Malatesta
e il concetto di violenza rivoluzionaria
di
Alfredo Bonanno
Non
sono uno storico e quindi non parlerò da storico. Il mio interesse
per Malatesta risale a più di trent’anni fa, quando curai
l’edizione annotata de L’anarchia. La lettura degli scritti più noti di Malatesta e
dell’antologia curata da Richards aveva sollecitato la mia
attenzione. In particolare mi ero trovato, con stupore, di fronte a
un anarchico che non faceva ricorso da un lato al buon senso
accomodante di chi vuole farsi capire dalle masse, dall’altro lato
al reboante linguaggio di chi sente ma non ammette l’influsso
delle avanguardie letterarie e filosofiche. Malatesta mi dette
l’impressione di un uomo informato e privo dell’intenzione
spesso proterva di impressionare l’ascoltatore. Ma più di tutto
mi impressionò il suo linguaggio. Semplice ed efficace. Il suo
ragionare pacato ma stringente. Di fronte a un Galleani che riempiva
di suoni ricercati le mie orecchie o di uno Schicchi che faceva
ricorso a effetti retorici di cui non sentivo bisogno, Malatesta
appariva un uomo concreto, un rivoluzionario che voleva distruggere
ma anche costruire, che possedeva una considerevole cultura ma non
voleva mostrarla senza che ce ne fosse bisogno.
Approfondendo la lettura dei suoi scritti mi venne
opportuno riflettere sui processi che conducono alla costruzione di
un leader. Niente in Malatesta sollecitava a questa infausta
designazione, eppure il comportamento dei compagni, più ancora di
quello dei suoi avversari, lo chiudevano in questa disagevole
armatura. Mi ricordo che in qualche posto ho letto di un Lenin
d’Italia, ma la memoria potrebbe farmi difetto, quindi non
sottolineo qui l’increscioso parallelo, però mi torna l’obbligo
di sottolineare che perfino nel manifesto redatto per pubblicizzare
il presente Convegno sta scritto che Malatesta “fu uno dei
rivoluzionari più famosi del suo tempo”, come se la cosa possa
interessare a chi oggi (ma anche all’epoca) volesse accostarsi
alla sua opera. La fama è faccenda del potere, è costruita e
utilizzata da quest’ultimo, il nostro compito – almeno così mi
pare – accostandoci a un compagno, quale esso sia, più o meno di
tanti altri egli abbia “fatto” o “pensato” (interessante
questa differenza, se esiste, ma non chiara), non è certo quello di
partire dalla sua fama, che dovremmo lasciare agli articoli
abborracciati dai
giornali, ai libri di storia diretti a confermare la supremazia dei
vincitori, ai dossier della polizia. Il fatto è che molti di noi,
non dico tutti, hanno bisogno di un leader, sentono come non del
tutto cancellato l’antico spirito gregario, si sottomettono al
giudizio di chi guarda più lontano, per poi magari saltargli
addosso al primo cambiamento del vento. È quasi certo che la
rivoluzione non si farà se prima non si saranno fatti i
rivoluzionari.
Le riflessioni che seguiranno saranno dettate
da alcuni passi degli scritti di Malatesta. Ho scelto questi passi
secondo un criterio di comodo, nel senso che ho preferito prendere
in considerazione quelli più chiari riguardo l’indispensabilità
della violenza rivoluzionaria, le caratteristiche di questo tipo di
violenza e il suo fondamento morale. Trattandosi di problemi di
grande importanza molti potranno sottolineare l’illegittimità di
questo metodo. Che senso ha – sento di già dire – estrapolare
alcuni pensieri di Malatesta traendoli fuori dal loro contesto
storico e perfino redazionale o linguistico per prenderli in
considerazione come se potessero pretendere a una vita autonoma,
gemme isolate capaci di splendere senza ulteriori supporti o
incastonature. Il fatto è che ho sempre ritenuto che questa
obiezione e il metodo che sta alla sua base e che la giustifica sono
fondate quando ci si trova davanti a un teorico che sviluppa il suo
pensiero in modo organico e progressivo e a questo si limita,
lasciando che tutto quello che ha da dire (e da fare) si raggrumi
nella propria produzione teorica. Ma per un rivoluzionario la
faccenda è diversa. Quando Malatesta scriveva qualcosa si rivolgeva
a un referente preciso che grosso modo possiamo considerare come il
movimento rivoluzionario anarchico del suo tempo. Non scriveva per
approfondire il proprio pensiero o per renderlo ancora più completo
ed esauriente. Non pretendeva partire da quello che aveva detto in
qualche altro momento (in un prima ipoteticamente fissato
all’interno del processo storico) per arrivare a qualcosa che
avrebbe detto in un momento successivo (anche questo fissato in un
futuro più o meno a breve o a media scadenza). Ogni suo pensiero
era fruito direttamente, immediatamente dai compagni che lo
ascoltavano, lo leggevano o comunque ne venivano a conoscenza. E
questo pensiero, isolatamente considerato, agiva sulle coscienze di
quei compagni, i quali usufruivano di quei contenuti facendoli
propri e quindi mettendoli in grado di agire all’interno della
propria visione della vita, rendendoli sangue del proprio sangue,
pulsione dei propri desideri, anima dei progetti in corso di
realizzazione. Nessuno di loro si chiedeva in che modo e dentro
quali limiti quel pensiero si collegasse con quanto Malatesta aveva
detto in un certo suo scritto o discorso o articolo e così via.
