EDITORIALE

La produzione a mezzo di linguaggio.
Il lavoro linguistico dello scienziato

Osservando alcuni emblematici fenomeni sociali, pare ormai evidente che il rapporto tra individuo, produzione sociale e sapere è notevolmente mutato. Si prendano, ad esempio, le società di lavoro interinale: la forza-lavoro meno specializzata viene ora reclutata nello stesso modo degli artisti, la forza-lavoro apparentemente più legata all’estro individuale, che si affidano ad agenti ed impresari. Si badi: limitarsi a criticare le agenzie di lavoro temporaneo come una riedizione del caporalato significa non cogliere l’aspetto più scottante del lavoro postfordista. Il fatto che massaie e lavoratori occasionali si accostino al mondo del lavoro nello stesso modo di De Niro e Madonna è forse il segno di una mutazione di portata più ampia. La posizione sociale raggiunta mediante l’attività lavorativa dipende meno dalle competenze acquisite nel periodo della formazione che dalle proprie capacità comunicative, emotive, creative.

Ciò avviene a tutti i livelli di qualificazione dell’attività lavorativa: fino all’operaio della fabbrica, ove l’integrazione tra il lavoro vivo e la tecnologia informatica ha silenziosamente stravolto l’organizzazione della produzione. Il modello sociale sopravvissuto alla fine del fordismo sfrutta un fattore di produzione di valore che nel rapporto salariale è necessariamente trascurato: il linguaggio (i linguaggi, anzi: il ritmo sincopato dello just in Time prevede una coordinazione, tra gli operai della fabbrica “diffusa” postfordista, tale da coivolgere la pluralità dei linguaggi produttivi e riproduttivi, sistematici ed informali).

Su questa transizione si è riflettuto e scritto da tempo, talvolta con notevole anticipo sugli avvenimenti. Secondo il punto di vista, sono stati coniati termini come “produzione a mezzo di linguaggio”, “attention economy”, “lavoro immateriale”, oltre al marxiano “general intellect”, “intellettualità di massa”. Dunque, rimandiamo l’approfondimento all’abbondante materiale a disposizione1. Ci limiteremo a citare gli elementi analitici utili per delineare la figura di un particolare produttore di linguaggio: il ricercatore scientifico.

L’abilità nell’apprendimento e nell’innovazione di un linguaggio e la rapidità nella manipolazione dell’informazione costituiscono una risorsa spendibile nell’intero ciclo della produzione postfordista, non una peculiarità dei “nuovi lavori”: la diffusione della tecnologia informatica e delle telecomunicazioni (il ruolo della comunità scientifica è stato decisivo, a tal scopo) ha potenziato le funzioni di coordinazione e la cooperazione sociale nel lavoro salariato come nei bacini del lavoro autonomo. Da un lato, ciò ha permesso di raggiungere la flessibilità produttiva richiesta dal mercato globale; dall’altro, l’arricchimento del lavoro, conseguente al coinvolgimento in esso delle facoltà psichiche connesse alla creatività e all’emotività, ha sradicato i conflitti sociali nati sulla questione dell’alienazione.

Tali capacità linguistiche non si acquisiscono negli istituti di formazione, ma nell’esercizio quotidiano, nella libertà del tempo della vita. Alla loro produzione partecipano tutti, occupati e non. Nella fabbrica diffusa, nel distretto produttivo che si viene a creare, in cui i flussi non sono più guidati dalla linea di montaggio ma dalle reti della produzione sociale, la gerarchia non può dunque conservarsi immutata.

Dal punto di vista della distribuzione dei saperi, l’imprenditore muta di ruolo in questo passaggio: da “schumpeteriano” a biopolitico. Cioè, cessa di detenere il monopolio della produzione di conoscenza scientifico-tecnologica (il linguaggio della biomeccanica, della medicina e dell’ingegneria che si esplicitava nei processi di automazione taylorista) nei confronti dei produttori, ma si fa coordinatore dei flussi comunicativi che generano plusvalore. Una parte, almeno, dell’organizzazione della produzione viene affidata alla gestione degli “operai sociali”, lavoratori autonomi indipendentemente dalla loro posizione contrattuale.

