allora non avevo que-sti pensieri perché nonostante tutto ancora pensa-vamo che saremmo sopravvissuti.
Dopo settembre le offensive serbe diminuirono ma presto sopraggiunse l'inverno, con il freddo e la fame. Il paese era completamente assediato, era im-possibile uscire, non c'era nulla da mangiare e non poteva entrare nessun convoglio umanitario. I primi aiuti furono lanciati dal cielo con il paracadute sol-tanto nel gennaio del 1993, e comunque era sempre troppo poco quello che si riusciva a recuperare. Per superare l'inverno siamo stati costretti a mangiare di tutto. Ho visto gente morire di fame davanti ai miei occhi.
Una catastrofe umanitaria. Solo dopo un po' di tempo è arrivato il primo convoglio umanitario, or-ganizzato da un'associazione francese. Mi ricordo di un uomo con una lunga barba grigia, che noi chiamavamo l'angelo. Solo in seguito gli aiuti u-manitari hanno iniziato, per un po', ad arrivare con una certa regolarità. All'inizio i convogli proveni-vano da Belgrado, i serbi requisivano per loro una parte dei viveri destinati a noi. In seguito la pesan-tezza dell'embargo economico inflitto alla Serbia i-niziò a ripercuotersi anche su di noi, così col passa-re del tempo gli aiuti iniziarono ad arrivare in modo sempre più irregolare e scarso.
Con l'arrivo della primavera ripresero anche gli at-tacchi militari e ad aprile ci fu una nuova e dura of-fensiva. Anche questa volta però riuscimmo a di-fenderci. Poi finalmente nel maggio del 1993 Zepa fu dichiarata zona protetta dalle Nazioni Unite, in-sieme a Gorazde, Srebrenica, Bihac. Da allora iniziò un periodo un po' più normale.
Durante l'inverno io e Avdo ci eravamo sposati. La casa dei suoi genitori si trovava lungo la prima li-nea del fronte e nel mese di dicembre era stata bombardata e bruciata. Così era stato costretto a venire a vivere a casa mia e dei miei genitori. Era-vamo ancora fidanzati e Avdo non sopportava l'idea di essere ospite dei genitori della sua fidanzata. Mi diceva: "sono come un marito per te, viviamo qui insieme e non siamo sposati, è meglio che ci mettiamo in regola e facciamo le cose per bene". Così mi propose di sposarci. Anche io ho pensato che era bene sposarci, anche se avevo immaginato un matrimonio più bello, con una cerimonia più bella. Pensavo anche al fatto che Avdo era un militare, però avevamo anche questo senso del 'giusto', dell'essere in regola. Chissà quali momenti psicologici vivevamo in quel momento e cosa il mio inconscio mi dettava. Può sembrare assurdo sposarsi in quella situazione, in quell'inverno così duro, ma noi volevamo comunque proseguire la nostra vita, una vita che comunque fosse normale, e così dopo sei anni di fidanzamento, il 5 febbraio del 1993 ci siamo sposati. Subito dopo il nostro matrimonio c'è stato anche un altro lancio di aiuti dal cielo ed è stato come una specie di regalo di nozze, dicevamo: "siamo stati fortunati".
A maggio, dopo la dichiarazione di zona protetta arrivò a Zepa un contingente militare ucraino delle forze multinazionali. Da quel momento avrebbero dovuto proteggerci loro dagli attacchi dei serbi. Per prima cosa ci disarmarono ma naturalmente non fecero altrettanto con i serbi. Mio marito non era più in grado di difendere la zona con le sue forze. Il suo compito ora era di fungere da ufficiale di colle-gamento. I rapporti con gli ucraini però erano diffi-cili, spesso non erano nemmeno educati ma Avdo era molto paziente. In ogni caso dopo l'arrivo degli ucraini la vita si era un poco normalizzata, anche se questo non significa che potevamo stare tranquilli. Infatti le granate continuavamo a cadere periodica-mente, specie quando c'erano feste o ricorrenze, come ad esempio il Bajram musulmano. L'assedio continuava, i giorni passavano, vivevamo del no-stro lavoro, coltivavamo i nostri orti di guerra.
In quei due anni io ho partorito le mie due bambine. Serma è nata il 3 marzo del 1994 e Nejra il 26 marzo del 1995. E' difficile spiegare come siamo giunti a questa decisione. Prima della guerra io frequentavo l'università e la vita era più tranquilla, diversa. Ora a Zepa non era più la stessa cosa, tutta la nostra vita continuava con il ritmo scandito dalle granate. Eppure proprio durante la guerra sono nati molti bambini. E' strano ma è come se in quel modo uno possa sentirsi ancora vivo, più vivo, e possa dire "ho vissuto, ho un figlio, lascio comunque qualcosa di me". Non so cosa c'è nell'inconscio di una persona in quelle situazioni. Ci ha guidato l'istinto. O forse è anche vero che abbiamo vissuto nell'inganno, pensavamo davvero che Zepa fosse protetta dalle Nazioni Unite, e che quindi bisognava solo avere pazienza e attendere che la guerra finisse, per poter tornare a vivere come prima, una vita tranquilla e normale.
Avdo ha insistito più di me per avere dei figli. Ora non sono affatto pentita, anzi posso dire che sono molto felice con le mie due figlie. Abbiamo vissuto momenti indimenticabili allora. Avdo era molto af-fettuoso con loro, era molto attaccato soprattutto alla più grande, ci giocava; con la piccola invece non ha nemmeno avuto il tempo di affezionarsi per-ché quando la situazione ha iniziato a precipitare lei era troppo piccola, era nata da pochi mesi.
