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Malatesta e il concetto di violenza rivoluzionaria

di Alfredo Bonanno

 

Non sono uno storico e quindi non parlerò da storico. Il mio interesse per Malatesta risale a più di trent’anni fa, quando curai l’edizione annotata de L’anarchia. La lettura degli scritti più noti di Malatesta e dell’antologia curata da Richards aveva sollecitato la mia attenzione. In particolare mi ero trovato, con stupore, di fronte a un anarchico che non faceva ricorso da un lato al buon senso accomodante di chi vuole farsi capire dalle masse, dall’altro lato al reboante linguaggio di chi sente ma non ammette l’influsso delle avanguardie letterarie e filosofiche. Malatesta mi dette l’impressione di un uomo informato e privo dell’intenzione spesso proterva di impressionare l’ascoltatore. Ma più di tutto mi impressionò il suo linguaggio. Semplice ed efficace. Il suo ragionare pacato ma stringente. Di fronte a un Galleani che riempiva di suoni ricercati le mie orecchie o di uno Schicchi che faceva ricorso a effetti retorici di cui non sentivo bisogno, Malatesta appariva un uomo concreto, un rivoluzionario che voleva distruggere ma anche costruire, che possedeva una considerevole cultura ma non voleva mostrarla senza che ce ne fosse bisogno.

Approfondendo la lettura dei suoi scritti mi venne opportuno riflettere sui processi che conducono alla costruzione di un leader. Niente in Malatesta sollecitava a questa infausta designazione, eppure il comportamento dei compagni, più ancora di quello dei suoi avversari, lo chiudevano in questa disagevole armatura. Mi ricordo che in qualche posto ho letto di un Lenin d’Italia, ma la memoria potrebbe farmi difetto, quindi non sottolineo qui l’increscioso parallelo, però mi torna l’obbligo di sottolineare che perfino nel manifesto redatto per pubblicizzare il presente Convegno sta scritto che Malatesta “fu uno dei rivoluzionari più famosi del suo tempo”, come se la cosa possa interessare a chi oggi (ma anche all’epoca) volesse accostarsi alla sua opera. La fama è faccenda del potere, è costruita e utilizzata da quest’ultimo, il nostro compito – almeno così mi pare – accostandoci a un compagno, quale esso sia, più o meno di tanti altri egli abbia “fatto” o “pensato” (interessante questa differenza, se esiste, ma non chiara), non è certo quello di partire dalla sua fama, che dovremmo lasciare agli articoli abborracciati  dai giornali, ai libri di storia diretti a confermare la supremazia dei vincitori, ai dossier della polizia. Il fatto è che molti di noi, non dico tutti, hanno bisogno di un leader, sentono come non del tutto cancellato l’antico spirito gregario, si sottomettono al giudizio di chi guarda più lontano, per poi magari saltargli addosso al primo cambiamento del vento. È quasi certo che la rivoluzione non si farà se prima non si saranno fatti i rivoluzionari.

Le riflessioni che seguiranno saranno dettate da alcuni passi degli scritti di Malatesta. Ho scelto questi passi secondo un criterio di comodo, nel senso che ho preferito prendere in considerazione quelli più chiari riguardo l’indispensabilità della violenza rivoluzionaria, le caratteristiche di questo tipo di violenza e il suo fondamento morale. Trattandosi di problemi di grande importanza molti potranno sottolineare l’illegittimità di questo metodo. Che senso ha – sento di già dire – estrapolare alcuni pensieri di Malatesta traendoli fuori dal loro contesto storico e perfino redazionale o linguistico per prenderli in considerazione come se potessero pretendere a una vita autonoma, gemme isolate capaci di splendere senza ulteriori supporti o incastonature. Il fatto è che ho sempre ritenuto che questa obiezione e il metodo che sta alla sua base e che la giustifica sono fondate quando ci si trova davanti a un teorico che sviluppa il suo pensiero in modo organico e progressivo e a questo si limita, lasciando che tutto quello che ha da dire (e da fare) si raggrumi nella propria produzione teorica. Ma per un rivoluzionario la faccenda è diversa. Quando Malatesta scriveva qualcosa si rivolgeva a un referente preciso che grosso modo possiamo considerare come il movimento rivoluzionario anarchico del suo tempo. Non scriveva per approfondire il proprio pensiero o per renderlo ancora più completo ed esauriente. Non pretendeva partire da quello che aveva detto in qualche altro momento (in un prima ipoteticamente fissato all’interno del processo storico) per arrivare a qualcosa che avrebbe detto in un momento successivo (anche questo fissato in un futuro più o meno a breve o a media scadenza). Ogni suo pensiero era fruito direttamente, immediatamente dai compagni che lo ascoltavano, lo leggevano o comunque ne venivano a conoscenza. E questo pensiero, isolatamente considerato, agiva sulle coscienze di quei compagni, i quali usufruivano di quei contenuti facendoli propri e quindi mettendoli in grado di agire all’interno della propria visione della vita, rendendoli sangue del proprio sangue, pulsione dei propri desideri, anima dei progetti in corso di realizzazione. Nessuno di loro si chiedeva in che modo e dentro quali limiti quel pensiero si collegasse con quanto Malatesta aveva detto in un certo suo scritto o discorso o articolo e così via.

Quando Camille Desmoulins sale su di un sedia e infiamma la piazza contro la monarchia, sono le sue parole che hanno presa sulla folla, che incitano alla conquista e alla distruzione della Bastiglia, non quello che lui aveva detto in cento altre occasioni o quello che dirà dopo. Quando Saint-Just pronuncia le parole “Luigi contro di noi” sono proprio queste quattro parole che segnano la fine del re e della monarchia, non le teorie del giacobino sui destini morali della rivoluzione borghese.

