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Malatesta e il satiro
Delinquenti e pazzi nella società liberata

di Peppe Aiello

 

Il lettore che, da una prospettiva libertaria, incontri anche una piccola parte di quanto Malatesta scrisse nella sua lunga vita di rivoluzionario, e di scrittore in quanto rivoluzionario, resterà inevitabilmente colpito dalla lucidità nell'analizzare gli eventi del suo tempo, dalla capacità di individuarne i punti nodali, dalla nitidezza del suo giudizio nei confronti degli accadimenti che attraversarono gli anni nei quali visse. I suoi scritti, ed in particolar modo le pagine che dedicò alla critica dell'autoritarismo, sotto qualsiasi spoglia si presentasse, hanno ancora oggi la possibilità di costituire un ottimo strumento per chi sente il desiderio, la necessità, di cambiare radicalmente il mondo, anche se si tratta di un mondo molto diverso – ma davvero poi tanto diverso? – da quello di cui parlava Malatesta. Tuttavia, per rendere le sue idee – idee sempre strettamente legate ad una movimentata pratica durata oltre mezzo secolo – ancor più efficaci, abbiamo il compito di sottoporre alcune di queste ad una decisa e chiara critica.
L'azione di Malatesta si basò sempre sul convincimento che la rivoluzione fosse, se non imminente, comunque non troppo lontana. Erano anni differenti dai nostri, e l'insurrezione violenta era una parola d'ordine scontata non solo per gli anarchici ma per tutto il movimento rivoluzionario – e di fatto le insurrezioni violente si susseguivano anno per anno e con esse le repressioni e i massacri ad opera delle forze dello stato. Malatesta avvertiva l'esigenza, per il movimento anarchico, di saper dare delle risposte immediate nel momento della rivoluzione e considerò sempre prioritaria l'organizzazione sociale e la distribuzione delle risorse. Viceversa non risulta che amasse troppo evidenziare la necessità di distruggere, sin dal primo momento, qualsiasi forma di struttura detentiva.
Con ciò non si vuole sostenere che Malatesta fosse contrario alla distruzione delle galere – una affermazione del genere potrebbe essere smentita in un attimo da ogni sia pur mediocre conoscitore delle sue pagine, bensì che considerasse il problema come subordinato rispetto all'edificazione della libera convivenza.
Per citarne le parole: "Distruggere le istituzioni, i meccanismi, le organizzazioni sociali esistenti? Certamente, se si tratta di istituzioni repressive, ma esse in fondo non sono che piccola cosa nella complessità della vita sociale. Polizia, esercito, carcere, magistrature, cose potenti per il male, non esercitano che una funzione parassitaria. Sono altre le istituzioni e le organizzazioni che, bene o male, riescono ad assicurare la vita all'umanità; e queste istituzioni non si possono utilmente distruggere se non sostituendole con qualcosa di meglio."
Tra le "cose da fare" al momento dell'insurrezione sembra dunque citare malvolentieri in maniera esplicita il problema di cosa fare degli edifici carcerari, il problema dei "criminali", dei "delinquenti".
Ma quando interpellato, anche incalzato, su questo punto da alcuni veementi compagni non si tirò indietro dalla polemica ed esplicitò concisamente ma senza possibili equivoci il suo pensiero in merito: le carceri vanno svuotate ma chi ha dimostrato di poter nuocere agli altri, il pazzo pericoloso, il satiro che stupra le bambine (odiernamente si chiamerebbe pedofilo e non fa troppa distinzione tra infanti maschi e femmine) deve essere reso innocuo e deve essere curato.
Questa idea della cura obbligatoria fu osteggiata già al tempo da alcuni anarchici ed è per noi ancor più indispensabile considerarla ora come un punto debole del pensiero malatestiano.