La forte separazione tra i detentori del linguaggio e gli operai-massa è dunque scomparsa: che ne sarà degli scienziati, di coloro che producono e rinnovano il sapere scientifico e tecnologico?


L’organizzazione della ricerca scientifica

La ricerca scientifica del dopoguerra riproduceva la struttura della grande industria fordista: il ruolo dello Stato era preponderante (soprattutto in Italia, dopo il disastro della guerra) e pianificatore, simile, nello svolgimento, all’economia guidata secondo la dottrina keynesiana. La ricerca di base ebbe così uno sviluppo notevolissimo. Favoriti dalla Guerra Fredda, settori come la fisica nucleare (che, significativamente, divenne ben presto “fisica delle particelle elementari” e “dei campi”) e l’astrofisica ebbero a disposizione mezzi praticamente illimitati. Era l’epoca in cui si magnificava la Big Science e ci si entusiasmava per le imprese delle astronavi americane e sovietiche.

Gran parte della ricerca era allora concentrata in laboratori-cattedrali, come gli acceleratori di particelle e le basi aerospaziali. I principali programmi di ricerca erano inaccessibili ai capitali privati, per l’importanza degli investimenti iniziali rispetto alla distanza dalle ricadute economiche delle innovazioni. L’organizzazione del Cern di Ginevra o dei laboratori di Frascati, per citare alcuni tra i più importanti luoghi di produzione scientifica in Europa, era simile a quella della fabbrica. Qui, la contestazione del ’68 sorse proprio sull’alienazione del ricercatore rispetto alle sue scoperte2.

Il dirigismo imperante nell’impresa scientifica dei Paesi-satellite delle super-potenze rifletteva un’effettiva carenza di innovazione di marca imprenditoriale. Ma anche negli Usa, la ricerca condotta dalle grandi imprese è avvenuta in un contesto speciale di commistione tra stato sociale e libero mercato. Gli istituti formativi, come le università, erano di fatto in mano privata e meno soggetti alla necessità tipicamente europea di alzare il livello culturale medio e di creazione ex-novo di una classe dirigente. Perciò, il vantaggio tecnologico e scientifico degli Usa si accumulò nei distretti in cui massimo era il coordinamento tra le grandi industrie elettroniche e farmaceutiche e gli apparati accademici, amministrativi e militari.

La fine del fordismo ha coinciso, non a caso, con il compimento di una missione storica da parte della ricerca scientifica dello Stato e delle grandi imprese. Quando il processo continuo e centralizzato di innovazione tecnologica ha raggiunto un livello critico di socializzazione, soprattutto nei settori delle telecomunicazioni e nei trasporti, anche la ricerca ha potuto usufruire di un bacino d’utenza diffuso in cui instaurare un rapporto tra produzione e consumo di tipo postfordista, basato sulla capacità di seguire le rapide oscillazioni della domanda del mercato e di stimolarla con meccanismi di tipo biopolitico. La domanda di informatica e telematica da parte della piccola impresa del privato cittadino è infatti cresciuta enormemente.

Gli istituti di ricerca di piccole dimensioni, organizzati in networks, poco dipendenti da investimenti pubblici ma in grado di instaurare relazioni commerciali con l’impresa sulla base della loro alta capacità di fornire brevetti ad uso industriale, hanno soppiantato le cattedrali della Big Science. Fenomeni come la Silicon Valley e l’organizzazione della ricerca nel campo biotecnologico, affidata a piccoli laboratori, pubblici e privati, ad alto tasso d’innovazione, sono gli esempi più evidenti. Per rendersi conto dello scarso impegno statale nella ricerca biotecnologica, a fronte di un’elevata risonanza sociale della disciplina, si osservi, ad esempio, che le campagne televisive di finanziamento simili al nostro Telethon forniscono alla ricerca pubblica francese una quantità di denaro sette volte maggiore rispetto al finanziamento statale3.

Gli istituti di ricerca hanno dunque vissuto una fase di ristrutturazione caratterizzata da decentramento e downsizing, in modo simile all’impresa industriale. Tuttavia, soprattutto in Paesi come l’Italia, la ricerca privata è stata incapace di sviluppare una propria autonomia e di affrontare gli ambiziosi programmi di ricerca che permangono nel settore pubblico, nel quale, a sua volta, si risente dell’atmosfera di smantellamento che attraversa l’intero stato sociale.