La situazione iniziò a deteriorarsi nella primavera del 1995. Già nel mese di marzo si sapeva che do-veva arrivare un'offensiva molto forte, nonostante la presenza dei caschi blu ucraini. Era chiaro che le cose non stavano andando per il verso giusto. Io pe-rò non insistevo con Avdo per farmi spiegare cosa stava accadendo. Se lui raccontava di sua iniziativa io lo ascoltavo, ma non facevo domande. Di solito lui cercava di tranquillizzarmi, diceva: "si sta avvi-cinando la fine della guerra, a settembre tornerai a studiare e la vita riprenderà come prima, normale". Ma le notizie erano contraddittorie. Molti segnali facevano capire che la situazione era cambiata. Le offensive militari e gli attacchi erano ripresi un po' ovunque, c'erano state anche delle stragi in altre lo-calità.
Gli stessi capi militari serbi ci avevano spedito let-tere in cui dicevano: "non potete più stare lì, questi ora sono i confini della Serbia, dovete andarvene". Sono stati loro i primi a insinuare che ci fosse stato uno scambio. Intanto gli attacchi militari contro di noi aumentavano d'intensità, c'erano continue incursioni notturne all'interno del paese, con uccisioni e attentati. Da Rogatica, la sede del Comando Serbo che guidava le operazioni contro Zepa, ci intimavano di arrenderci. Chiedevamo aiuto a Sarajevo ma rispondevano che non potevano. Ci sentivamo come agnelli sacrificati dal governo bosniaco per avere in cambio Sarajevo libera dall'assedio serbo. Non si capiva cosa stesse facendo il governo. Se c'erano già stati veramente degli accordi segreti per barattare le enclaves di Zepa e Srebrenica con la liberazione di alcuni quartieri di Sarajevo, certo non venivano a dirci: "Siete stati venduti", ma il deterioramento della situazione era molto evidente.
In quelle notti Avdo non riusciva a dormire, la sua preoccupazione era molto evidente. Io dentro di me sentivo cose contrastanti. Mi dicevo "la guerra fini-rà", ma avevo paura per Avdo, sentivo che qualcosa non andava, ma pensavo anche, o forse lo speravo soltanto, che a lui non poteva accadere qualcosa di male, anche se capivo che si stava esponendo trop-po.
A Zepa c'erano ancora i soldati ucraini. Restarono lì fino all'ultimo giorno. Il 6 luglio del 1995 iniziò l'attacco serbo a Srebrenica, l'11 era già finito, la città era caduta. Dopo l'11 le forze militari serbe si concentrarono tutte contro di noi e la situazione di-venne molto pesante. Sapevamo che Srebrenica era difesa molto meglio di noi eppure era caduta in una sola sera. Era impensabile che saremmo riusciti a difenderci. I superstiti di Srebrenica che erano fug-giti attraverso i boschi ed erano riusciti a raggiunge-re Zepa, raccontavano storie drammatiche, di mas-sacri, di sterminio. Queste notizie fecero dilagare il panico, perdemmo la fiducia nelle forze multina-zionali che avrebbero dovuto proteggerci. Ci chie-devamo: "Cosa ci capiterà? Le forze delle Nazioni Unite sono state a guardare a Srebrenica e faranno lo stesso anche da noi: ci hanno anche disarmato." Eravamo allo sbando. Anche in quella situazione Avdo cercava di reagire e di farci coraggio, diceva: "Non possiamo fuggire e abbandonare la gente, dobbiamo per forza difenderci: non c'è altro da fa-re." Questa era la sua ossessione.
L'accerchiamento serbo si stringeva sempre di più, di ora in ora. Iniziarono con degli attacchi psicolo-gici, portarono i loro autobus vicino al paese e in-vitarono la gente a fuggire. Facevano trasmissioni alla radio per dire alla gente di non dare retta ad A-vdo, perché era un pazzo. C'era molta paura, sape-vamo cosa era accaduto a Srebrenica a chi si era fi-dato dei serbi: erano stati tutti uccisi.
Il primo attacco militare forte iniziò il 12 luglio. Zepa riuscì a resistere solo per dodici giorni, il tre-dicesimo fu presa dai serbi. Fin dal primo momento si decise di avviare le trattative per cercare di far evacuare le persone civili e salvarle. I caschi blu ucraini avrebbero dovuto essere i garanti dell'operazione. Il luogo stabilito per lo svolgi-mento delle trattative era il check point serbo. Al primo incontro parteciparono le autorità civili di Zepa, Hamdija Torlak, membro del Consiglio Re-gionale, Benjamin Kulovac, Direttore dell'Ospedale, e altri. Si incontrarono con gli uffi-ciali serbi alla presenza del comandante ucraino Dudnik, che fungeva da mediatore. Alla fine dell'incontro Dudnik disse: "Devo andare al co-mando serbo di Rogatica per parlare con persone più alte in grado e ottenere maggiori garanzie." Non tornò più. Attraverso un messaggio radio disse che era stato trattenuto dalle autorità serbe e non poteva più tornare. Ci furono delle trattative anche a Sara-jevo, ma nemmeno queste ebbero successo.
Agli incontri al check point serbo di Zepa parteci-pavano sempre i nostri rappresentanti civili. Per i nostri militari era troppo pericoloso, non avevano garanzie sufficienti. Ad Avdo avevano raccoman-dato, da Sarajevo, di non partecipare. Lui stesso sa-peva di essere molto importante per dare coraggio e fiducia alla popolazione di Zepa, e così restava in paese, vicino a loro. In questi incontri i capi militari serbi intimavano sempre e semplicemente la nostra resa. Noi sapevamo cosa era accaduto a Srebrenica e volevamo garanzie molto solide prima di arrenderci. All'inizio delle trattative ci chiesero anche lo scambio di alcuni prigionieri serbi, che in precedenza erano stati catturati da noi ed erano trattenuti in paese.
