Coerenza
tra mezzi e fini. Errico Malatesta, anarchico.
di
Massimo Ortalli
Da
"Umanità Nova" n. 39 del 30 novembre 2003
Errico Malatesta nasce a S. Maria Capua Vetere nel 1853 e muore a
Roma nel 1932. Esattamente 150 e 71 anni orsono. Un abisso
temporale, in questa epoca di velocissime trasformazioni, forse
ancora più profondo di quello che può apparire dal semplice
calcolo degli anni che ci separano da queste date. Eppure, ancora
oggi, in gran parte del movimento anarchico di lingua italiana
l'importanza del pensiero e dell'azione malatestiana rimane talmente
marcata da manifestarsi, quotidianamente, in molte delle sue più
importanti scelte tattiche e strategiche. Se fossimo etologi,
potremmo legittimamente parlare di un processo di imprinting del
pensiero malatestiano su quanti oggi si muovono nel solco
dell'anarchismo sociale e organizzatore, e potremmo notare come
questo imprinting non cessi di "influenzare" l'attività
di un movimento che individua coerentemente in questo grande
rivoluzionario anarchico il più importante dei suoi "padri
fondatori". Basti pensare, ad esempio, che tuttora l'adesione
alla Federazione Anarchica Italiana avviene anche attraverso il
riconoscersi in quel Programma Anarchico da lui scritto in occasione
del Congresso bolognese dell'Unione Anarchica Italiana del luglio
1920, e da quel Congresso accettato. Non sorprende quindi
l'interesse e il tenace nesso che tuttora ci legano a Malatesta, e
non è un caso, dunque, che proprio in questi giorni due nuove
importanti iniziative vadano ad aggiungersi alle tante a lui
dedicate negli anni passati, aprendo così nuovi e stimolanti
momenti di conoscenza e di studio sulla sua irripetibile esperienza
rivoluzionaria, umana e sociale.
La prima di queste è la monumentale biografia dedicata
all'anarchico campano da Giampietro "Nico" Berti (G.
Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e
internazionale. 1872.1932, Franco Angeli Editore, 2003, pp. 814,
40,00 euro), un saggio di grande spessore e respiro, nel quale
l'autore, docente di Storia contemporanea e Storia dei movimenti e
dei partiti politici presso l'Università di Padova, non solo
ricostruisce l'intensissima vita di Malatesta con uno straordinario
e sicuramente esaustivo ricorso a tutte le fonti disponibili, ma
affronta efficacemente anche la complessità del pensiero
malatestiano evidenziandone la profonda evoluzione teorica e pratica
avvenuta nel corso dei sessanta anni della sua attività. La seconda
iniziativa di cui stiamo parlando è il Convegno a lui dedicato dai
gruppi anarchici partenopei aderenti alla Fai, che avrà luogo a
Napoli dal 5 al 7 dicembre prossimo venturo (Convegno a 150 anni
dalla nascita di Errico Malatesta, anarchico - Napoli, 5-6-7-
dicembre 2003, Palazzo dello Spagnolo, via Vergini 19) nel corso del
quale si "cercherà un confronto [...] per sperimentare le
attuali possibilità del pensiero malatestiano nei diversi campi
dell'organizzazione sociale dove l'agire degli anarchici è
concretamente presente". E da queste "attuali possibilità"
conviene partire per tentare alcune riflessioni su come l'esperienza
pratica e l'elaborazione teorica di Malatesta siano ancora
pienamente in grado di trasmettere fertili spunti operativi
all'anarchismo del ventunesimo secolo.
L'azione sociale di Malatesta ha attraversato e segnato tutta la
storia del nostro movimento, dal suo nascere, nella tumultuosa ed
entusiasmante esperienza della Prima Internazionale, fino alla
pesante sconfitta delle forze rivoluzionarie sfociata
nell'affermarsi del fascismo e nel suo consolidarsi come nuova
teoria totalitaria dello stato. Appare quindi comprensibile come, in
questi sessant'anni di attività, egli sia venuto adeguando la
propria teoria rivoluzionaria e i conseguenti strumenti di lotta ai
problemi e alle tematiche affrontate, in un ininterrotto confronto,
e scontro, con una realtà quanto mai mutevole e in costante
evoluzione. Dai tentativi insurrezionali degli albori alla lotta
contro il parlamentarismo costiano, dal tentativo di costruire una
organizzazione "partitica" capace di coinvolgere l'intero
movimento anarchico al dibattito serrato sia con le tendenze
sindacaliste che con quelle individualiste presentatesi sulla scena
a cavallo del secolo, dalla spinta rivoluzionaria contro il
riformismo giolittiano sfociata nella Settimana rossa per finire
alla grande stagione organizzativa e di lotta del biennio rosso, il
pensiero e l'azione di Malatesta furono sempre ispiratori
dell'azione e del pensiero degli anarchici italiani. E in questo
continuo succedersi di agitazioni, che vedevano aprirsi concrete
prospettive dell'anarchismo, spesso seguite da pesanti fasi di
riflusso, e vedevano alternarsi momenti di grande forza a momenti di
altrettanta debolezza, l'anarchico campano seppe trovare, mantenere
e affermare, quell'inalienabile filo rosso della coerenza
rivoluzionaria, teorica e pratica dell'anarchismo, che più di ogni
altra cosa ne contraddistinse l'esperienza. Una coerenza che pagò
tra l'altro subendo continue persecuzioni, come lui stesso ricordò,
con sottile ironia tutta partenopea, agli ennesimi giudici che se lo
trovavano davanti ancora una volta, quasi settantenne, nel 1921:
"Io, quantunque non abbia scontato che sette mesi di condanne -
tutte le altre condanne sono state o prescritte o amnistiate - pure
l'autorità ha trovato il modo, a pezzi e a bocconi, di farmi
passare più di dieci anni della mia vita in prigione" (e la
sua naturale bonomia gli impedì di infierire, come avrebbe potuto,
computando anche gli anni, ben più numerosi, in cui fu costretto
all'esilio).