Quando Camille Desmoulins sale su di un sedia e
infiamma la piazza contro la monarchia, sono le sue parole che hanno
presa sulla folla, che incitano alla conquista e alla distruzione
della Bastiglia, non quello che lui aveva detto in cento altre
occasioni o quello che dirà dopo. Quando Saint-Just pronuncia le
parole “Luigi contro di noi” sono proprio queste quattro parole
che segnano la fine del re e della monarchia, non le teorie del
giacobino sui destini morali della rivoluzione borghese.
Capisco che questo ragionamento può non essere
condiviso, ma è proprio qui che occorre riflettere bene se non si
vuole ridurre ogni occasione come questa a un vuoto e superfluo
dibattersi di giudizi storicamente datati o vagamente considerati
come strumenti per ammaestrare la vita. Noi anarchici non abbiamo
necessità che i rivoluzionari del passato, e Malatesta in primo
luogo, ci parlino attraverso la massiccia e organicamente ben
definita globalità del loro pensiero. Lasciamo che di questo
aspetto si prendano cura gli storici di professione, amanti del
dettaglio e nel dettaglio pronti a morire affogati. Lasciamo che la
singola parola risuoni nel nostro cuore con la stessa viva risonanza
con cui risuonava nel cuore di chi quella parola scriveva o di chi
l’ascoltava o la leggeva. Lasciamo che siano i nostri desideri (e
i nostri bisogni di oggi) a servirci da interpreti e non la coltre
culturale che di regola serve a procurare alibi e a spegnere
entusiasmi.
Quello che chiediamo a Malatesta, e a tanti altri
compagni come lui, è una scintilla, una luce improvvisa,
un’occasione per riflettere prima di agire, una piccola aggiunta.
Non chiediamo di ragionare al nostro posto, di costruire per noi un
progetto completo in tutte le sue parti. Non vogliamo che sia il
passato a metterci in grado di capire il presente. Il contributo
della storia è certamente importante ma non è la sua cosa di cui
manchiamo. Spesso più questo contributo tende a ingrandirsi più si
vogliono accumulare altri dati, altre documentazioni, altre
riflessioni, mentre il momento dell’azione si allontana di
conseguenza sempre di più. Il nemico contro cui dobbiamo lottare è
davanti ai nostri occhi, costruisce e progetta le condizioni dello
sfruttamento di oggi e di domani, non si ferma a giustificare lo
sfruttamento di ieri, non frequenta aule universitarie che per
meglio compirci e renderci incapaci di capire i nuovi modelli
repressivi. Se chiedessimo a Malatesta una risposta per ognuno dei
nuovi elementi grazie ai quali sta prendendo forma il nuovo potere,
non si avrebbero risposte utilizzabili. Ma qualcosa possiamo
chiedere, e questo qualcosa, in modo particolare, prende la forma
della riflessione morale.
Ecco perché il concetto di violenza in Malatesta è
stato scelto da me in queste relazione per discuterne assieme a voi,
nel modo più semplice possibile, ma anche nel modo più chiaro.
Gli
anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea centrale
dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla vita
sociale; è l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla
libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme.
Perciò siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi
sulla protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare
dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi ed a
patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli.
Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione
coercitiva, cioè violenta, della società. Ma se un galantuomo dice
che egli crede che sia una cosa stupida e barbara il ragionare a
colpi di bastone e che è ingiusto e malvagio obbligare uno a fare
la volontà di un altro sotto la minaccia della rivoltella, è forse
ragionevole dedurre che quel galantuomo intende farsi bastonare e
sottomettersi alla volontà altrui senza ricorrere ai mezzi più
estremi di difesa? … La
violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere
se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità
comincia il delitto... Lo schiavo è sempre in istato di legittima
difesa e quindi la sua violenza contro il padrone, contro
l’oppressore, è sempre moralmente giustificabile e deve essere
regolata solo dal criterio dell’utilità e dell’economia dello
sforzo umano e delle sofferenze umane. (“Umanità Nova”, 25
agosto 1921).
Sulle prime Malatesta sembra restringere la
giustificazione dell’uso della violenza alla dimensione difensiva.
La sola violenza giustificata è quella con la quale ci si difende
da un sopruso. Ma poi aggiunge: chi si trova in condizioni costanti
di legittima difesa, cioè lo sfruttato, è sempre giustificato ad
attaccare chi lo sfrutta, tenendo conto dell’utilità di questo
attacco e delle sofferenze umane che esso inevitabilmente comporta.