Il sapere scientifico e l’intellettualità di massa

La scienza e l’innovazione tecnologica rimangono, nell’immaginario collettivo, relegate all’esterno del sistema sociale, come input esterno indipendente: come forma suprema di monopolio del linguaggio dell’interazione tra uomo e natura. La società postindustriale ha superato tale separazione come la fabbrica diffusa ha dissolto la catena di montaggio. La produzione massificata di merci a mezzo di linguaggio è ormai in grado di riprodurre e di innovare il suo sapere. La possibilità di produrre sempre, concessa dalla messa al lavoro di attività comuni ai cittadini, e non riducibili alla forma della “competenza” o della “abilità”, è cruciale ma ancora controversa nell’interpretazione sul piano della produzione linguistica del postfordismo.

Christian Marazzi4, ad esempio, contesta l’idea5 secondo cui la separazione tra lavoratori comunicativi, creativi e liberi, definiti “lavoratori della conoscenza”, ed una moltitudine di individui neo-taylorizzati non integrati, o disoccupati, stia rinascendo sotto altre forme. Una simile rappresentazione della realtà sociale non dà conto degli aumenti di produttività in contesti ove la scienza e la tecnologia sono massimamente impiegate. La produttività aumenta meno in simili ambiti, se non si esce dal rapporto salariale. Già il Marx dei “Lineamenti”, dopo aver spiegato perché l’aumento della produttività trova un ostacolo nell’automazione, aggiunge: «La validità di questi teoremi, in questa forma astratta, è limitata al livello attuale del rapporto. In seguito interverranno ulteriori relazioni che li modificheranno notevolmente».

Marazzi denuncia una visione della realtà basata sull’ipotesi che al di fuori del lavoro salariato, e dunque dei suoi meccanismi di aumento della produttività attraverso l’automazione delle operazioni, il conflitto non sia possibile. Ma l’uscita da questo regime è già avvenuta: l’investimento massiccio in innovazione tecnologica da parte del capitale non si ripercuote solo sul monte-ore lavorative che giacciono ancora all’interno del rapporto di lavoro salariale, che non renderebbero abbastanza da giustificare l’impegno economico dell’investimento, ma sull’attività umana in toto che è divenuta fattore produttivo: il tempo dell’apprendimento, della riflessione, del divertimento. Questa attività lavorativa non rientra negli schemi statistici, generando le conclusioni paradossali dei teorici della fine del lavoro. Ma è lì che gli aumenti di produttività danno i loro risultati.

Ecco un elemento di analisi del ruolo sociale della scienza. Il committente della ricerca era l’imprenditore “schumpeteriano”, che deteneva il potere sulla base del monopolio degli strumenti decisivi nel rapporto uomo-natura; la sua capacità di innovazione tecnologica si mostrava tanto più efficace quanto più si accompagnava ad una divisione del lavoro di tipo fordista, dunque salariale, Le condizioni della produzione del plusvalore da parte dell’operaio erano predisposte dall’imprenditore in funzione del grado di automazione delle operazioni elementari.

Ora è caduta la possibilità di disciplinare le condizioni della produzione all’interno di un rapporto salariale: l’investimento tecnologico deve rivelarsi efficace tanto nel tempo di lavoro contrattuale quanto nel tempo libero. Dunque deve soddisfare criteri di compatibilità con la produzione e la riproduzione del fattore produttivo ora dominante: il “general intellect”, dunque un mezzo di produzione collettivo, pubblico.

Il committente della ricerca deve farsi plurale. L’attenzione dello scienziato deve essere rivolta sia alla calma del laboratorio che al “rumore” del soggetto collettivo pulsante che vi penetra dall’esterno. Ma se nel laboratorio penetrano i rumori dell’attività post-moderna, essi non saranno i frastuoni delle macchine e i boati dei forni, ma le “parole” della produzione di merci a mezzo di linguaggio. Ecco che il sapere scientifico aristocratico e l’intellettualità di massa si sovrappongono, scambiandosi organizzazione e metafore interpretative. Lo scienziato che interroga la natura e ne trae messaggi di conferma e leggi e risposte è ora uno dei tanti inventori di parole nuove6, e si mescola alle figure ibride prodotte da questa transizione.