Capisco che questo ragionamento può non essere condiviso, ma è proprio qui che occorre riflettere bene se non si vuole ridurre ogni occasione come questa a un vuoto e superfluo dibattersi di giudizi storicamente datati o vagamente considerati come strumenti per ammaestrare la vita. Noi anarchici non abbiamo necessità che i rivoluzionari del passato, e Malatesta in primo luogo, ci parlino attraverso la massiccia e organicamente ben definita globalità del loro pensiero. Lasciamo che di questo aspetto si prendano cura gli storici di professione, amanti del dettaglio e nel dettaglio pronti a morire affogati. Lasciamo che la singola parola risuoni nel nostro cuore con la stessa viva risonanza con cui risuonava nel cuore di chi quella parola scriveva o di chi l’ascoltava o la leggeva. Lasciamo che siano i nostri desideri (e i nostri bisogni di oggi) a servirci da interpreti e non la coltre culturale che di regola serve a procurare alibi e a spegnere entusiasmi.

Quello che chiediamo a Malatesta, e a tanti altri compagni come lui, è una scintilla, una luce improvvisa, un’occasione per riflettere prima di agire, una piccola aggiunta. Non chiediamo di ragionare al nostro posto, di costruire per noi un progetto completo in tutte le sue parti. Non vogliamo che sia il passato a metterci in grado di capire il presente. Il contributo della storia è certamente importante ma non è la sua cosa di cui manchiamo. Spesso più questo contributo tende a ingrandirsi più si vogliono accumulare altri dati, altre documentazioni, altre riflessioni, mentre il momento dell’azione si allontana di conseguenza sempre di più. Il nemico contro cui dobbiamo lottare è davanti ai nostri occhi, costruisce e progetta le condizioni dello sfruttamento di oggi e di domani, non si ferma a giustificare lo sfruttamento di ieri, non frequenta aule universitarie che per meglio compirci e renderci incapaci di capire i nuovi modelli repressivi. Se chiedessimo a Malatesta una risposta per ognuno dei nuovi elementi grazie ai quali sta prendendo forma il nuovo potere, non si avrebbero risposte utilizzabili. Ma qualcosa possiamo chiedere, e questo qualcosa, in modo particolare, prende la forma della riflessione morale.

Ecco perché il concetto di violenza in Malatesta è stato scelto da me in queste relazione per discuterne assieme a voi, nel modo più semplice possibile, ma anche nel modo più chiaro.

 Gli anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea centrale dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale; è l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sul­la libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggian­dosi sulla protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi ed a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società. Ma se un galantuomo dice che egli crede che sia una cosa stupida e barbara il ragionare a colpi di bastone e che è ingiusto e malvagio obbligare uno a fare la volontà di un altro sotto la minaccia della rivoltella, è forse ragionevole dedurre che quel galantuomo intende farsi bastonare e sotto­mettersi alla volontà altrui senza ricorrere ai mezzi più estre­mi di difesa? La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità comincia il delitto... Lo schiavo è sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è sempre moralmente giusti­ficabile e deve essere regolata solo dal criterio dell’utilità e dell’economia dello sforzo umano e delle sofferenze umane. (“Umanità Nova”, 25 agosto 1921).

Sulle prime Malatesta sembra restringere la giustificazione dell’uso della violenza alla dimensione difensiva. La sola violenza giustificata è quella con la quale ci si difende da un sopruso. Ma poi aggiunge: chi si trova in condizioni costanti di legittima difesa, cioè lo sfruttato, è sempre giustificato ad attaccare chi lo sfrutta, tenendo conto dell’utilità di questo attacco e delle sofferenze umane che esso inevitabilmente comporta. Quindi non sta parlando in astratto della “violenza”, come purtroppo accade tanto spesso fra i compagni – diatriba che alimenta tanti degli equivoci del pacifismo – ma parla nella concretezza di classe della condizione in cui si trovano tutti coloro che sono legittimati moralmente a usare la violenza. Che poi quest’uso della violenza vada incontro a una condanna sancita dalle leggi in vigore, questo non è argomento che può interessare l’anarchico. Resta la valutazione pratica, l’utilità dell’azione violenta e le sofferenze che causa. Malatesta non è un seguace di Mach, però vista c la sua cultura filosofica, e visto che le idee empiriocriticiste non erano estranee al clima culturale italiano degli anni Venti, può anche aver tenuto presente questo riferimento, ma si tratta di una utilità più concreta, non di quella più generale che veniva suggerita dall’economicismo filosofico. Purtroppo nessuna azione compiuta dagli sfruttati, singolarmente o collettivamente considerati, può avere a priori una garanzia di utilità. Questo metro – e lo stesso Malatesta lo dice in altri posti quando afferma di preferire chi agisce troppo a quelli che aspettano e finiscono per non fare nulla – ha una sola spiegazione. L’azione violenta deve assolvere tutte le condizioni logiche che la rendono moralmente fondata, ma non può prevedere tutte le conseguenze del proprio venire in essere. Le condizioni logiche sono prima di tutto la situazione personale e collettiva di chi insorge violentemente contro il nemico di classe, poi l’identificazione quanto più esatta possibile di questo nemico, la scelta del mezzo da impiegare e lo studio di quanto necessario per ridurre al minimo quella sofferenza umana che costituiva la seconda parte delle preoccupazioni di Malatesta. Tutto questo si chiede a chi agisce, e tutto questo può essere considerato sotto il senso lato e non specifico di “utilità”. Infatti, solo rispettando queste condizioni fino in fondo, in altri termini scegliendo bene gli obiettivi e i mezzi, facendo attenzione anche ai minimi particolari che potrebbero determinare un eccesso di sofferenza imputabile a trascuratezza o superficialità, l’azione può essere letta come risposta alla repressione e allo sfruttamento e non abbisognare di giustificazioni posteriori sempre spiacevoli e spesso incomprensibili per la gente. Non è certo poco importante che spesso alcune azioni di attacco hanno necessità di una spiegazione. I realizzatori stessi se ne rendono conto e suggeriscono questa spiegazione in quella che comunemente si è convenuto chiamare “rivendicazione”. Purtroppo, quasi sempre, queste rivendicazioni – salvo casi esemplari – sono incomprensibili ai più, dannose per ogni chiarificazione dell’azione stessa, indicanti la poca chiarezza delle idee di chi le ha scritte e altre cose ancora. La leggerezza di mano non è quasi mai presente in questi documenti che confermano il fatto che l’azione non riesce a parlare da per se stessa. Questa difficoltà dell’azione di cui discuto qui è imputabile a una carenza analitica nella scelta dell’obiettivo, dei mezzi per raggiungerlo, ecc., in una parola denuncia una carenza di ordine morale. Chi ha chiare le cose da fare non possiede questa lungimirante acutezza di vista per dono del caso ma solo perché ha valutato tutte le possibilità che umanamente era possibile valutare. Anche in questa eventualità le cose possono andare storte, ma si tratta di un rischio che dobbiamo correre se vogliamo agire.