Noi avevamo sempre la speranza che a Sarajevo si trovasse una soluzione alternativa a quella di sven-derci così; sapevamo che c'era stato un primo in-contro presso l'aeroporto di Sarajevo e poi ancora un nuovo incontro qualche giorno dopo. Era anche una guerra psicologica, dopo 12 giorni eravamo sfi-niti. Sapevamo anche che da Sarajevo doveva arri-vare a Zepa una delegazione internazionale guidata da Ruperth Smith, ma fu fermato al check point serbo e non arrivò mai.
In quei giorni mio marito sentì alla radio che i serbi avevano dato l'ordine di bombardare la nostra casa.
Riuscì ad avvertirmi. La prima granata cadde in giardino mentre le successive distrussero comple-tamente la casa. Io e le mie bambine ci salvammo miracolosamente.
Si decise allora che le donne con i bambini doveva-no uscire da Zepa e rifugiarsi in alcuni villaggi for-se più sicuri sparsi sulle montagne, sempre all'interno della zona controllata dai bosniaci. An-che io scappai insieme ad altre persone. Temevamo comunque di andare incontro alla morte, la stessa che ci aspettava se restavamo a Zepa. Fu allora che Avdo decise di andare direttamente lui alle trattative per garantire l'evacuazione di Zepa. Non c'era più nessun'altra soluzione. Tutti avevano fiducia in Avdo e così decidemmo di ritornare giù in paese.
La stessa notte, il 23 luglio, il rappresentante civile alle trattative, Hamdija Torlak, aveva avuto un nuovo collegamento radio con Sarajevo ma quando era uscito dalla sala radio aveva l'aspetto di un morto; il messaggio che aveva ricevuto era questo: "Non ci sono aiuti. Aiutatevi da soli, come potete".
Risalimmo di nuovo verso quel villaggio in alto sulla montagna. Ricordo che ci trovavamo lì, la notte era quasi finita e stava spuntando l'alba, e per la prima volta vedemmo arrivare dalla direzione di Rogatica una colonna di autobus e macchine della Croce Rossa. Ricevetti un messaggio da mio marito che ci invitava a scendere nuovamente a Zepa perché sarebbe iniziata l'evacuazione. Era il 25 luglio. Io iniziai a camminare verso il paese e la gente iniziò a seguirmi perché anche io oramai ero un punto di riferimento per loro.
Fu allora che Avdo iniziò partecipare alle trattative. Nel pomeriggio, quando arrivammo in paese lo in-contrammo che stava rientrando dall'incontro con gli ufficiali serbi. Era allegro ma era chiaro che si trattava solo di una facciata. In realtà era preoccu-pato, molto preoccupato. Me ne accorsi subito. Ca-pivo bene che lui provava angoscia e preoccupazio-ne. Non gli chiedevo nulla ma lo capivo benissimo. Non è una cosa che ho capito dopo, l'ho capito su-bito, in quel momento. Lui continuava dire "non preoccupatevi", e intanto stava organizzando i primi convogli di persone che dovevano lasciare Zepa. Io volevo restare con lui, in passato ne avevamo parlato, e così gli proposi di far uscire le bambine da sole, insieme a mia madre, ma Avdo ora aveva cambiato idea. Voleva che andassi con mia madre e con le bambine, mi diceva: "Non preoccuparti, cosa vuoi che mi succeda, ci sono i caschi blu a difen-derci." Insisteva che dovevo andarmene tranquilla e che ci saremmo rivisti.
Ovviamente nessuno credeva che l'ONU fosse una sicurezza per noi, anche se in fondo ci abbiamo spe-rato, o perlomeno cercavamo di ingannare noi stes-si. Quale garanzia avevamo realmente che il convo-glio sarebbe passato senza che ci accadesse nulla? "Vai a controllare di persona se non ci credi -dissero i serbi a mio marito-, vedi che c'è anche la Croce Rossa Internazionale". Solo dopo ci siamo accorti che si trattava di un inganno, perché in realtà era la Croce Rossa dei serbi, e anche gli autobus erano dei serbi e non ONU...
Attorno agli autobus c'erano molti militari armati ma scoprimmo che anche loro, o molti di loro, era-no serbi e non ucraini. Avevano le stesse divise. Sapevamo che a Srebrenica proprio indossando le divise abbandonate dalle forze multinazionali i mi-litari serbi erano entrati con l'inganno in paese. E o-ra tutto il convoglio era organizzato dai serbi, erano loro che facevano salire le persone e assegnavano il posto.
Io sono stata fatta salire su un autobus che era se-gnato, era il secondo della colonna ed era l'unico a non avere tendine ai finestrini. Ci rivolgevano pa-role tremende mentre eravamo lì, ci insultavano e trattavano come bestie. Quali garanzie c'erano? Dissero a mio marito che se voleva poteva venire di persona a controllare che tutto andava bene. Così quando la colonna si mise in movimento, davanti c'era la macchina con mio marito e il suo autista.
Quando arrivammo al check point serbo ci ferma-rono e ci fu una nuova trattativa. Lì era ricomparso anche il comandante ucraino Dudnik, lo vedemmo che parlava amichevolmente con i militari serbi. Poi siamo ripartiti in direzione di Rogatica. I serbi continuavano a seguire il convoglio. Dopo alcune ore gli autobus sono stati fermati davanti ad una ex-stalla per cavalli, un grosso capannone di legno. Ho avuto di nuovo paura che ci avrebbero ucciso, ma-gari non me o gli altri, ma forse Avdo, che era il comandante di Zepa. Ho guardato le bambine che dormivano sulle gambe dei nonni, ho pensato ad A-vdo che era lì fuori, davanti a noi, per garantire che i civili non fossero uccisi. Siamo restati lì, con que-sti timori, senza sapere cosa stava accadendo, circa un'ora, poi siamo ripartiti di nuovo. Sembrava che la colonna avanzasse senza nessuna meta, giravamo intorno qua e là, più la notte avanzava più la paura aumentava. Soltanto dopo un'ora siamo arrivati a Rogatica, saranno state le una dopo mezzanotte. Era buio, un silenzio irreale ha accolto il nostro passag-gio. Le finestre delle case erano aperte e la gente era affacciata per guardarci.