Il ricercatore “autonomo”

Le trasformazioni che abbiamo citato in precedenza hanno generato un quadro nazionale italiano in cui si incontrano diverse tendenze a volte contraddittorie:

La ricerca pubblica non offre possibilità di autovalorizzazione sociale ed economica, soprattutto in ambito accademico. Offre, tuttavia, alcune garanzie residuali (di tipo previdenziale, ad esempio) non disponibili altrove.

L’instabilità del lavoro nella ricerca pubblica è una caratteristica simmetrica alla ristrettezza dei compensi dei ricercatori affermati. Gli investimenti pubblici risentono della mancanza storica e congiunturale di una vera politica di programmazione della scienza.

La precarietà nelle imprese è un dato di fatto anche per i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”. Anzi, essi si propongono direttamente come lavoratori autonomi e consulenti. Tuttavia, la scarsezza del bacino d’utenza del prodotto scientifico e l’onerosità dell’impegno economico generato da un’impresa di questo tipo, fanno sì che l’attività del lavoratore della conoscenza si svolga sotto la forma del lavoro dipendente, e la sua autonomizzazione si verifichi attraverso le forme sommerse della precarizzazione e della flessibilità.

Spesso il consulente ad alto tasso di conoscenze proviene dalla ricerca pubblica e, ottimizzando l’uso delle risorse messe a disposizione dallo Stato (strumentazione, possibilità di aggiornamento e formazione permanente), si propone all’imprese a capo di un piccolo staff. La capacità di tessere relazioni avvicina questo tipo di “Knowledge worker” al lavoratore autonomo.


Se la figura del ricercatore come lavoratore immateriale e produttore di linguaggio è già stato oggetto di dibattito epistemologico, la tesi che introduciamo e proponiamo di verificare è l’aderenza del lavoro del ricercatore alle modalità del lavoratore autonomo di seconda generazione. Per tale verifica si rende necessario un lavoro d’inchiesta serio e rigoroso, che tenga conto della variabilità della figura-tipo secondo l’area geografica e produttiva. Date le premesse fin qui esposte, non ci si può limitare a modellizzazoni economicistiche, ma occorrerà considerare le condizioni biopolitiche in cui si attua l’attività di ricerca scientifica. Il lavoro di Sergio Bologna ed Andrea Fumagalli7 può essere un primo schema su cui valutare l’accostamento proposto. Essi utilizzano le seguenti categorie, che proviamo a seguire:


Il lavoro autonomo si svolge con metodologie e ritmi che non possono essere definiti in anticipo. Il cocktail delle competenze del lavoratore e le sue capacità relazionali mutano di volta in volta lo “spazio socio-tecnico” in cui svolgere l’attività.

Il ricercatore che allaccia relazioni con altri settori e con le imprese è capace di integrare le sue conoscenze specializzate e di muoversi su più terreni: ciò gli consente di avere una visione d’insieme preziosa nel momento in cui valuta e propone collaborazioni esterne all’ambiente di provenienza, ad esempio, quello accademico. A questo tipo di comportamento è dovuto lo sviluppo di discipline “di confine” come le scienze dei sistemi complessi. Esse nascono all’intersezione di differenti percorsi di ricerca svolti nel pubblico e nel privato: dalla meteorologia all’ingegneria genetica alla cibernetica all’economia, sono le piccole équipe di ricercatori a connettersi in rete e sviluppare un valore conoscitivo aggiunto. Il ricercatore ha a disposizione le tecnologie della comunicazione più avanzate: alcune forme di cooperazione che hanno conosciuto una recente diffusione, come l’uso di database comuni e di reti telematiche, erano già diffuse nella comunità scientifica.

La percezione dello spazio e del tempo, nel lavoro autonomo di seconda generazione, non separa più la vita dal lavoro, ma unisce in un unico ambiente spazio-temporale la sfera della formazione, della produzione e degli affetti.