Vi sono certamente altri uomini, altri partiti, altre scuo­le tanto sinceramente devoti al bene generale quanto possono esserlo i migliori tra noi. Ma ciò che distingue gli anarchici da tutti gli altri si è appunto l’orrore della violenza, il deside­rio ed il proposito di eliminare la violenza, cioè la forza ma­teriale, dalle competenze tra gli uomini. Si potrebbe dire perciò che l’idea specifica che distingue gli anarchici è l’abolizione del gendarme, l’esclusione dai fat­tori sociali della regola imposta mediante la forza brutale, le­gale o illegale che sia. Ma allora, si potrà domandare, perché nella lotta attuale contro le istituzioni politico-sociali, che giudicano oppressive, gli anarchici hanno predicato e praticato, e predicano e pra­ticano, quando possono, l’uso dei mezzi violenti che pur sono in evidente contraddizione coi fini loro? E questo al punto che, in certi momenti, molti avversari in buona fede han cre­duto, e tutti quelli in mala fede han finto di credere che il carattere specifico dell’anarchismo fosse proprio la violenza? La domanda può sembrare imbarazzante, ma vi si può rispondere in poche parole. Gli è che perché due vivano in pa­ce bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a lavorare per lui ed a servirlo, l’altro se vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbli­gato a resistere alla forza con mezzi adeguati. (“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924).

Ancora una volta Malatesta ci conduce lontano dalla diatriba teorica sulla violenza o sulla non violenza. Gli anarchici sono per l’eliminazione della forza bruta nei rapporti sociali, ma nelle condizioni presenti della lotta predicano e praticano, quando possono, l’uso di mezzi violenti. Ciò non accadeva solo ai tempi di Malatesta ma anche oggi. Anche oggi gli anarchici sostengono la necessità dell’uso della violenza per attaccare il nemico che opprime e reprime. Perché due vivano in pace occorre che siano disposti reciprocamente a rispettare la pace. Oggi il potere ha perfezionato gli apparati ideologici e propagandistici attraverso i quali diffonde l’idea di pace mentre, nella sostanza, pratica e prepara la guerra. Oggi, meno chiaramente che ai tempi di Malatesta, occorre fare uno sforzo di penetrazione analitica per entrare dentro questi meccanismi di copertura che ci tengono sotto controllo, che ci numerano, registrano, amministrano, soffocano. Che l’oppressore parli di pace non vuol dire che sia veramente portatore di pace. Questo gli anarchici lo sanno, ma non sempre risulta loro facile compiere il passo successivo, quello dell’azione violenta, dell’attacco. Giustamente Malatesta parla di “dignità di uomo”, ed è proprio questo che spinge molti a ribellarsi, e la risposta è a volte talmente incontrollata che diventa incomprensibile per molti. Ma non bisogna fermarsi agli aspetti esteriori, bisogna andare dentro i fatti e persino dentro quegli attacchi che non potendo raggiungere l’osso si fermano a scalfire la pelle, che non potendo colpire fino in fondo si limitano a intaccare i simboli. La ricerca dei mezzi “adeguati” di cui parlava Malatesta non è sempre possibile, molto più spesso il sangue agli occhi sale prima che il cervello risponda alle domande della mente. Perché condannare queste espressioni di violenza contro i simboli del potere? Potrebbero essere fine a se stessi e quindi tornare rapidamente in quelle vaste aree del recupero che sono accuratamente sovvenzionate dal potere. Ma potrebbero andare oltre. Alla larga dai manutengoli.

La lotta contro il governo si risolve, in ultima analisi, in lotta fisica, materiale. Il governo fa la legge. Esso dunque deve avere una forza materiale (esercito e polizia) per imporre la legge, poiché altrimenti non vi ubbidirebbe che chi vuole ed essa non sa­rebbe più legge, ma una semplice proposta che ciascuno è libero di accettare e di respingere. Ed i governi questa forza l’hanno, e se ne servono per potere con leggi fortificare il loro dominio e fare gl’interessi delle classi privilegiate, opprimen­do e sfruttando i lavoratori. Limite all’oppressione del governo è la forza che il po­polo si mostra capace di opporgli. Vi può essere conflitto aperto o latente, ma conflitto v’è sempre: poiché il governo non si arresta innanzi al mal­contento ed alla resistenza popolare se non quando sente il pericolo dell’insurrezione. Quando il popolo sottostà docilmente alla legge, o la pro­testa è debole e platonica, il governo fa i comodi suoi senza curarsi dei bisogni popolari; quando la protesta diventa viva, insistente, minacciosa, il governo secondo che è più o meno illuminato, cede o reprime. Ma sempre si arriva all’insurre­zione, perché se il governo non cede, il popolo finisce col ri­bellarsi; e se il governo cede il popolo acquista fiducia in sé e pretende sempre di più, fino a che l’incompatibilità tra la libertà e l’autorità diventa evidente e scoppia il conflitto vio­lento. È necessario dunque prepararsi moralmente e material­mente perché allo scoppio della lotta violenta la vittoria resti al popolo. (Programma Anarchico, Bologna, luglio 1920. “Umanità Nova”, 12 agosto 1920).