Quindi non sta parlando in astratto della “violenza”, come
purtroppo accade tanto spesso fra i compagni – diatriba che
alimenta tanti degli equivoci del pacifismo – ma parla nella
concretezza di classe della condizione in cui si trovano tutti
coloro che sono legittimati moralmente a usare la violenza. Che poi
quest’uso della violenza vada incontro a una condanna sancita
dalle leggi in vigore, questo non è argomento che può interessare
l’anarchico. Resta la valutazione pratica, l’utilità
dell’azione violenta e le sofferenze che causa. Malatesta non è
un seguace di Mach, però vista c la sua cultura filosofica, e visto
che le idee empiriocriticiste non erano estranee al clima culturale
italiano degli anni Venti, può anche aver tenuto presente questo
riferimento, ma si tratta di una utilità più concreta, non di
quella più generale che veniva suggerita dall’economicismo
filosofico. Purtroppo nessuna azione compiuta dagli sfruttati,
singolarmente o collettivamente considerati, può avere a priori una
garanzia di utilità. Questo metro – e lo stesso Malatesta lo dice
in altri posti quando afferma di preferire chi agisce troppo a
quelli che aspettano e finiscono per non fare nulla – ha una sola
spiegazione. L’azione violenta deve assolvere tutte le condizioni
logiche che la rendono moralmente fondata, ma non può prevedere
tutte le conseguenze del proprio venire in essere. Le condizioni
logiche sono prima di tutto la situazione personale e collettiva di
chi insorge violentemente contro il nemico di classe, poi
l’identificazione quanto più esatta possibile di questo nemico,
la scelta del mezzo da impiegare e lo studio di quanto necessario
per ridurre al minimo quella sofferenza umana che costituiva la
seconda parte delle preoccupazioni di Malatesta. Tutto questo si
chiede a chi agisce, e tutto questo può essere considerato sotto il
senso lato e non specifico di “utilità”. Infatti, solo
rispettando queste condizioni fino in fondo, in altri termini
scegliendo bene gli obiettivi e i mezzi, facendo attenzione anche ai
minimi particolari che potrebbero determinare un eccesso di
sofferenza imputabile a trascuratezza o superficialità, l’azione
può essere letta come risposta alla repressione e allo sfruttamento
e non abbisognare di giustificazioni posteriori sempre spiacevoli e
spesso incomprensibili per la gente. Non è certo poco importante
che spesso alcune azioni di attacco hanno necessità di una
spiegazione. I realizzatori stessi se ne rendono conto e
suggeriscono questa spiegazione in quella che comunemente si è
convenuto chiamare “rivendicazione”. Purtroppo, quasi sempre,
queste rivendicazioni – salvo casi esemplari – sono
incomprensibili ai più, dannose per ogni chiarificazione
dell’azione stessa, indicanti la poca chiarezza delle idee di chi
le ha scritte e altre cose ancora. La leggerezza di mano non è
quasi mai presente in questi documenti che confermano il fatto che
l’azione non riesce a parlare da per se stessa. Questa difficoltà
dell’azione di cui discuto qui è imputabile a una carenza
analitica nella scelta dell’obiettivo, dei mezzi per raggiungerlo,
ecc., in una parola denuncia una carenza di ordine morale. Chi ha
chiare le cose da fare non possiede questa lungimirante acutezza di
vista per dono del caso ma solo perché ha valutato tutte le
possibilità che umanamente era possibile valutare. Anche in questa
eventualità le cose possono andare storte, ma si tratta di un
rischio che dobbiamo correre se vogliamo agire.
Vi sono
certamente altri uomini, altri partiti, altre scuole tanto
sinceramente devoti al bene generale quanto possono esserlo i
migliori tra noi. Ma ciò che distingue gli anarchici da tutti gli
altri si è appunto l’orrore della violenza, il desiderio ed il
proposito di eliminare la violenza, cioè la forza materiale,
dalle competenze tra gli uomini. Si potrebbe dire perciò che
l’idea specifica che distingue gli anarchici è l’abolizione del
gendarme, l’esclusione dai fattori sociali della regola imposta
mediante la forza brutale, legale o illegale che sia. Ma allora,
si potrà domandare, perché nella lotta attuale contro le
istituzioni politico-sociali, che giudicano oppressive, gli
anarchici hanno predicato e praticato, e predicano e praticano,
quando possono, l’uso dei mezzi violenti che pur sono in evidente
contraddizione coi fini loro? E questo al punto che, in certi
momenti, molti avversari in buona fede han creduto, e tutti quelli
in mala fede han finto di credere che il carattere specifico
dell’anarchismo fosse proprio la violenza? La domanda può
sembrare imbarazzante, ma vi si può rispondere in poche parole. Gli
è che perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano
la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza
obbligare l’altro a lavorare per lui ed a servirlo, l’altro se
vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più
abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il
buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi
adeguati. (“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924).
Ancora una volta Malatesta ci conduce lontano dalla
diatriba teorica sulla violenza o sulla non violenza. Gli anarchici
sono per l’eliminazione della forza bruta nei rapporti sociali, ma
nelle condizioni presenti della lotta predicano e praticano, quando
possono, l’uso di mezzi violenti. Ciò non accadeva solo ai tempi
di Malatesta ma anche oggi. Anche oggi gli anarchici sostengono la
necessità dell’uso della violenza per attaccare il nemico che
opprime e reprime. Perché due vivano in pace occorre che siano
disposti reciprocamente a rispettare la pace. Oggi il potere ha
perfezionato gli apparati ideologici e propagandistici attraverso i
quali diffonde l’idea di pace mentre, nella sostanza, pratica e
prepara la guerra. Oggi, meno chiaramente che ai tempi di Malatesta,
occorre fare uno sforzo di penetrazione analitica per entrare dentro
questi meccanismi di copertura che ci tengono sotto controllo, che
ci numerano, registrano, amministrano, soffocano. Che l’oppressore
parli di pace non vuol dire che sia veramente portatore di pace.