La libertà dell’orario di lavoro è sempre stata una prerogativa del lavoro di ricerca scientifica: ogni tentativo di regolamentazione ha incontrato resistenze e infrazioni, anche laddove l’organizzazione assomigliava a quella della fabbrica fordista. La diffusione del personal computer ha ulteriormente aumentato la capacità del ricercatore di disporre del proprio tempo slegandosi dai calcolatori centralizzati dell’informatica di qualche decenno fa. Quanto allo spazio, occorre ormai parlare di territori virtuali ampissimi su cui anche le giovani leve si trovano a muoversi con agilità. Anche qui, la generalità del linguaggio informatico ha un ruolo decisivo. La componente del lavoro di ricerca relativa all’elaborazione elettronica dei dati è preponderante, e può essere condivisa immediatamente da un numero potenzialmente infinito di soggetti disposti arbitrariamente sul pianeta.

La certezza della retribuzione è sostituita dalla precarietà della fattura, nel lavoro con partita I.V.A. Rapporti professionali di questo tipo mettono in discussione da soli l’intero impianto della costituzione materiale fordista. Anche nel lavoro dipendente, però, si assiste al fenomeno della precarizzazione del salario. L’intermittenza della prestazione lavorativa diviene il nuovo paradigma su cui definire il rapporto tra l’individuo e la produzione sociale, e dunque la cittadinanza e i diritti ad essa associata dopo l’esaurimento delle “Repubbliche fondate sul lavoro”.

I ricercatori che sceglieranno le garanzie residue di un lavoro dipendente e pubblico ad alto tasso di conoscenze, che presumilbilmente rimarrano maggiori che in altri settori, potranno beneficiare di capitale fisso sotto forma di strumentazione altrimenti indisponibile. Tuttavia, il maggior grado di autonomia assicurato dall’accesso a una formazione permanente sarà in parte compensato dalla rigidità dell’apparato. L’attrattività di una scelta diversa, volta all’autoimprenditoria, dipende dall’humus produttivo che si forma nel settore delle attività High Tech, e dalla possibilità di connessione reticolare con gli altri soggetti che si sarà creata (è ormai chiaro a tutti che la circolazione dell’informazione è di primaria importanza nella competitività di un distretto anche virtuale), e che nella ricerca pubblica, o nell’ambito della grande impresa, è già molto sviluppata. Le forme ibride, di tipo cooperativo, sembrano un’interessante prospettiva. Vi sono alcuni esempi anche in Italia: intorno alla SISSA, l’importante istituto di ricerca di Trieste, sono stati riprodotti i meccanismi tipici di distretti economici come quello tessile: si produce conoscenza in subfornitura.

L’identità professionale del lavoratore autonomo è affidata al giudizio del mercato; tuttavia, la qualità del lavoro non coincide necessariamente con l’affermazione commerciale, soprattutto laddove, come in Italia, sono presenti regioni di lavoro grigio e di scarsa trasparenza.

In questo caso, i ricercatori sono favoriti dal provenire, nella maggior parte dei casi, proprio da questi apparati. Essi godono di un prestigio riconosciuto in modo più o meno ufficiale, rappresentando talvolta concorrenza sleale in settori come quello delle consulenze.

Tuttavia, la questione dell’identità professionale è più ampia: allorché i linguaggi si rinnovano e s'intersecano a tutti i livelli, si può distinguere gerarchicamente il sapere scientifico dagli altri così come viene nella tradizione intellettuale occidentale (con tutte le ricadute epistemologiche di un simile discorso: occorre ridefinire razionalità, oggettività, verità)? I ricercatori liberati dalla direzione imprenditoriale saranno in grado di sfruttare il surplus di conoscenze e costruire quelle reti su cui si muovono i flussi informativi, comunicativi e finanziari che l’imprenditore biopolitico è in grado di coordinare?

L’ingresso e il mantenimento su mercato di un lavoratore autonomo dipende dalla combinazione tra formazione di partenza e aggiornamento della stessa, dall’accessibilità ai capitali e dalla rete di relazioni che egli riesce a creare.

La questione della formazione permanente attraversa il mondo del lavoro tutto. Tuttavia, questo punto riguarda in maniera preponderante i ricercatori che usciranno dai circuiti tradizionali della ricerca: le grandi imprese e gli enti pubblici.