Lo scontro, precisa Malatesta, è qualcosa di fisico, di concreto, di materiale. Non si tratta di un confronto di idee, non si tratta di fare conoscere quali sono le interpretazioni della vita che reggono le basi della cultura anarchica e libertaria. Questo punto di partenza è certo importante, diffonde una concezione non violenta, pluralista, contraria all’autorità e al dominio, ma è solo l’anticamera di qualcosa che sta oltre. Il progetto del potere è quello di imporre le sue condizioni, non si limita soltanto a illustrarcele, fa vedere concretamente come chi non accetta le regole imposte è considerato “fuorilegge” e colpito con sanzioni più o meno serie, comunque in grado di mettere paura e di convincere la gente all’obbedienza. La risposta degli oppressi può essere più o meno forte, più o meno organizzata, e in questo suo disporsi secondo variazioni molteplici e differenziate si contrappone alle modificazioni che il potere produce sia nell’oppressione e nel controllo come nelle libertà parziali che è comunque costretto a concedere. Malatesta credeva, ai suoi tempi, che il movimento verso l’insurrezione è processo quasi inevitabile causato dalla contraddizione tra quello che il potere è disposto a concedere e quello che gli oppressi sono disposti a sopportare. Questa analisi risentiva di una considerazione delle contraddizioni sociali mutuata dall’hegelismo marxista, oggi vediamo molto meglio che le cose non stanno così. Le capacità di recupero del capitale sono sempre imprevedibili e dipendono dalla potenza delle nuove tecnologie, il potere gestisce con maggiore facilità le contraddizioni e non sembra che tra queste se ne possa individuare una più consistente delle altre da indicare come insuperabile. Il movimento insurrezionale viene di certo alimentato dalla radicale incompatibilità tra autorità e libertà, ma per realizzarsi occorre una preparazione pratica che possa partire da condizioni contraddittorie parziali, a volte anche minime, sicuramente sanabili dal nemico, ma che possono essere momenti insurrezionali per procedere verso la rivoluzione. Fra le righe Malatesta mette l’accento sulla preparazione dell’insurrezione e lo colloca su due aspetti: la preparazione morale e quella materiale. Ora non c’è dubbio che se la prima è conseguenza di una crescita della coscienza rivoluzionaria, la seconda non può essere altro che l’apprestamento di una pratica insurrezionale che nasce e si acquisisce col tempo nella lotta quotidiana e non nell’attesa di un’apocalittica e improbabile resa dei conti. Occorre sbarazzare il campo dall’iconografia che vuole l’insurrezione una faccenda di barricate e di lotta di grandi masse decise ad arrivare alla resa dei conti. Anche i piccoli movimenti locali possono assumere connotazioni insurrezionali, anche le lotte intermedie, se le condizioni in cui prendono corpo sono quelle dell’autonomia dalle forze politiche, della conflittualità permanente e dell’attacco.

Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per sé stessa un male. Deve essere violenta perché sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a rinunciarvi volontariamente. Deve essere violen­ta perché la transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa degli uomini. (“Umanità Nova”, 12 agosto 1920).

La strada verso la libertà non può essere percorsa in carrozza, occorre rendersi conto che si tratta di un percorso sanguinoso e difficile, capace di turbare i sogni di coloro che pur aspirando alla giustizia e all’uguaglianza vorrebbero che queste dee scendessero dall’Olimpo senza far troppo baccano. Malatesta è un rivoluzionario e non ha motivo di alimentare queste illusioni. Sa che la violenza è dolorosa ma sa anche che è necessaria. Ma non è questo il punto esatto in cui si dovrebbe porre l’attenzione oggi. Nella frase in questione c’è il concetto di “violenza transitoria”, cioè di una risposta radicale e estrema, ma limitata nel tempo, alla regola dei dominatori che pretende governare per sempre. Ciò lascia intendere l’ipotesi di un “passaggio”. I mezzi di produzione dalle mani dei pochi sfruttatori andranno nella mani di tutti per l’abolizione di ogni sfruttamento. Purtroppo oggi non si è più in una condizione sociale così netta e apparentemente (ma solo apparentemente) facile da capire. Le attuali condizioni produttive non consentono un utilizzo rivoluzionario diretto, cioè non è più possibile impiegare in modo diverso i mezzi di produzione una volta avvenuto l’evento espropriativo. La tecnologia rende altamente improbabile un uso finalmente giusto delle risorse che il capitale ha accumulato. Il livello di distruzione oggi necessario è di certo molto più grande e profondo di quello che poteva essere ai tempi di Malatesta. Le difficoltà di svellere abitudini e condizionamenti sono tantissime e lo stesso processo rieducativo potrebbe richiedere sforzi e lotte inimmaginabili. Il recupero di nuove forme di gestione e di amministrazione centralizzate, che potrebbero presentarsi sotto aspetti e camuffamenti non smascherabili immediatamente, proporrebbe una “transitorietà” dell’impiego della violenza con tempi molto lunghi. La coscienza di questo difficile cammino alimenta tante perplessità e dà spazio alle riflessioni perbeniste di chi aspetta che le cose si aggiustino lentamente, senza tendere troppo la corda. Lottare concretamente contro le forme attuali di questo inglobamento ideologico e culturale è un processo violento non più rimandabile.

Anche noi abbiamo l’animo amareggiato da questa neces­sità di lotta violenta. Noi che predichiamo l’amore e che com­battiamo per raggiungere uno stato sociale in cui la concordia e l’amore sian possibili tra gli uomini, soffriamo più di tutti della necessità in cui siam posti di difenderci colla violenza contro la violenza delle classi dominanti. Ma rinunziare alla violenza liberatrice quando essa resta l’unico mezzo che possa metter fine alle sofferenze diuturne della grande massa degli uomini ed alle stragi immani che funestano l’umanità sarebbe farsi responsabili degli odii che si lamentano e dei mali che dall’odio derivano. (“Umanità Nova,” 27 aprile 1920).