Questo gli anarchici lo sanno, ma non sempre risulta loro facile
compiere il passo successivo, quello dell’azione violenta,
dell’attacco. Giustamente Malatesta parla di “dignità di
uomo”, ed è proprio questo che spinge molti a ribellarsi, e la
risposta è a volte talmente incontrollata che diventa
incomprensibile per molti. Ma non bisogna fermarsi agli aspetti
esteriori, bisogna andare dentro i fatti e persino dentro quegli
attacchi che non potendo raggiungere l’osso si fermano a scalfire
la pelle, che non potendo colpire fino in fondo si limitano a
intaccare i simboli. La ricerca dei mezzi “adeguati” di cui
parlava Malatesta non è sempre possibile, molto più spesso il
sangue agli occhi sale prima che il cervello risponda alle domande
della mente. Perché condannare queste espressioni di violenza
contro i simboli del potere? Potrebbero essere fine a se stessi e
quindi tornare rapidamente in quelle vaste aree del recupero che
sono accuratamente sovvenzionate dal potere. Ma potrebbero andare
oltre. Alla larga dai manutengoli.
La lotta contro
il governo si risolve, in ultima analisi, in lotta fisica,
materiale. Il governo fa la legge. Esso dunque deve avere una forza
materiale (esercito e polizia) per imporre la legge, poiché
altrimenti non vi ubbidirebbe che chi vuole ed essa non sarebbe
più legge, ma una semplice proposta che ciascuno è libero di
accettare e di respingere. Ed i governi questa forza l’hanno, e se
ne servono per potere con leggi fortificare il loro dominio e fare
gl’interessi delle classi privilegiate, opprimendo e sfruttando
i lavoratori. Limite all’oppressione del governo è la forza che
il popolo si mostra capace di opporgli. Vi può essere conflitto
aperto o latente, ma conflitto v’è sempre: poiché il governo non
si arresta innanzi al malcontento ed alla resistenza popolare se
non quando sente il pericolo dell’insurrezione. Quando il popolo
sottostà docilmente alla legge, o la protesta è debole e
platonica, il governo fa i comodi suoi senza curarsi dei bisogni
popolari; quando la protesta diventa viva, insistente, minacciosa,
il governo secondo che è più o meno illuminato, cede o reprime. Ma
sempre si arriva all’insurrezione, perché se il governo non
cede, il popolo finisce col ribellarsi; e se il governo cede il popolo acquista fiducia in sé e pretende sempre di più, fino a che
l’incompatibilità tra la libertà e l’autorità diventa
evidente e scoppia il conflitto violento. È necessario dunque
prepararsi moralmente e materialmente perché allo scoppio della
lotta violenta la vittoria resti al popolo.
(Programma Anarchico, Bologna, luglio 1920. “Umanità Nova”, 12
agosto 1920).
Lo scontro, precisa Malatesta, è qualcosa di fisico,
di concreto, di materiale. Non si tratta di un confronto di idee,
non si tratta di fare conoscere quali sono le interpretazioni della
vita che reggono le basi della cultura anarchica e libertaria.
Questo punto di partenza è certo importante, diffonde una
concezione non violenta, pluralista, contraria all’autorità e al
dominio, ma è solo l’anticamera di qualcosa che sta oltre. Il
progetto del potere è quello di imporre le sue condizioni, non si
limita soltanto a illustrarcele, fa vedere concretamente come chi
non accetta le regole imposte è considerato “fuorilegge” e
colpito con sanzioni più o meno serie, comunque in grado di mettere
paura e di convincere la gente all’obbedienza. La risposta degli
oppressi può essere più o meno forte, più o meno organizzata, e
in questo suo disporsi secondo variazioni molteplici e differenziate
si contrappone alle modificazioni che il potere produce sia
nell’oppressione e nel controllo come nelle libertà parziali che
è comunque costretto a concedere. Malatesta credeva, ai suoi tempi,
che il movimento verso l’insurrezione è processo quasi
inevitabile causato dalla contraddizione tra quello che il potere è
disposto a concedere e quello che gli oppressi sono disposti a
sopportare. Questa analisi risentiva di una considerazione delle
contraddizioni sociali mutuata dall’hegelismo marxista, oggi
vediamo molto meglio che le cose non stanno così. Le capacità di
recupero del capitale sono sempre imprevedibili e dipendono dalla
potenza delle nuove tecnologie, il potere gestisce con maggiore
facilità le contraddizioni e non sembra che tra queste se ne possa
individuare una più consistente delle altre da indicare come
insuperabile. Il movimento insurrezionale viene di certo alimentato
dalla radicale incompatibilità tra autorità e libertà, ma per
realizzarsi occorre una preparazione pratica che possa partire da
condizioni contraddittorie parziali, a volte anche minime,
sicuramente sanabili dal nemico, ma che possono essere momenti
insurrezionali per procedere verso la rivoluzione. Fra le righe
Malatesta mette l’accento sulla preparazione dell’insurrezione e
lo colloca su due aspetti: la preparazione morale e quella
materiale. Ora non c’è dubbio che se la prima è conseguenza di
una crescita della coscienza rivoluzionaria, la seconda non può
essere altro che l’apprestamento di una pratica insurrezionale che
nasce e si acquisisce col tempo nella lotta quotidiana e non
nell’attesa di un’apocalittica e improbabile resa dei conti.
Occorre sbarazzare il campo dall’iconografia che vuole
l’insurrezione una faccenda di barricate e di lotta di grandi
masse decise ad arrivare alla resa dei conti. Anche i piccoli
movimenti locali possono assumere connotazioni insurrezionali, anche
le lotte intermedie, se le condizioni in cui prendono corpo sono
quelle dell’autonomia dalle forze politiche, della conflittualità
permanente e dell’attacco.
Questa
rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la
violenza sia per sé stessa un male. Deve essere violenta perché
sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il
danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a
rinunciarvi volontariamente. Deve essere violenta perché la
transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine
alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa
degli uomini. (“Umanità Nova”, 12 agosto 1920).