Come si vede, il suo fu un percorso difficile, pieno di ostacoli
e di asperità, segnato dalla pesante repressione dello stato, dalle
lusinghe degli avversari e dal "tradimento" di tanti
compagni di strada, un percorso lungo il quale le sirene
dell'opportunismo, che così duramente colpirono all'interno del
campo rivoluzionario, non solo italiano, si fecero costantemente e
subdolamente sentire. Eppure, lungo questo percorso che avrebbe
piegato una quercia, Errico Malatesta oppose a scudo la propria
coerenza e la propria volontà rivoluzionaria, facendone l'arma
migliore per minare, dalle sue basi, il principio d'autorità.
Un'arma tanto più efficace quanto più pericolosa per il potere
(Malatesta fu indubbiamente il rivoluzionario più temuto e
controllato da tutti i governi con i quali ebbe a scontrarsi),
aliena dal dogmatismo e capace di misurare la sua validità nella
concretezza dello scontro quotidiano, sempre ostinatamente fedele
alla preminenza dell'etica e dei suoi irrinunciabili principi
rispetto a qualsiasi altra contingenza. La grande forza di
Malatesta, infatti, quella che ne fece un vero e proprio mito per le
classi popolari e per i movimenti rivoluzionari dei suoi tempi (il
"Lenin italiano" lo acclamavano le grandi folle accorse da
ogni dove al rientro dall'esilio londinese nel 1920, e il fastidio
che questo gli provocava non attenuava l'esaltazione che la sua
figura provocava nel paese) risiedeva nella piena corrispondenza, in
tutte le sue azioni, fra le finalità della nuova società da lui
tanto tenacemente perseguite e i mezzi della sovversione sociale
utilizzati per raggiungerle. Ed è questa corrispondenza, fra il
fine di una società fondata sulla libertà e sulla solidarietà e i
mezzi per arrivare a questa società senza sbavature autoritarie e
coercitive, il lascito più importante, più attuale, che Malatesta
ha consegnato all'anarchismo militante.
Parte infatti dalla necessità di mantenere sempre tale
corrispondenza, il lungo e ininterrotto processo evolutivo che ha
contrassegnato la sua elaborazione teorica, basata sulla fedeltà ai
valori originari sui quali si era innestato il pensiero anarchico,
ma anche sulla riflessione costante su come mantenere la vitalità
di questi valori nel mutare della situazione sociale. Un processo
maieutico, in sostanza, in grado di affermare, nella temperie della
lotta quotidiana, l'universalità dei principi fondanti
dell'anarchismo, individuando, fra i mezzi coerenti con i fini,
quelli più idonei ad affrontare le più diverse situazioni.
Da qui, quindi, le ragioni della preminenza dell'etica, intesa
come coincidenza fra azione e tensione libertaria, su quelle del
"realismo" politico, e da qui le basi di quel profondo
umanesimo sociale che vedeva nella libertà individuale,
inscindibile dalla libertà collettiva, il motivo fondante del
progetto anarchico. E da qui soprattutto la prevalenza della
"volontà", intesa come il tratto caratteristico di un
consapevole desiderio di liberazione, in contrapposizione con le
interpretazioni dominanti dello scontro sociale che l'epoca offriva,
vale a dire il materialismo marxista, che riduceva tutto a un
processo dialettico automatico destinato ad esaurirsi nella
ineluttabile sintesi della rivoluzione, e il determinismo
kropotkiniano, ingenuamente fiducioso nella linearità di un
processo evolutivo "positivistico". E in piena coerenza
con l'affermazione della centralità della volontà
"rivoluzionaria" e della specificità del singolo
individuo, si poneva la costante riproposizione del principio della
responsabilità individuale, della sperimentazione come
antidogmatica affermazione di libertà, del gradualismo riformatore
come percorso di avvicinamento all'anarchia.
Dotato di grande capacità d'azione, e in grado di capire "a
fiuto" le potenzialità offerte dalle varie situazioni,
Malatesta agì sempre per promuovere e conseguire l'unità delle
forze rivoluzionarie, pur preservando la specificità
dell'anarchismo e dei suoi principi. E convinto della necessità
dell'organizzazione, che coerentemente propugnò fin dalle prime
lotte internazionaliste, lavorò incessantemente per dare al
movimento anarchico gli strumenti e i mezzi più idonei a
rafforzarne l'azione. E, in questa riflessione sui mezzi da
utilizzare per la costruzione di una società antiautoritaria e
antigerarchica, comprese di dover riconsiderare il ruolo della
violenza, passando dalle primitive posizioni possibiliste, legate
soprattutto alla drammatica repressione più volte vissuta dal
movimento, al progressivo rifiuto della sua centralità come
"levatrice" del processo rivoluzionario, nella
consapevolezza che solo l'unione delle coscienze libere, formatesi
nel corso delle lotte in una continua ginnastica rivoluzionaria,
avrebbe consentito la costruzione di una società veramente
libertaria. Non a caso ebbe ad affermare che "se per vincere si
dovesse elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere".
E non a caso, nel corso della sua lunga vita sovversiva non ha mai
compiuto un atto di violenza gratuita o crudele, perché anche se
partecipe delle durezze e delle necessità dello scontro sociale, al
centro della sua azione pose quel profondo umanesimo,
quell'insopprimibile amore per l'uomo, che ne hanno fatto il più
grande e determinato rivoluzionario del nostro paese.
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