L’autorizzazione morale all’impiego della violenza rivoluzionaria si trova proprio nella necessità del suo impiego. Questa necessità trova origine dal pericolo in corso che miliardi di uomini e donne corrono a causa dell’oppressione e dello sfruttamento. Se fosse soltanto una scelta tra la pace e la violenza gli anarchici per primi sceglierebbero la pace, essendo sostenitori dell’amore e della fratellanza universale. Ma non si tratta di una scelta. Essi, come tutti coloro che sono animati dalla volontà di far finire l’odio che strazia l’umanità, sono obbligati a scegliere la violenza. Certo, i sostenitori dell’oppressione, coloro che la esercitano direttamente e coloro che da essa ne traggono beneficio, difficilmente condividerebbero questa conclusione. Anzi, più si va verso una società capace di amministrare il dominio attraverso la pace sociale, più ci si accorge che i discorsi ideologici si fanno sottili, tutti gli oppressori parlano di pace e di fratellanza, tutti accusano chi vuole liberarsi dall’oppressione di intolleranza e di violenza (a questo proposito è stato coniato apposta il concetto spurio di “terrorismo”). La pressione esercitata sulla formazione pubblica dell’opinione corrente è tale che molti (la gran massa della gente) sono seriamente convinti di essere tolleranti anche quando partecipano nel modo più diretto allo sfruttamento e alla repressione. La società in cui viviamo, e via via quella che sta profilandosi sempre più con chiarezza per i prossimi decenni, è scarsamente definibile con i canoni rigidi della divisione in classi dell’epoca di Malatesta. Eppure, nonostante queste cresciute difficoltà, ci si può dire certi che da qualche parte il nemico continua a costruire i suoi paradigmi di potere, e che milioni di suoi collaboratori rendono possibile l’applicazione di questi paradigmi. Colpire queste trame e gli uomini che le realizzano è proprio trarsi fuori dalla responsabilità che finisce per cadere su tutti coloro che non attaccando si rendono complici della realizzazione di quei progetti di potere. Ma perché questa responsabilità derivante dal non agire, dal lasciare che le cose continuino ad andare come vanno, quindi di non affrontare fino in fondo le conseguenze repressive inevitabili di un’azione per forza di cose violenta, perché mai questa valutazione morale deve considerarsi autoevidente? Questa domanda è importante. Infatti può essere benissimo che il proprio modo di non partecipare, di astenersi (poniamo limitandosi a non votare) possa essere considerato un modo sufficiente per tagliare il cordone ombelicale di quella responsabilità. Difatti siamo in questo caso di fronte a una vera e propria azione positiva diretta a intralciare il meccanismo repressivo o gestionario che ci sovrasta. Io penso che le persone devono sentirsi responsabili (non venire giudicati tali da qualcuno) solo di ciò che sanno. Se qualcuno è veramente convinto che basta (poniamo) non votare per assolvere al suo crimine partecipativo nei riguardi delle istituzioni, allora è giusto che in buona fede si ritenga assolto da qualsiasi responsabilità. Ma quale persona appena appena informata sulla realtà che tutti ci ospita può arrivare a queste conclusioni senza ridersi in faccia da solo? Più egli avanza nella conoscenza della società in cui vive, più si documenta e si aggiorna, e più il suo cuore insorge contro i palliativi che la mente raziocinante aveva trovato per mettere a tacere la coscienza. Solo che spesso i nostri interessi quotidiani: la famiglia, la carriera, i soldi, ecc., ci fanno velo e gli sforzi per spostare questo velo non sono quasi mai adeguati alla luce abbagliante che esso nasconde, alla fine ci convinciamo da soli che gli unici responsabili dello sfruttamento e dell’oppressione sono soltanto gli sfruttatori e gli oppressori, e voltandoci dall’altra parte continuiamo il nostro sonnellino pomeridiano.

Noi siamo per principio contro la violenza e perciò vor­remmo che la lotta sociale, finché lotta vi sarà, si umanizzasse il più che sia possibile. Ma ciò non significa punto che noi vor­remmo che essa lotta sia meno energica e meno radicale, ché anzi noi riteniamo che le mezze misure riescono in conclusio­ne a prolungare indefinitamente la lotta, a renderla sterile ed a produrre insomma una più grande quantità di quella violen­za che si vorrebbe evitare. Né significa che noi limitiamo il diritto di difesa alla resistenza contro l’attentato materiale ed imminente. Per noi l’oppresso si trova sempre in istato di legittima difesa ed ha sempre il pieno diritto di ribellarsi senza aspettare che lo si prenda a fucilate; e sappiamo benissimo che spesso l’attacco è il più valido mezzo dì difesa. Ma qui vi è di mezzo una questione di sentimento – e per me il sentimento conta più di tutti i ragionamenti. (“Fede”, 28 ottobre 1923).

Da quanto detto prima, considerando l’insieme delle riflessioni avanzate, può sembrare che io voglia sostenere una mia personale predilezione per la violenza. L’oppresso – e sono le precise parole di Malatesta –  proprio perché tale si trova sempre in stato di legittima difesa, in altri termini egli è legittimato moralmente a ribellarsi, e ciò senza che dall’altra parte la repressione venga portata all’estremo, faccia cioè diventare intollerabile la situazione oggettiva in cui l’oppresso vive. Questo punto è importante. Esso getta una luce consistente sulla decisione del ribelle di attaccare il nemico che lo reprime. Non è indispensabile che egli venga a trovarsi con l’acqua alla gola, cioè che venga preso a fucilate. Ma allora cos’è necessario? La risposta è ovvia, è necessario che egli faccia propria la coscienza della situazione in cui si trova, cioè acquisisca la capacità di leggere tra le righe ideologiche che il potere mette in essere per imbrogliare prima ancora di opprimere o di sopprimere. Per cui, più questo approfondimento si sviluppa, più penetra nelle linee interessate del repressore di turno, e più la ribellione scatta pur nell’apparente condizione di tollerabilità repressiva messa in atto dal potere. D’altro canto abbiamo spesso notato come la coscienza rivoluzionaria man mano che si sviluppa ha come scopo quello di attaccare il nemico che con la propria azione repressiva l’ha fatta venire alla luce, non arrivando alla determinazione di questo attacco essa finisce, prima o poi, per mordere se stessa. A volte ciò può portare a un estremismo muscolare che ritiene tutto riconducibile a una questione di forza militare. Chi cade in questo equivoco accetta come terreno dello scontro di classe l’elemento che di solito è privilegiato proprio dal potere. Un allargarsi dell’intervento violento, in condizioni che non sono rivoluzionarie, produce una chiusura del mondo in cui agisce il ribelle e un esacerbarsi della specializzazione degli interventi. Questi due orientamenti sono in breve captati dal potere che sa benissimo come intervenire. L’intensificarsi delle azioni violente realizzate da una minoranza di ribelli non corrisponde necessariamente a un allargarsi del processo di ribellione, quest’ultimo aspetto è legato ad altre condizioni, la maggior parte di natura economica che la ribellione può solo sottolineare ma non promuovere. Ci possiamo quindi trovare di fronte a un progressivo isolamento della ribellione e al presentarsi della necessità di un autoriconoscimento. In altre parole le azioni di attacco vengono intensificate per continuare a esistere come entità di ribellione munita di una certa coscienza rivoluzionaria e di un progetto più o meno specificato nei suoi dettagli. Continuando in questa direttrice si scappa via per la tangente, la realtà sfugge completamente di mano e la visione specialistica tende a riprodursi nella propria ottica militarista. Se l’oppresso è sempre in diritto di ribellarsi, la coscienza rivoluzionaria necessaria perché questa ribellione diventi fatto concreto lo deve assistere fino in fondo, cioè deve anche indicare i limiti e la significatività delle azioni che intraprende.