La strada verso la libertà non può essere percorsa
in carrozza, occorre rendersi conto che si tratta di un percorso
sanguinoso e difficile, capace di turbare i sogni di coloro che pur
aspirando alla giustizia e all’uguaglianza vorrebbero che queste
dee scendessero dall’Olimpo senza far troppo baccano. Malatesta è
un rivoluzionario e non ha motivo di alimentare queste illusioni. Sa
che la violenza è dolorosa ma sa anche che è necessaria. Ma non è
questo il punto esatto in cui si dovrebbe porre l’attenzione oggi.
Nella frase in questione c’è il concetto di “violenza
transitoria”, cioè di una risposta radicale e estrema, ma
limitata nel tempo, alla regola dei dominatori che pretende
governare per sempre. Ciò lascia intendere l’ipotesi di un
“passaggio”. I mezzi di produzione dalle mani dei pochi
sfruttatori andranno nella mani di tutti per l’abolizione di ogni
sfruttamento. Purtroppo oggi non si è più in una condizione
sociale così netta e apparentemente (ma solo apparentemente) facile
da capire. Le attuali condizioni produttive non consentono un
utilizzo rivoluzionario diretto, cioè non è più possibile
impiegare in modo diverso i mezzi di produzione una volta avvenuto
l’evento espropriativo. La tecnologia rende altamente improbabile
un uso finalmente giusto delle risorse che il capitale ha
accumulato. Il livello di distruzione oggi necessario è di certo
molto più grande e profondo di quello che poteva essere ai tempi di
Malatesta. Le difficoltà di svellere abitudini e condizionamenti
sono tantissime e lo stesso processo rieducativo potrebbe richiedere
sforzi e lotte inimmaginabili. Il recupero di nuove forme di
gestione e di amministrazione centralizzate, che potrebbero
presentarsi sotto aspetti e camuffamenti non smascherabili
immediatamente, proporrebbe una “transitorietà” dell’impiego
della violenza con tempi molto lunghi. La coscienza di questo
difficile cammino alimenta tante perplessità e dà spazio alle
riflessioni perbeniste di chi aspetta che le cose si aggiustino
lentamente, senza tendere troppo la corda. Lottare concretamente
contro le forme attuali di questo inglobamento ideologico e
culturale è un processo violento non più rimandabile.
Anche noi
abbiamo l’animo amareggiato da questa necessità di lotta
violenta. Noi che predichiamo l’amore e che combattiamo per
raggiungere uno stato sociale in cui la concordia e l’amore sian
possibili tra gli uomini, soffriamo più di tutti della necessità
in cui siam posti di difenderci colla violenza contro la violenza
delle classi dominanti. Ma rinunziare alla violenza liberatrice
quando essa resta l’unico mezzo che possa metter fine alle
sofferenze diuturne della grande massa degli uomini ed alle stragi
immani che funestano l’umanità sarebbe farsi responsabili degli
odii che si lamentano e dei mali che dall’odio derivano.
(“Umanità Nova,” 27 aprile 1920).
L’autorizzazione morale all’impiego della
violenza rivoluzionaria si trova proprio nella necessità del suo
impiego. Questa necessità trova origine dal pericolo in corso che
miliardi di uomini e donne corrono a causa dell’oppressione e
dello sfruttamento. Se fosse soltanto una scelta tra la pace e la
violenza gli anarchici per primi sceglierebbero la pace, essendo
sostenitori dell’amore e della fratellanza universale. Ma non si
tratta di una scelta. Essi, come tutti coloro che sono animati dalla
volontà di far finire l’odio che strazia l’umanità, sono
obbligati a scegliere la violenza. Certo, i sostenitori
dell’oppressione, coloro che la esercitano direttamente e coloro
che da essa ne traggono beneficio, difficilmente condividerebbero
questa conclusione. Anzi, più si va verso una società capace di
amministrare il dominio attraverso la pace sociale, più ci si
accorge che i discorsi ideologici si fanno sottili, tutti gli
oppressori parlano di pace e di fratellanza, tutti accusano chi
vuole liberarsi dall’oppressione di intolleranza e di violenza (a
questo proposito è stato coniato apposta il concetto spurio di
“terrorismo”). La pressione esercitata sulla formazione pubblica
dell’opinione corrente è tale che molti (la gran massa della
gente) sono seriamente convinti di essere tolleranti anche quando
partecipano nel modo più diretto allo sfruttamento e alla
repressione. La società in cui viviamo, e via via quella che sta
profilandosi sempre più con chiarezza per i prossimi decenni, è
scarsamente definibile con i canoni rigidi della divisione in classi
dell’epoca di Malatesta. Eppure, nonostante queste cresciute
difficoltà, ci si può dire certi che da qualche parte il nemico
continua a costruire i suoi paradigmi di potere, e che milioni di
suoi collaboratori rendono possibile l’applicazione di questi
paradigmi. Colpire queste trame e gli uomini che le realizzano è
proprio trarsi fuori dalla responsabilità che finisce per cadere su
tutti coloro che non attaccando si rendono complici della
realizzazione di quei progetti di potere. Ma perché questa
responsabilità derivante dal non agire, dal lasciare che le cose
continuino ad andare come vanno, quindi di non affrontare fino in
fondo le conseguenze repressive inevitabili di un’azione per forza
di cose violenta, perché mai questa valutazione morale deve
considerarsi autoevidente? Questa domanda è importante. Infatti
può essere benissimo che il proprio modo di non partecipare, di
astenersi (poniamo limitandosi a non votare) possa essere
considerato un modo sufficiente per tagliare il cordone ombelicale
di quella responsabilità. Difatti siamo in questo caso di fronte a
una vera e propria azione positiva diretta a intralciare il
meccanismo repressivo o gestionario che ci sovrasta. Io penso che le
persone devono sentirsi responsabili (non venire giudicati tali da
qualcuno) solo di ciò che sanno. Se qualcuno è veramente convinto
che basta (poniamo) non votare per assolvere al suo crimine
partecipativo nei riguardi delle istituzioni, allora è giusto che
in buona fede si ritenga assolto da qualsiasi responsabilità. Ma
quale persona appena appena informata sulla realtà che tutti ci
ospita può arrivare a queste conclusioni senza ridersi in faccia da
solo? Più egli avanza nella conoscenza della società in cui vive,
più si documenta e si aggiorna, e più il suo cuore insorge contro
i palliativi che la mente raziocinante aveva trovato per mettere a
tacere la coscienza. Solo che spesso i nostri interessi quotidiani:
la famiglia, la carriera, i soldi, ecc., ci fanno velo e gli sforzi
per spostare questo velo non sono quasi mai adeguati alla luce
abbagliante che esso nasconde, alla fine ci convinciamo da soli che
gli unici responsabili dello sfruttamento e dell’oppressione sono
soltanto gli sfruttatori e gli oppressori, e voltandoci dall’altra
parte continuiamo il nostro sonnellino pomeridiano.