Io ho vissuto 4 anni a Rogatica, prima molti erano miei amici e ora si trovavano dall'altra parte. Ho pensato: "Chissà cosa provano a vederci così, ma almeno ci guardano". So però cosa provavo io in quel momento, dentro di me dicevo: "No, non mi cambierei con loro, per nulla al mondo, anche se mi trovo qui in pericolo, tutta malandata e sporca per il viaggio, io sento che la mia coscienza è pulita".
Un po' più avanti lungo la strada l'autobus si è fer-mato ed è salito Avdo, si è avvicinato al mio sedile, ha baciato le bambine e mi ha chiesto di seguirlo vicino alla porta. Ci siamo seduti in un angolo un po' appartato e abbiamo parlato. Io ho espresso tutte le mie preoccupazioni, dissi che non credevo più e non potevo avere fiducia nelle promesse dei serbi. Lui ha iniziato a parlare del nostro futuro, di cosa avremmo fatto a Sarajevo dopo la guerra e come avremo organizzato la nostra vita. Ricordo anche di avergli detto, non so perché, che nella fretta della partenza da Zepa avevo dimenticato di prendere la videocassetta del nostro matrimonio. Lui continuava ad incoraggiarmi, a dirmi: "tra 10 giorni ci rivedremo e saremo di nuovo insieme." Poi l'autobus si è fermato di nuovo. Eravamo in un punto lungo la strada tra Kladanj e Vlasenica. Avdo mi ha detto: "preparati, manca poco per uscire". Io ho preso le mie cose, lui è sceso con la bambina in braccio, mia madre con l'altra bambina, siamo scesi, poi Avdo ha detto: "presto, veloci, andate là, da quella parte, in mezzo alla strada". Lui era dietro di me, abbiamo attraversato la strada, poi ci siamo abbracciati per l'ultima volta. Ricordo che mi ha detto "Curati". E' stata l'ultima volta che l'ho visto. Poi è tornato verso gli autobus per aiutare le donne e gli anziani che dovevano scendere. Non è venuto con noi perché doveva tornare a Zepa per continuare a coordinare l'evacuazione. Noi ci siamo messi a correre. Io ero come in trance, c'è un vuoto nei miei ricordi, tutto sembrava svolgersi meccanicamente. Non ricordo quanto tempo è passato e quanta di-stanza abbiamo percorso. Attorno a noi c'erano molti militari serbi e non sapevamo cosa poteva ac-cadere. Ad un tratto mi sono seduta su una pietra, ricordo solo che è arrivata mia cugina che mi ha detto: "cosa fai, non puoi fermarti, non siamo an-cora arrivati". Non sapevo neanche dove erano le mia bambine in quel momento e dove fosse mia madre, pensavo solo che Avdo era rimasto là, con i serbi, da solo, e molto lontano da Zepa. Pensavo solo che l'unica salvezza per lui era quella di riusci-re a tornare a Zepa, e che invece lungo la strada del ritorno, in una zona tutta controllata da serbi, pote-va accadere di tutto. Alla fine arrivammo in un campo organizzato dalla Croce Rossa, c'era molta gente che ci aspettava e ci guardava venire avanti. C'erano anche dei giornalisti che volevano intervi-starci ma noi non riuscivamo nemmeno a parlare dalla paura.
Capimmo che eravamo salvi.
Dentro una tenda ritrovai mia madre con le bambi-ne. La più piccola, Nejra, piangeva. Mi ricordai solo allora che aveva bisogno di essere cambiata ma non avevo nulla per farlo perché avevo dimenticato la borsa sull'autobus. In quel campo ci hanno dato da mangiare, poi dopo pranzo siamo ripartiti con un altro autobus per Zenica. Il viaggio è stato molto lungo, attraverso le colline e le montagne, un itine-rario tortuoso lungo strade secondarie per evitare le zone di guerra e i bombardamenti. A Zenica è arri-vato un uomo che ci cercava. Lo aveva mandato mio fratello per dirmi che dovevo andare a Visoko, dove era riuscito a trovarci un appartamento. Quan-do siamo arrivati a Visoko ho saputo che Avdo era arrivato sano e salvo a Zepa e che stava continuando le trattative per far uscire altra gente. Non si sapeva quante persone ci fossero ancora. Io seguivo con attenzione tutte le notizie che arrivavano. Il 28 sera il telegiornale bosniaco diede la notizia che tutte le persone che partecipavano alle trattative erano state arrestate. Io ho combattuto dentro di me con questa notizia. Non sapevo se era vera e se in quel gruppo ci fosse anche Avdo. Mi dicevo: "forse hanno arrestato Torlak o gli altri, e Avdo è riuscito a scappare attraverso i boschi". Speravo. Durante la notte è arrivato mio fratello con alcuni amici di A-vdo, anche loro avevano le stesse notizie e così ho iniziato a pensare al peggio. Mio fratello però era convinto di no, diceva che non poteva essere vero, perché le trattative avvenivano in una base delle forze multinazionali e in una zona che era stata di-chiarata protetta. Ho cercato in tutti i modi di met-termi in contatto con la base dei caschi blu di Zepa, senza riuscire a parlare con Avdo. Gli ucraini mi dissero che mio marito si era sentito male, che ave-va avuto un attacco di ulcera ma nessuno sapeva darmi una informazione precisa. Era tutto confuso. Non riuscivo a capire quanto Avdo fosse veramente ammalato in quel momento.