Gli anarchici non hanno ipocrisia. La forza bisogna re­spingerla colla forza: oggi contro le oppressioni di oggi; do­mani contro le oppressioni che potrebbero tentare di sosti­tuirsi a quelle di oggi. (“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924).

Malatesta non si illude che a fare la rivoluzione siano gli anarchici da soli, che la prossima rivoluzione sarà quella definitiva, quella sociale, quella anarchica. Sa che potrebbe quasi sicuramente essere indispensabile tornare a battersi contro i futuri oppressori. Oggi noi sappiamo che questa prospettiva è molto fondata, proprio perché molti si illudono di potere utilizzare, in maniera diversa beninteso, le forze produttive del capitale, cosa di cui dubitiamo fortemente. Ne segue che molti cosiddetti rivoluzionari, rispolverata la loro vocazione repressiva, cercheranno di gestire la cosa pubblica in nome dei propri interessi e delle proprie ideologie. Contro costoro la lotta non potrà che essere la continuazione di questa precedente, altrettanto feroce e difficile. Molti hanno concluso da questa prospettiva che essendo gli anarchici, più o meno, la voce nel deserto, tanto vale che si dedichino a questo compito, quello di fare da Cassandra, senza mettere troppo le mani nel fango delle cose concrete, degli attacchi distruttivi da realizzare a cominciare da oggi e non da rinviare a domani, tanto prima o poi sarebbero costretti a riprendere l’analisi critica dei risultati raggiunti e a ricucire l’organizzazione di lotta precedente. In altre parole, non potendo plausibilmente la propria rivoluzione (qui ragioniamo all’in grande) essere quella buona è necessario tenersi alla larga in attesa di sottolineare con la matita rossa e blu gli (inevitabili) errori degli altri. Se questo vale per la “rivoluzione”, pensate per le lotte parziali, per le cosiddette “lotte intermedie”, pensate per ogni singola insurrezione che non può fare a meno di cominciare in un punto qualsiasi dello scontro di classe.

[A proposito dei fatti del Diana] io dissi che quegli assassini sono anche dei santi e degli eroi; e contro questa affermazione protestano quei miei amici, in omaggio a quelli che essi chiamano gli eroi ed i santi veri che, a quanto pare, non si sbagliano mai. Io non posso che confermare quello che dissiBasta con le sottigliezze. L’importante è di non confondere il fatto con le inten­zioni, e nel condannare il fatto cattivo non trascurare di ren­dere giustizia alle buone intenzioni. E questo non solo per rispetto alla verità, non solo per pietà umana, ma anche per ragioni di propaganda, per gli effetti pratici che il nostro giu­dizio può produrre. Vi sono, ci saranno sempre fino a che dureranno le con­dizioni presenti e l’ambiente di violenza in cui viviamo, degli uomini generosi, ribelli, super sensibili, ma privi di riflessione sufficiente, che in date circostanze sono soggetti a lasciarsi tra­scinare dalla passione e a colpire alla cieca. Se noi non rico­nosciamo altamente la bontà delle loro intenzioni, se non di­stinguiamo l’errore dalla cattiveria, noi perdiamo ogni presa morale su di loro e li abbandoniamo ai loro ciechi impulsi. Se invece rendiamo omaggio alla loro bontà, al loro coraggio, al loro spirito di sacrifizio, noi possiamo per la via del cuore ar­rivare alla loro intelligenza, e fare in modo che quei tesori di energia che sono in loro sieno adoperati in pro della causa in modo intelligente, buono ed utile. (“Umanità Nova”, 24 dicembre 1921).

Il ribelle insorge e indirizzando il colpo contro il nemico abbatte degli innocenti. È accaduto al teatro Diana nel 1921 ma io ho in mente adesso l’attacco di Gianfranco Bertoli contro la questura di Milano in via Fatebenefratelli e ai morti che la sua bomba straziò sul selciato. Il discorso di Malatesta è pacato ma deciso, è un discorso responsabile senza cadere nell’isteria. Mette l’attenzione sui compagni autori del fatto, li conosce, sa che sono bravi compagni e che si sono sbagliati. Sa che può capitare di commettere un errore. Bertoli lancia la sua bomba dentro il portone della questura ma un poliziotto la respinge con un calcio e questa scoppia fra la gente che davanti aspettava di entrare per delle pratiche amministrative. A suo tempo – non conoscendo Bertoli e analizzando la sua autobiografia pubblicata da “Gente” – io stesso avevo definito condannabile la sua azione perché non c’era modo di individuare nella storia della sua vita le caratteristiche di un individualista stirneriano, come sembrava che lui stesso si dichiarasse. Solo quasi trent’anni dopo ho potuto correggere il mio errore quando, entrato in contatto epistolare con lui, ho potuto conoscerlo meglio e vedere le qualità del compagno che non apparivano invece dallo scritto autobiografico di trent’anni prima. Malatesta ha la conoscenza opportuna, sa che Mariani, Aguggini e gli altri sono compagni conosciuti e affidabili, quindi sa di trovarsi di fronte a un deprecabile errore, e affronta questo delicato argomento. Lamenta e si addolora per i morti ma anche lamenta e si addolora per la sorte dei compagni, per la responsabilità che si sono assunti e che del resto sono pronti a sostenere pagando di fronte alla cosiddetta giustizia. Quello che conta, egli dice, sono le intenzioni. Ma le intenzioni non erano pavimento dell’inferno? Certo, è proprio questo che afferma la morale borghese, sempre pronta a saltare addosso agli effetti, a vedere i risultati, a collocare il proprio giudizio sul metro economicistico. Questa coloritura morale la ritroviamo qualche volta fra gli anarchici stessi, i quali hanno chiesto, a Mariani, a Bertoli: “A chi può giovare questo tipo di azione?”. Soltanto alla repressione. Ecco la risposta. E da lì la conclusione dilaga senza più ritegno. È sempre la repressione che si giova di ogni azione che intende attaccare il nemico, che intende fare sentire un po’ più da vicino alle sue orecchie il gesto non proprio amichevole del ribelle. Quante sono le dichiarazione di estraneità che puntualmente si presentano di fronte a qualche avvenimento che esce appena dalle righe dell’ortodossia opinionista. Contarle non interessa nessuno. Esse sono segno di sottigliezza politica di sicuro, ma anche di miopia morale. Malatesta invece corre il rischio di scendere all’inferno e parla delle intenzioni. Sa che queste non salvano della responsabilità (morale) gli assassini – perché di assassinii si tratta – ma sa anche che tacere, o peggio ancora accodarsi alle reprimenda dei tartufi, negherebbe lo stesso principio propagandistico dell’anarchia militante, tutti gli sforzi che giornalmente facciamo per convincere la gente della necessità di ribellarsi e di attaccare il nemico che opprime e che sfrutta.