Noi siamo per
principio contro la violenza e perciò vorremmo che la lotta
sociale, finché lotta vi sarà, si umanizzasse il più che sia
possibile. Ma ciò non significa punto che noi vorremmo che essa
lotta sia meno energica e meno radicale, ché anzi noi riteniamo che
le mezze misure riescono in conclusione a prolungare
indefinitamente la lotta, a renderla sterile ed a produrre insomma
una più grande quantità di quella violenza che si vorrebbe
evitare. Né significa che noi limitiamo il diritto di difesa alla
resistenza contro l’attentato materiale ed imminente. Per noi
l’oppresso si trova sempre in istato di legittima difesa ed ha
sempre il pieno diritto di ribellarsi senza aspettare che lo si
prenda a fucilate; e sappiamo benissimo che spesso l’attacco è il
più valido mezzo dì difesa. Ma qui vi è di mezzo una questione di
sentimento – e per me il sentimento conta più di tutti i
ragionamenti. (“Fede”, 28 ottobre 1923).
Da quanto detto prima, considerando l’insieme delle
riflessioni avanzate, può sembrare che io voglia sostenere una mia
personale predilezione per la violenza. L’oppresso – e sono le
precise parole di Malatesta –
proprio perché tale si trova sempre in stato di legittima
difesa, in altri termini egli è legittimato moralmente a
ribellarsi, e ciò senza che dall’altra parte la repressione venga
portata all’estremo, faccia cioè diventare intollerabile la
situazione oggettiva in cui l’oppresso vive. Questo punto è
importante. Esso getta una luce consistente sulla decisione del
ribelle di attaccare il nemico che lo reprime. Non è indispensabile
che egli venga a trovarsi con l’acqua alla gola, cioè che venga
preso a fucilate. Ma allora cos’è necessario? La risposta è
ovvia, è necessario che egli faccia propria la coscienza della
situazione in cui si trova, cioè acquisisca la capacità di leggere
tra le righe ideologiche che il potere mette in essere per
imbrogliare prima ancora di opprimere o di sopprimere. Per cui, più
questo approfondimento si sviluppa, più penetra nelle linee
interessate del repressore di turno, e più la ribellione scatta pur
nell’apparente condizione di tollerabilità repressiva messa in
atto dal potere. D’altro canto abbiamo spesso notato come la
coscienza rivoluzionaria man mano che si sviluppa ha come scopo
quello di attaccare il nemico che con la propria azione repressiva
l’ha fatta venire alla luce, non arrivando alla determinazione di
questo attacco essa finisce, prima o poi, per mordere se stessa. A
volte ciò può portare a un estremismo muscolare che ritiene tutto
riconducibile a una questione di forza militare. Chi cade in questo
equivoco accetta come terreno dello scontro di classe l’elemento
che di solito è privilegiato proprio dal potere. Un allargarsi
dell’intervento violento, in condizioni che non sono
rivoluzionarie, produce una chiusura del mondo in cui agisce il
ribelle e un esacerbarsi della specializzazione degli interventi.
Questi due orientamenti sono in breve captati dal potere che sa
benissimo come intervenire. L’intensificarsi delle azioni violente
realizzate da una minoranza di ribelli non corrisponde
necessariamente a un allargarsi del processo di ribellione,
quest’ultimo aspetto è legato ad altre condizioni, la maggior
parte di natura economica che la ribellione può solo sottolineare
ma non promuovere. Ci possiamo quindi trovare di fronte a un
progressivo isolamento della ribellione e al presentarsi della
necessità di un autoriconoscimento. In altre parole le azioni di
attacco vengono intensificate per continuare a esistere come entità
di ribellione munita di una certa coscienza rivoluzionaria e di un
progetto più o meno specificato nei suoi dettagli. Continuando in
questa direttrice si scappa via per la tangente, la realtà sfugge
completamente di mano e la visione specialistica tende a riprodursi
nella propria ottica militarista. Se l’oppresso è sempre in
diritto di ribellarsi, la coscienza rivoluzionaria necessaria
perché questa ribellione diventi fatto concreto lo deve assistere
fino in fondo, cioè deve anche indicare i limiti e la
significatività delle azioni che intraprende.