Il ricercatore gode di un’ulteriore privilegio in questo settore: sia in un ente pubblico che in un’impresa privata, la possibilità di autoaggiornarsi è praticamente illimitata. D’altronde, proprio l’integrazione tra produzione e formazione permanente ha reso la ricerca un’attività simile, per certi versi, al lavoro autonomo anche quando ci si limiti ai ricercatori senza partita IVA, che restano la stragrande maggioranza.

Un’evoluzione verso forme microimprenditoriali può creare squilibri da questo punto di vista, e divenire terreno di lotta politica: il diritto ad una formazione permanente pubblica e gratuita come diritto di cittadinanza del lavoro autonomo ad alto tasso di conoscenze.

L’accesso ai capitali necessari ad una attività di ricerca è più agevole nel quadro dell’attività programmata di un ente o di una grande impresa: le richieste di una eventuale microimprenditoria ad alta tecnologia possono risultare poco vantaggiose, nelle fasi iniziali, secondo il giudizio di un’istituto creditizio, poiché i costi unitari delle infrastrutture necessarie possono risultare molto ingenti. Inoltre, la tendenza alla deflazione mette in crisi il ruolo delle banche e lo stesso modello “renano” di sviluppo industriale favorito da credito locale. Il ruolo d'agenzie di sviluppo, o dei cosiddetti “incubator” (imprese di maggior fatturato che agevolano la nascita di “piccoli imprenditori scientifici” allo scopo di creare abbondanti bacini di subfornitura) sarà forse decisivo.


Dal punto di vista della filosofia della scienza, il problema della committenza della ricerca andrà ridefinito, allo scopo di identificare i criteri logico-epistemologici con cui la comunità scientifica, a nome della società tutta, sceglie le sue strade. L’attacco alla scienza capitalistica, portato negli anni della contestazione, perderà forse i punti di riferimento più facilmente reperibili: i centri di ricerca statali o le multinazionali farmaceutiche o agroalimentari, ad esempio. La discussione politica nata intorno al tema delle biotecnologie gioca anche sulla limitata socializzazione delle attività produttive ad esse legate. Per certi versi, potrebbe verificarsi un processo simile a quanto è avvenuto nel mondo della finanza: l’invasione dell’economia domestica da parte di quella finanziaria ha portato a ridefinire le categorie della politica laddove la sinistra non si era neanche degnata di scendere in campo, e si aperto un nuovo campo di battaglia politica.

Come si vede, interpretare l’attività di ricerca secondo la tassonomia del lavoro autonomo può portare all’identificazione di una figura sociale che acquisterà rilievo proprio nel suo mescolarsi all’intelletualità di massa che si è già formata ed è già produttiva. L’inchiesta che intraprendiamo e proponiamo avrà bisogno di correzioni in corsa e utili collaborazioni con realtà territoriali lontane e vicine, proprio perché le caratteristiche del lavoro che c'interessano attingono al “biopolitico”, alle reti locali, all’interpretazione dei “dialetti” e delle soggettività che la produzione linguistica incanala e coordina.

 


Collettivo Laser, Università di Roma.

Proposta pubblica di lavoro


1 Nella corrente del pensiero critico, il punto di partenza più o meno comune a tutti è il Marx dei Grundrisse. Citiamo, tuttavia, testi più recenti ma meno conosciuti, per un’analisi concentrata sugli aspetti attuali del lavorar comunicando: C. Marazzi, Il Posto dei Calzini, Casagrande, Bellinzona 1994 e E il Denaro Va, Bollati Boringhieri, Torino 1998; M. Lazzarato, T. Negri, Lavoro Immateriale, Ombre Corte, Verona 1997; T. Negri, Exil, Mille et une Nuits, Paris 1998.

2 M. Cini e al., L’Ape e l’Architetto, Feltrinelli, Milano 1976

3 Dati disponibili in T. Wilkie, La Sfida della Conoscenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995.

4 C. Marazzi, E il Denaro Va, op. cit.

5 Cfr. A. Gorz, Miseria del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma 1998.

6 Sulla produzione di fatti scientifici come atti linguistici, cfr. B. Latour, S. Woolgar, La Vie de Laboratoire, Edition La Découverte, Paris 1988.

7 S. Bologna, A. Fumagalli, Il Lavoro Autonomo di Seconda Generazione, Feltrinelli, Milano 1997.

 

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