McKinley, il capo dell’oligarchia nord-americana, lo strumento e difensore dei grandi capitalisti, il traditore dei Cubani e dei Filippini, l’uomo che autorizzò il massacro dei scioperanti di Hazleton, le torture dei minatori dell’Idaho e le mille infamie che ogni giorno si commettono contro i lavoratori nella “repubblica modello”, colui che incarnava la politica militarista, conquistatrice, imperialistica in cui si è lanciata la grassa borghesia americana, è caduto vittima della rivoltella di un anarchico.

Di che volete che noi ci affliggiamo, quando non fosse per la sorte riserbata al generoso che, opportunamente o inopportunamente, con buona o cattiva tattica, ha dato se stesso in olocausto alla causa dell’uguaglianza e della libertà?

Lo ripetiamo in questa, come in tutte le occorrenze analoghe: poiché la violenza ci circonda da tutte le parti, noi, continuando a lottare serenamente perché finisca questa orribile necessità di dover rispondere colla violenza alla violenza, pur augurandoci che venga presto il giorno in cui gli antagonismi d’interessi e di passioni tra gli uomini si potranno risolvere con mezzi umani e civili, serbiamo le nostre lacrime ed i nostri fiori per altre vittime che non siano questi uomini i quali, mettendosi alla testa delle classi sfruttatrici ed opprimenti, assumono la responsabilità ed affrontano i rischi della loro posizione.

Eppure si son trovati degli anarchici che han creduto utile e bello l’insultare all’oppresso che si ribella, senza avere una parola di riprovazione per l’oppressore che ha pagato il fio dei delitti che aveva commesso o lasciato commettere!

È aberrazione, è desio malsano di avere l’approvazione degli avversari, o è malaccorta “abilità” che vorrebbe conquistare la libertà di propagare le proprie idee, rinunziando spontaneamente al diritto di esprimere il vero e profondo sentimento dell’animo, anzi falsificando questo sentimento fingendosi diversi da quello che si è?

Lo faccio con rincrescimento, ma non posso esimermi dal manifestare il dolore e l’indignazione che han  prodotto in me e in quanti compagni ho avuto occasione di vedere in questi giorni, le inconsulte parole che L’Agitazione ha dedicato all’attentato di Buffalo.

«Czolgosz è un incosciente!» – Ma lo conoscono essi? – «Il suo atto è un reato comune che non ha nessuno dei caratteri indispensabili perché un atto consimile possa ritenersi politico»!

Credo che nessun pubblico accusatore, regio o repubblicano, oserebbe sostenere altrettanto. Infatti, v’è forse qualche motivo per giudicare Czolgosz animato da interessi o rancori personali?… Già, è improprio parlare di delitto in casi simili. Il codice lo fa, ma il codice è fatto contro di noi, contro gli oppressi, e non può servire di criterio ai nostri giudizi.

Questi sono atti di guerra; e se la guerra è delitto, lo è per chi in essa sta dalla parte dell’ingiustizia e dell’oppressione. Possono essere, sono, delinquenti gl’Inglesi invasori del Transwaal; non lo sono i Boeri, quando difendono la lor libertà, anche se la difesa fosse senza speranza di riuscita.

«L’atto di Czolgosz (potrebbe rispondere L’Agitazione) non ha avanzato per nulla la causa del proletariato e della rivoluzione; a McKinley succede il suo pari Roosevelt e tutto resta nello stato di prima, salvo che la posizione è diventata un poco più difficile per gli anarchici». E può darsi che L’Agitazione avrebbe ragione: anzi, nell’ambiente americano, per quanto io ne sappia, mi pare probabile che sia così.

Ciò vuol dire che in guerra ci sono le mosse indovinate e quelle sbagliate, ci sono i combattenti accorti e quelli che, lasciandosi trasportare dall’entusiasmo, si offrono facile bersaglio al nemico e magari compromettono la posizione dei compagni; ciò vuol dire che ciascuno deve consigliare e difendere e praticare quella tattica che crede più atta a raggiungere la vittoria nel più breve tempo e col meno di sacrifizi possibile; ma non può alterare il fatto fondamentale, evidente che chi combatte, bene o male, contro il nostro nemico e cogli stessi intenti nostri, sia nostro amico ed abbia diritto, non certo alla nostra incondizionata approvazione, ma alla nostra cordiale simpatia.

Che l’unità combattente sia una collettività o un individuo solo non può cambiar nulla all’aspetto morale della questione. Una insurrezione armata fatta inopportunamente può produrre un danno reale o apparente alla guerra sociale che noi combattiamo, come lo fa un attentato individuale che urta il sentimento popolare; ma se l’insurrezione è fatta per conquistare la libertà, nessun anarchico le negherà la sua simpatia, nessuno soprattutto oserà negare il carattere di combattenti politico-sociali agli insorti vinti. Perché dovrebbe essere diversamente se l’insorto è uno solo?