Gli anarchici
non hanno ipocrisia. La forza bisogna respingerla colla forza:
oggi contro le oppressioni di oggi; domani contro le oppressioni
che potrebbero tentare di sostituirsi a quelle di oggi.
(“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924).
Malatesta non si illude che a fare la rivoluzione
siano gli anarchici da soli, che la prossima rivoluzione sarà
quella definitiva, quella sociale, quella anarchica. Sa che potrebbe
quasi sicuramente essere indispensabile tornare a battersi contro i
futuri oppressori. Oggi noi sappiamo che questa prospettiva è molto
fondata, proprio perché molti si illudono di potere utilizzare, in
maniera diversa beninteso, le forze produttive del capitale, cosa di
cui dubitiamo fortemente. Ne segue che molti cosiddetti
rivoluzionari, rispolverata la loro vocazione repressiva,
cercheranno di gestire la cosa pubblica in nome dei propri interessi
e delle proprie ideologie. Contro costoro la lotta non potrà che
essere la continuazione di questa precedente, altrettanto feroce e
difficile. Molti hanno concluso da questa prospettiva che essendo
gli anarchici, più o meno, la voce nel deserto, tanto vale che si
dedichino a questo compito, quello di fare da Cassandra, senza
mettere troppo le mani nel fango delle cose concrete, degli attacchi
distruttivi da realizzare a cominciare da oggi e non da rinviare a
domani, tanto prima o poi sarebbero costretti a riprendere
l’analisi critica dei risultati raggiunti e a ricucire
l’organizzazione di lotta precedente. In altre parole, non potendo
plausibilmente la propria rivoluzione (qui ragioniamo all’in
grande) essere quella buona è necessario tenersi alla larga in
attesa di sottolineare con la matita rossa e blu gli (inevitabili)
errori degli altri. Se questo vale per la “rivoluzione”, pensate
per le lotte parziali, per le cosiddette “lotte intermedie”,
pensate per ogni singola insurrezione che non può fare a meno di
cominciare in un punto qualsiasi dello scontro di classe.
[A
proposito dei fatti del Diana] io
dissi che quegli assassini sono anche dei santi e degli eroi; e
contro questa affermazione protestano quei miei amici, in omaggio a
quelli che essi chiamano gli eroi ed i santi veri che, a quanto
pare, non si sbagliano mai. Io non posso che confermare quello che
dissi… Basta con le
sottigliezze. L’importante è di non confondere il fatto con le
intenzioni, e nel condannare il fatto cattivo non trascurare di
rendere giustizia alle buone intenzioni. E questo non solo per
rispetto alla verità, non solo per pietà umana, ma anche per
ragioni di propaganda, per gli effetti pratici che il nostro
giudizio può produrre. Vi sono, ci saranno sempre fino a che
dureranno le condizioni presenti e l’ambiente di violenza in cui
viviamo, degli uomini generosi, ribelli, super sensibili, ma privi
di riflessione sufficiente, che in date circostanze sono soggetti a
lasciarsi trascinare dalla passione e a colpire alla cieca. Se noi
non riconosciamo altamente la bontà delle loro intenzioni, se non
distinguiamo l’errore dalla cattiveria, noi perdiamo ogni presa
morale su di loro e li abbandoniamo ai loro ciechi impulsi. Se
invece rendiamo omaggio alla loro bontà, al loro coraggio, al loro
spirito di sacrifizio, noi possiamo per la via del cuore arrivare
alla loro intelligenza, e fare in modo che quei tesori di energia
che sono in loro sieno adoperati in pro della causa in modo
intelligente, buono ed utile. (“Umanità Nova”, 24 dicembre
1921).
Il ribelle insorge e indirizzando il colpo contro il
nemico abbatte degli innocenti. È accaduto al teatro Diana nel 1921
ma io ho in mente adesso l’attacco di Gianfranco Bertoli contro la
questura di Milano in via Fatebenefratelli e ai morti che la sua
bomba straziò sul selciato. Il discorso di Malatesta è pacato ma
deciso, è un discorso responsabile senza cadere nell’isteria.