La mattina dopo è arrivata da Sarajevo la sorella di Avdo, era molto imbarazzata: "Non so come dirte-lo" ripeteva, non sapeva come parlarmi, poi mi dis-se che Avdo era stato ucciso. Mi sembrava terribile. Altri amici invece continuavano a dire che non era vero ed era soltanto prigioniero, che lo avevano preso perché volevano proporre uno scambio. Era un momento molto difficile per me. Anche le mie bambine, dopo tutto quel viaggio, e con le mie pre-occupazioni, erano state un po' trascurate e si erano ammalate. Passai quasi un mese in questa situazio-ne, quando finalmente ebbi nuove notizie, vere, dal suo autista, Mujo Bicic. Lui mi raccontò cosa era accaduto veramente quel giorno.
Avdo dopo averci accompagnato alla frontiera libera era tornato sano e salvo a Zepa e aveva continuato a organizzare la partenza dei convogli. Il 27 notte doveva partire il penultimo convoglio e il giorno dopo era prevista la partenza dell'ultimo. Non volevano far sapere ai serbi quando terminava l'evacuazione, perché secondo gli accordi allora a-vrebbero dovuto arrendersi. Invece il loro piano era di darsi alla macchia dopo l'ultimo convoglio, per cercare di scappare attraverso i boschi e scavalcare in qualche modo le linee nemiche dell'assedio. I serbi però furono informati e bloccarono quel convoglio al check point.
Chiamarono Avdo e gli dissero che se non si pre-sentava lui di persona avrebbero ammazzato tutti i civili, 806 persone.
In quel momento era presente a Zepa come media-tore il rappresentante internazionale dell'Osce E-dward Joseph, alla sua prima esperienza di quel ti-po. C'era con lui un altro ufficiale ucraino di cui non ricordo il nome. Sarebbe dovuto arrivare da Sa-rajevo anche Rupert Smith, che però non arrivò mai. Disse poi che era stato bloccato in un check point serbo.
La situazione era molto difficile. In quelle stesse o-re il contingente ucraino decise di andare via, disse-ro che il loro tempo di permanenza era scaduto e non potevano restare, anche se l'evacuazione non era conclusa. Evidentemente i loro superiori gli a-vevano detto di abbandonare le persone ancora pre-senti a Zepa al proprio destino. Allora la gente, quando seppe della loro partenza, fu presa dal pani-co e cercò di trattenerli in tutti i modi. Li circonda-rono, si sdraiarono a terra davanti ai loro automezzi per non farli passare. Alla fine i militari ucraini de-cisero di caricare tutti sui loro camion. Non c'erano più autobus e lì ammassarono così, come delle be-stie.
Al check point anche loro furono bloccati dai serbi. L'ordine di bloccare tutti i convogli veniva dal ge-nerale Ratko Mladic in persona, che aveva guidato direttamente tutte le trattative per l'evacuazione di Zepa. Avdo e Mladic si conoscevano personalmente da prima della guerra, perché avevano frequentato la stessa accademia militare. Mladic conosceva bene Avdo e ne apprezzava il valore militare, e avrebbe voluto averlo con sé all'inizio della guerra. Nel 1991 Avdo era stato richiamato dalla JNA, l'esercito popolare jugoslavo, per andare a com-battere a Vukovar in Croazia, ma si era rifiutato. Mladic invece aveva partecipato alla quella campa-gna militare e al ritorno, dopo l'inizio della guerra in Bosnia, era stato nominato capo di stato maggio-re delle forze militari della Republika Sprska.
Dal check point serbo chiamarono Avdo e gli disse-ro che doveva presentarsi lui personalmente, e anche subito, alle trattative, altrimenti avrebbero ucciso tutti i civili fermati: "Arrendetevi o li uccideremo tutti." Avdo e gli altri non potevano far niente, così è partito da solo con il suo autista. Le trattative però avvennero al comando delle Nazioni Unite; Avdo sapeva che se si presentava al check point serbo a trattare l'uscita dei civili, subito dopo sa-rebbe stato ucciso. Invece al comando delle Nazioni Unite poteva avere qualche speranza in più di vita, per lui e per i suoi soldati che erano sparsi in mezzo ai boschi. Io non ho informazioni molto più precise. La base delle Nazioni Unite era vicino a Zepa, ma lungo la strada accade un imprevisto, scoppiò una gomma all'auto, così Avdo scese e proseguì a piedi mentre il suo autista Mujo Bicic tornò indietro per prendere una nuova gomma e riparare l'auto. Ogni minuto era importante per salvare i civili.
Il resto mi è stato raccontato in seguito da Edward Joseph, l'unico ufficiale delle forze multinazionali che in seguito mi abbia cercato per parlare con me e cercare lui stesso di scoprire la verità. Edward si trovava alla base e mi disse che Avdo entrò da solo. Erano in una stanza e le trattative non andavano per niente bene, anche se Avdo restava calmo. Poi ad un certo punto ci fu una pausa e Avdo uscì fuori dalla stanza, per rilassarsi. In quel momento i sol-dati ucraini al posto di guardia lasciano entrare nella base, una base delle forze multinazionali, una jeep con a bordo alcuni militari serbi armati. Si sono fermati, sono scesi e sono andati incontro ad Avdo, rivolgendosi a lui in modo sgarbato e arrogante. Gli hanno preso la pistola, dicendogli: "ti dobbiamo disarmare, bisogna farlo, ma se tu non vuoi, beh, diccelo che noi non te la togliamo". Era una scena ridicola e anche allora Avdo restava calmo e rispondeva loro con modo educato, per non cadere nella trappola della provocazione. Questo forse li faceva arrabbiare anche di più. Poi lo hanno fatto salire sulla jeep e lo hanno portato via, sotto lo sguardo di tutti. I soldati ucraini hanno aperto il cancello e la jeep è sparita. Edward e un ufficiale hanno preso un'altra jeep e hanno cercato di seguirli lungo la strada, ma li hanno persi. Così sono tornati indietro.