L’Agitazione ha ben detto che gli scioperanti han sempre ragione, ed ha detto bene, quantunque sia evidente che non tutti gli scioperi siano consigliabili, perché uno sciopero non riuscito può, in date circostanze, produrre scoraggiamento e dispersione delle forze operaie. Perché quello che è vero nella lotta economica contro i padroni non lo sarebbe nella lotta politica contro i governanti, che col fucile del soldato e le manette dei gendarmi vogliono asservirci a loro stessi ed ai capitalisti?

Qui non si tratta di discutere di tattica. Se si trattasse di questo io direi che in linea generale preferisco l’azione collettiva a quella individuale, anche perché sull’azione collettiva, che richiede qualità medie abbastanza comuni, si può fare più o meno assegnamento, mentre non si può contare sull’eroismo, eccezionale e di natura sua sporadica, che richiede il sacrificio individuale. Si tratta ora di una questione più alta: si tratta dello spirito rivoluzionario, si tratta di quel sentimento quasi istintivo di odio contro l’oppressione, senza del quale non conta nulla la lettera morta dei programmi, per quanto libertari siano gli affermati propositi; si tratta di quello spirito di combattività, senza di cui anche gli anarchici si addomesticano e vanno a finire, per una via o per l’altra, nel pantano del legalitarismo…

…È stolto, per salvare la vita, distruggere le ragioni del vivere. A che possono servire le organizzazioni rivoluzionarie, se si lascia morire lo spirito rivoluzionario? A che la libertà di propaganda, se non si propaga più quel che si pensa? (“L’Agitazione”, 22 settembre 1901)

Rispondendo a Luigi Fabbri che aveva definito l’uccisione del presidente americano atto inqualificabile e malgesto di incosciente, si preoccupa prima di tutto di affermare con fermezza la legittimità di qualsiasi attacco contro l’oppressore. È proprio all’anarchico attentatore che pensa, non alle conseguenze repressive che l’atto in questione avrebbe inevitabilmente scatenato. Non prende le distanze, ma si schiera subito a fianco del ribelle. Si fa sostenitore della violenza perché la violenza possa finire al più presto, perché possa finire la necessità di rispondere alla violenza con la violenza. Lamenta che anarchici hanno potuto insultare l’oppresso che si ribella e definisce questo atteggiamento come malsano desiderio di avere l’applauso degli avversari. Ecco un punto su cui bisognerebbe fermare la nostra riflessione. Non c’è condivisione possibile da parte del nemico in questa guerra di classe, non ci sono né regole, né onore delle armi, forse più feroce della stessa repressione materiale è quella che si attua facendo ricorso alle menzogne, alla disinformazione, alle calunnie. Il nemico attacca mettendoci “fuori legge” (preventivamente) e “fuori logica” (successivamente). Afferma che ogni ribellione alle autorità costituite è un andare contro leggi fatte apposta per garantire la convivenza comune, non capisce come tutto questo possa accadere, come ci possano essere persone che non condividano il migliore dei mondi possibili, comunque l’unico mondo perfettibile attraverso le riforme e i miglioramenti. Il fatto è che la logica della ribellione non gli appartiene, è faccenda del tutto incomprensibile per lui, e di questo bisogna farsene una ragione. Non possiamo attaccarlo e pretendere che il potere condivida le regole di questo attacco, anche perché si tratta di un attacco che segue regole diverse da quelle che sostengono i processi della violenza oppressiva. Se ci convinciamo di ciò finiamo per renderci conto che le nostre azioni di attacco contro il potere sono “illogiche”. Non ha senso – cioè non ha senso per la logica del potere e dei benpensanti che dal potere vengono pasciuti – che Czolgosz spari a McKinley, se a un qualsiasi McKinley può sempre succedere un Roosevelt. E che questa considerazione venga fatta dal nemico è più che giusto, quello che duole è che spesso viene fatta anche da non pochi compagni. Che senso ha abbattere un traliccio, o milleduecento (quanti negli ultimi quindici anni ne sono stati buttati giù in Italia) se poi l’Enel ne costruisce altrettanti e in fretta? Che senso ha darsi da fare se questo darsi da fare si riduce poi a uno sgonfiare il palloncino del figlio del maresciallo? Per capire quale possa essere il senso dei piccoli attacchi diffusi nel territorio bisogna accettare una logica diversa da quella dei padroni e del potere. Ma accettare una logica diversa spesso fa a pugni con quanto di più connaturato possediamo col nostro modo di essere, cioè col nostro modo di pensare. Noi siamo quello che pensiamo e pensiamo quello che siamo. Possiamo di certo pensare qualcosa che mai faremmo o saremmo, ma questo pensiero non alberga a lungo nella nostra mente, come fantasia del sabato sera svanisce alle prime luci del lunedì. Malatesta parla di combattenti accorti e meno accorti, di quelli che frenano il proprio entusiasmo e di quelli che da questo si lasciano trascinare, ma non si accorge che la valutazione è fatta dall’interno di una misura che non ci appartiene. Quando ci muoviamo nell’azione che cerca di avvicinarsi quanto più possibile al nemico per inquietarlo nelle sue certezze, ogni calcolo di convenienza, ogni valutazione tattica, ogni conoscenza tecnica e ogni approfondimento teorico possono assisterci, possono stare tutti al nostro fianco e illuminarci la strada, ma l’ultimo tratto, quello che solleva l’animo dagli indugi finali, che tutto stringe nell’attimo in cui si supera la propria frattura morale, lo dobbiamo fare da soli. Qui ognuno è solo con la propria coerenza morale, con la propria coscienza rivoluzionaria, con il proprio desiderio di farla finita con l’oppressione e lo sfruttamento. Che importa se dall’azione viene fuori un gesto approssimativo, qualcosa che la luce logica dell’abbagliante non contraddittorietà valuterà un “malgesto di incosciente”, siamo noi che quell’azione abbiamo fatto, siamo noi che abbiamo preso la responsabilità non solo dell’azione in se stessa ma anche di tutte le valutazioni di convenienza, di tattica, ecc. E siamo noi che abbiamo deciso di portarla a compimento. La nostra azione, in fondo, siamo noi stessi.