Intanto l'autista, Mujo, aveva riparato la gomma e senza sapere ancora nulla di quanto era accaduto era arrivato alla base delle Nazioni Unite, oramai praticamente in mano ai serbi. Appena è arrivato 5 o 6 serbi armati lo hanno preso e portato via in un frutteto lì vicino, dove lo hanno legato ad un albero.
Sono restati un po' con lui due soldati serbi. Uno di loro gli ha detto, quasi sorridendo: "il tuo coman-dante è stato ucciso". L'altro l'aveva guardato sor-preso, come per chiedere cosa stava dicendo, poi si erano dati come un colpo di gomito, sorridendo. Sembrava soltanto una provocazione. Poi lo hanno picchiato allo stomaco, lo hanno fatto vomitare, e più tardi se ne sono andati via, lasciandolo legato all'albero per tutta la notte. Dopo circa un ora che si trovava lì ha visto arrivare dal cielo un elicottero. Nello stesso momento era partita verso l'elicottero una macchina. Lui pensa che quello era l'elicottero personale del generale Mladic, che Mladic era lì presente e che sull'elicottero avessero fatto salire Avdo. Lo ha dedotto da quello che accadeva e dalle parole che dicevano i serbi; non ha visto diretta-mente ma ne è proprio sicuro, perché non c'era al-cun senso che un elicottero scendesse proprio in quel momento e in quella direzione, e poi andasse subito via. E' chiaro che era venuto per prendere qualcuno.
Il giorno dopo lo hanno slegato e gli hanno detto che ora, dato che il suo comandante non c'era più, doveva andare lui a trattare con i suoi compagni per convincerli ad arrendersi. Lui rispose che non pote-va garantire per tutti ma solo per il suo gruppo, composto da circa 50 persone. Loro dissero che si accontentavano anche di 50, perché fino a quel momento non si era arreso nessuno e non avevano catturato nessuno, tranne 52 soldati feriti che erano stati fatti salire sugli autobus.
Lo hanno accompagnato per un po' in direzione della collina dove erano nascosti i suoi. Negli ultimi metri lo ha accompagnato soltanto un serbo che quando lo ha slegato gli ha detto: "non tornare più, perché se torni indietro ti ammazzo io". Lui allora è scappato, ha raggiunto i suoi e ha raccontato che Avdo Palic, il loro comandate, era stato arrestato e portato via. Subito si è diffuso il panico, avevano paura che potesse accadere come a Srebrenica. Tutti sono scappati via. Molti hanno attraversato il lago e si sono diretti verso il confine con la Serbia, altri sono scappati attraverso i boschi, e tra questi Mujo, anche se era più pericoloso perché il cammino verso la zona libera era più lungo. Non si sa con certezza quanti riuscirono a salvarsi.
Intanto alla base Edward cercava di capire cosa era successo. Aveva chiesto via radio delle spiegazioni al generale Mladic, il quale aveva risposto così: "Avdo Palic è stato ucciso mentre tentava di scap-pare". Il generale Tolimir, che aveva partecipato personalmente alle trattative, tuttavia non confermò la dichiarazione di Mladic. Edward Joseph era alla sua prima missione e anche se non in modo diretto però si sentiva un po' responsabile di quanto era accaduto. Da questo momento le notizie sulla sorte di Avdo iniziano a diventare contraddittorie.
Due mesi dopo un altro ufficiale ucraino, di cui non ricordo il nome, mi disse di avere visto Avdo in un carcere a Rogatica, pochi giorni dopo la caduta di Zepa.
Alla fine del 1995 arrivano gli accordi di pace di Dayton, che tra le altre cose prevedono anche la re-stituzione dei prigionieri, sulla base delle liste in possesso della Croce Rossa. Io allora sono andata personalmente alla Croce Rossa, che raccoglieva i nomi di tutte le persone disperse. Dicevo: "Mio ma-rito è stato arrestato dai serbi all'interno di una base delle nazioni unite, è un fatto molto grave, bisogna scoprire cosa è accaduto e dove lo hanno portato". Ma Avdo non viene scarcerato.
Nel mese di gennaio del 1996 vengono liberati due soldati bosniaci sopravvissuti alle stragi di Srebre-nica, sono Sado Ramic e Abdurahman "Kiko" Mal-kic. Entrambi dicono di aver visto Avdo nel mese di agosto, nella prigione di Vanekov Mlin (il mulino di Vanekov), a Bjieljna. Il loro racconto è preciso.
Hanno sentito bene quando lo hanno portato, men-tre era ancora in corridoio. Mi dissero di aver a-scoltato quando lo hanno registrato e gli chiedevano il nome. Lui diceva: "Avdo Palic", e loro: "Balic?", e lui rispondeva,: No, Palic, P... P...". Glielo hanno fatto ripete due o tre volte. Uno di loro due poi in un altro momento ha avuto l'occasione di passargli vicino in corridoio e ha potuto vedere bene il suo orologio. Me lo ha descritto ed era uguale all'orologio di Avdo. Mi hanno anche raccontato che Avdo chiedeva alla guardia quanto tempo lo avrebbero trattenuto lì ma quello rispondeva di non saperlo. I primi giorni non voleva mangiare, qualche volta lo hanno anche sentito piangere. Avdo in agosto era ancora vivo; questa testimonianza concorda anche con l'altra dell'ufficiale ucraino di cui non ricordo il nome, e smentisce la prima dichiarazione di Mladic, che lo avevano ucciso mentre tentava di scappare.
Io allora ho detto: "basta con la burocrazia, ora so dove si trova mio marito e dovete andare a pren-derlo". Però quando la Croce Rosa è andata, dal momento che non può presentarsi all'improvviso ma prima deve avvisare che sta arrivando, loro - se in quel momento ancora lo tenevano lì - lo avevano già portato da un'altra parte. Così la Croce Rossa non trovò nulla al Vanekov Mlin.
Sei mesi più tardi una mia amica tedesca mi dice: "Ma perché non dichiari che tuo marito è prigionie-ro?" "Sì, io l'ho fatto". "Non è vero, il suo nome non risulta nell'elenco delle persone scomparse". Ho scoperto così che il nome di Avdo non risultava negli elenchi dei prigionieri che dovevano essere rilasciati in base agli accordi di Dayton. Incredibile. Ho chiesto delle spiegazioni, mi hanno risposto che evidentemente il computer non aveva registrato be-ne il nome. Sono stata costretta a fare di nuovo la denuncia. Mi sono molto arrabbiata.
A marzo del 1996 sono tornata a Sarajevo. Io ho a-vuto sempre una grande speranza di ritrovare Avdo e pensavo che dovevo fare di più, che gli amici a-vrebbero dovuto aiutarmi, perché io ero da sola e non sapevo dove andare e cosa fare. Ho cercato do-vunque, presso organizzazioni civili e militari e ho condotto da sola la mia battaglia. Ho scritto lettere a tanti, anche al Papa quando nella primavera del 1997 è venuto a Sarajevo. Ho parlato con molti, di-rettamente o indirettamente, ma tutti mi hanno ri-sposto che non potevano fare nulla per aiutarmi. Passava il tempo e non c'era nulla, ma io non pote-vo accettare. Alla Croce Rossa mi dicevano che il mio caso non era il solo, forse era più particolare, più importante, ma ce n'erano tanti altri. Io però sentivo che il mio dolore era soltanto il mio. E' ve-ro, secondo i dati della Croce Rossa sono 18 mila le domande di persone che cercano i propri familiari scomparsi, e considerando che in molti casi sono scomparse famiglie intere, che nessuno cerca più, il totale degli scomparsi in Bosnia dovrebbe essere ancora di circa 30 mila persone. E' vero, c'erano tanti altri scomparsi ma io intanto mi sentivo sola e il tempo passava. Piano piano ho cercato comunque di ridarmi una vita un po' più normale, ricercare comunque un mio equilibrio emotivo, pensare alle bambine, lavorare, dedicarmi di nuovo agli studi.
Continuavo però anche a cercare e provare nuove strade. Ho tentato così anche presso alcuni serbi che conoscevo e che hanno avuto la pazienza di ascol-tarmi. Anche loro hanno situazioni simili, di dolore.
Sapevo che facendo così correvo anche dei rischi personali, perché allora era ancora molto rischioso incontrarsi così, con dei serbi, alla frontiera. Però c'è stata una persona, di cui non posso dire il nome, che ha cercato di aiutarmi. Aveva un parente importante nel parlamento serbo-bosniaco e mi aveva promesso di fare il possibile per ottenere informazioni. Io gli avevo raccontato tutto ciò che sapevo, del carcere di Bjieljna e delle altre testimonianze, e lui mi ha chiesto solo 10 giorni di tempo. Era l'inizio del 1997. Quando ci siamo incontrati di nuovo, dopo 10 giorni, non aveva il coraggio di guardarmi in faccia, era molto strano e preoccupato. Mi disse: "Mi dispiace, non ho niente da dirti; quando ho chiesto notizie su Avdo mi hanno detto, sai di chi parli? Per una sola parola si può anche rischiare di perdere la testa?". Sembrava molto confuso e impaurito, ma almeno ci aveva provato a fare qualcosa. Io ho capito da quel discorso che Avdo era ancora vivo, perché se fosse stato già morto non avrebbe avuto senso tutto quel timore a dire qualcosa, non sarebbe stato rischioso parlarne. Invece la sua storia era ancora un tabù.
Con questa nuova certezza tornai alla Croce Rossa, dove oramai mi conoscevano e mi ascoltavano. Tentammo di nuovo di avere una spiegazione scritta dal Generale Mladic [ndr: in quel periodo Mladic era già ricercato dal tribunale internazionale per crimini di guerra], dato che era stato lui a dare l'ordine di arrestare Avdo. La risposta scritta di Mladic fu evasiva, non confermò la versione di due anni prima, quella secondo cui Avdo era stato ucci-so mentre tentava di scappare. Disse invece di non averlo visto e di non sapere nulla, e che la questio-ne non era nemmeno sotto la sua competenza. Una risposta evasiva ma anche contraddittoria rispetto alle versioni precedenti.
Io ho capito anche che la Croce Rossa non aveva in realtà molto potere e non era in grado di fare molto per aiutarmi; spesso dovevano preoccuparsi di di-fendere se stessi e non riuscivano a difendere gli altri.
Un periodo mi risultava molto pesante quando di-cevano: "non sei la sola", perché io nella mia soffe-renza ero sola, mi sentivo sola. Una volta, mi ricor-do, ero lì alla Croce Rossa con una ragazza e lei mi diede un libro aggiornato con tutti i nomi delle per-sone scomparse. Bastava sfogliarlo per capire che non ero sola, ho scoperto che eravamo in tanti, in-sieme agli altri c'era anche il nome di Avdo in quell'elenco. Ho pensato che forse ci potevamo or-ganizzare insieme e aiutarci, per essere un po' più forti e ottenere qualcosa di più.
Alla fine del marzo 1997 il giornalista Piero del Giudice mi ha proposto di fare un film-documentario, per raccontare e far conoscere tutta questa storia.
Io fino a quel momento ero divisa tra due senti-menti opposti. Da un lato mi dicevano: "Stai atten-ta, che con le tue iniziative potresti anche recare danno ad Avdo." Dall'altro però avevo anche biso-gno di continuare a cercare, e poi erano già trascorsi due anni e mi sembravano troppi. Cosa c'era ancora da aspettare? Ho pensato così che forse ero stata troppo attenta e che invece avrei dovuto diventare più aggressiva e decisa, nel cercare, e che forse avrei dovuto esserlo stata fin dall'inizio. Anche perché ora, a due anni dalla fine della guerra, mi capitava di incontrare nelle varie organizzazioni o nelle istituzioni di governo delle persone nuove, che mi rispondevano: "Io non so, allora non c'ero." Invece all'inizio c'erano ancora le stesse persone e forse sarebbe stato più facile ottenere da loro qualche in-formazione in più.
Allora, dall'inizio del 1997, iniziai a muovermi di più, a scrivere o a far scrivere articoli sui giornali di Sarajevo, della Bosnia e di altri paesi del mondo. Si doveva sapere. Era uno scandalo che l'ONU non aveva svolto il suo compito. Ho pensato che tutta quella segretezza che ancora si cercava di mantenere era voluta apposta, per far dimenticare. Forse non potevano realmente fare nulla ma a me sembra che non abbiano nemmeno mai cercato di fare qualcosa di loro iniziativa. Si sono mossi per cercare qualche notizia su Avdo solo dietro alle mie insistenze.
A Sarajevo sono sorte tante piccole associazioni e gruppi di familiari che cercano le persone scompar-se.
Sono tante ma non sono potenti. E' importante non pensare solo al proprio dolore. Quando ci sentiamo e parliamo insieme il dolore sembra un po' più leg-gero. Però non si riesce a fare molto insieme. L'estate scorsa, nel 1998, c'è stata una riunione di tutte queste associazioni a Sarajevo, non solo di musulmani ma anche di croati e di serbi, ma non si è riusciti a realizzare insieme qualcosa di significa-tivo. C'è già molta divisione anche all'interno di noi musulmani, e ancora più difficile è nei rapporti con gli altri.
Ognuno di noi nella realtà si organizza da solo per cercare i suoi familiari, non c'è e non si riesce a fare una lotta comune per conoscere la verità. La spe-ranza però è ancora grande per molti, perché nono-stante tutto e il troppo tempo trascorso continuano ad esserci segnali. Ad esempio solo pochi mesi fa, nell'estate del 1998, sono stati liberati ancora alcuni prigionieri. Prima era stato liberato un musulmano, e poi, qualche tempo dopo un croato che si chiama-va Dusko Herceg, un militare che avevano tenuto prigioniero a Cabela, nella repubblica Sprska. Quando è stato liberato ha affermato che nella stessa prigione c'erano ancora altre 48 persone tenute nascoste, ma tutti hanno detto subito che non pote-va essere vero e che lui era un pazzo.
Il prossimo luglio saranno quattro anni. Ora la mia vita si è un po' normalizzata, ma solo in parte. Mi sento dimezzata come un'invalida, sempre con quel pensiero. Mi sembra di vivere solo metà della mia vita.
Ogni mattina penso a Lui: gli ultimi momenti in-sieme, i gesti, le cose, anche quando mangio o qual-siasi cosa faccio mi viene da pensare a cosa sta mangiando o cosa sta facendo lui in quell'istante, dove si trova, se è vivo o non è vivo. Ma se non è vivo, dov'è il suo cadavere, come lo hanno ucciso, chi sono i suoi assassini? Per mesi ho cucinato le cose che a lui piacevano ma mi rendevo conto che andare avanti in quel modo era impossibile, sia per me che per le mie figlie. Ci sono stati periodi in cui piangevo e urlavo, battevo la testa quando vedevo una sua foto. Ora non posso dire di voler calmare la mia sofferenza, che resta grande, però diventa sempre un poco più normale, devo guardare avanti e continuare anche la mia battaglia. Devo vivere perché ci sono le bambine. Loro parlano del padre come se fosse sempre vivo. Mi sembra quasi una telepatia, come se lo sentissero, o forse è solo una mia suggestione. Mi chiedono dove è il padre e perché non torna mai a casa, pensano che sia a Zepa, oppure al mare o in montagna. La più grande un paio di volte mi ha chiesto se è stato preso dai "cetnici". Io non so cosa dire loro, perché nemmeno io conosco la verità. Non ho nessuna verità da dire. Se l'avessi avuta l'avrei detta.
Non ci sono spiegazioni. Quando ricevono regali lasciano sempre qualcosa per il loro padre, per quando tornerà. Sanno benissimo che bisogna avere un padre, vedendo anche i loro amici, ma loro una spiegazione non riescono a darsela, perché gli è ne-gato un padre. Pian piano cominciano a ricostruire il poco che sanno, che sappiamo.
Per ora hanno un padre che è solo sulla foto, ma nelle loro storie, quando giocano o ne parlano, A-vdo sembra essere proprio vivo.

Tratto dal libro: "Izbjeglice - Storie di gente della ex-Jugoslavia" di Giacomo Scattolini e Tullio Bu-gari. Con un intervento di Predrag Matvejevic. E-dizioni peQuod.
Per informazioni: 03687197506 (Giacomo Scatto-lini) oppure dako@mercurio.it