Mette l’attenzione sui compagni autori del fatto, li conosce, sa
che sono bravi compagni e che si sono sbagliati. Sa che può
capitare di commettere un errore. Bertoli lancia la sua bomba dentro
il portone della questura ma un poliziotto la respinge con un calcio
e questa scoppia fra la gente che davanti aspettava di entrare per
delle pratiche amministrative. A suo tempo – non conoscendo
Bertoli e analizzando la sua autobiografia pubblicata da “Gente”
– io stesso avevo definito condannabile la sua azione perché non
c’era modo di individuare nella storia della sua vita le
caratteristiche di un individualista stirneriano, come sembrava che
lui stesso si dichiarasse. Solo quasi trent’anni dopo ho potuto
correggere il mio errore quando, entrato in contatto epistolare con
lui, ho potuto conoscerlo meglio e vedere le qualità del compagno
che non apparivano invece dallo scritto autobiografico di
trent’anni prima. Malatesta ha la conoscenza opportuna, sa che
Mariani, Aguggini e gli altri sono compagni conosciuti e affidabili,
quindi sa di trovarsi di fronte a un deprecabile errore, e affronta
questo delicato argomento. Lamenta e si addolora per i morti ma
anche lamenta e si addolora per la sorte dei compagni, per la
responsabilità che si sono assunti e che del resto sono pronti a
sostenere pagando di fronte alla cosiddetta giustizia. Quello che
conta, egli dice, sono le intenzioni. Ma le intenzioni non erano
pavimento dell’inferno? Certo, è proprio questo che afferma la
morale borghese, sempre pronta a saltare addosso agli effetti, a
vedere i risultati, a collocare il proprio giudizio sul metro
economicistico. Questa coloritura morale la ritroviamo qualche volta
fra gli anarchici stessi, i quali hanno chiesto, a Mariani, a
Bertoli: “A chi può giovare questo tipo di azione?”. Soltanto
alla repressione. Ecco la risposta. E da lì la conclusione dilaga
senza più ritegno. È sempre la repressione che si giova di ogni
azione che intende attaccare il nemico, che intende fare sentire un
po’ più da vicino alle sue orecchie il gesto non proprio
amichevole del ribelle. Quante sono le dichiarazione di estraneità
che puntualmente si presentano di fronte a qualche avvenimento che
esce appena dalle righe dell’ortodossia opinionista. Contarle non
interessa nessuno. Esse sono segno di sottigliezza politica di
sicuro, ma anche di miopia morale. Malatesta invece corre il rischio
di scendere all’inferno e parla delle intenzioni. Sa che queste
non salvano della responsabilità (morale) gli assassini – perché
di assassinii si tratta – ma sa anche che tacere, o peggio ancora
accodarsi alle reprimenda dei tartufi, negherebbe lo stesso
principio propagandistico dell’anarchia militante, tutti gli
sforzi che giornalmente facciamo per convincere la gente della
necessità di ribellarsi e di attaccare il nemico che opprime e che
sfrutta.
McKinley,
il capo dell’oligarchia nord-americana, lo strumento e difensore
dei grandi capitalisti, il traditore dei Cubani e dei Filippini,
l’uomo che autorizzò il massacro dei scioperanti di Hazleton, le
torture dei minatori dell’Idaho e le mille infamie che ogni giorno
si commettono contro i lavoratori nella “repubblica modello”,
colui che incarnava la politica militarista, conquistatrice,
imperialistica in cui si è lanciata la grassa borghesia americana,
è caduto vittima della rivoltella di un anarchico.
Di che volete che noi ci affliggiamo, quando non
fosse per la sorte riserbata al generoso che, opportunamente o
inopportunamente, con buona o cattiva tattica, ha dato se stesso in
olocausto alla causa dell’uguaglianza e della libertà?
Lo ripetiamo in questa, come in tutte le occorrenze
analoghe: poiché la violenza ci circonda da tutte le parti, noi,
continuando a lottare serenamente perché finisca questa orribile
necessità di dover rispondere colla violenza alla violenza, pur
augurandoci che venga presto il giorno in cui gli antagonismi
d’interessi e di passioni tra gli uomini si potranno risolvere con
mezzi umani e civili, serbiamo le nostre lacrime ed i nostri fiori
per altre vittime che non siano questi uomini i quali, mettendosi
alla testa delle classi sfruttatrici ed opprimenti, assumono la
responsabilità ed affrontano i rischi della loro posizione.
Eppure si son trovati degli anarchici che han creduto
utile e bello l’insultare all’oppresso che si ribella, senza
avere una parola di riprovazione per l’oppressore che ha pagato il
fio dei delitti che aveva commesso o lasciato commettere!
È aberrazione, è desio malsano di avere
l’approvazione degli avversari, o è malaccorta “abilità” che
vorrebbe conquistare la libertà di propagare le proprie idee,
rinunziando spontaneamente al diritto di esprimere il vero e
profondo sentimento dell’animo, anzi falsificando questo
sentimento fingendosi diversi da quello che si è?
Lo faccio con rincrescimento, ma non posso esimermi
dal manifestare il dolore e l’indignazione che han prodotto in me e in quanti compagni ho avuto occasione di
vedere in questi giorni, le inconsulte parole che L’Agitazione ha
dedicato all’attentato di Buffalo.
«Czolgosz è un incosciente!» – Ma lo conoscono
essi? – «Il suo atto è un reato comune che non ha nessuno dei
caratteri indispensabili perché un atto consimile possa ritenersi
politico»!
Credo che nessun pubblico accusatore, regio o
repubblicano, oserebbe sostenere altrettanto. Infatti, v’è forse
qualche motivo per giudicare Czolgosz animato da interessi o rancori
personali?… Già, è improprio parlare di delitto in casi simili.
Il codice lo fa, ma il codice è fatto contro di noi, contro gli
oppressi, e non può servire di criterio ai nostri giudizi.
Questi sono atti di guerra; e se la guerra è
delitto, lo è per chi in essa sta dalla parte dell’ingiustizia e
dell’oppressione. Possono essere, sono, delinquenti gl’Inglesi
invasori del Transwaal; non lo sono i Boeri, quando difendono la lor
libertà, anche se la difesa fosse senza speranza di riuscita.
«L’atto di Czolgosz (potrebbe rispondere
L’Agitazione) non ha avanzato per nulla la causa del proletariato
e della rivoluzione; a McKinley succede il suo pari Roosevelt e
tutto resta nello stato di prima, salvo che la posizione è
diventata un poco più difficile per gli anarchici». E può darsi
che L’Agitazione avrebbe ragione: anzi, nell’ambiente americano,
per quanto io ne sappia, mi pare probabile che sia così.
Ciò vuol dire che in guerra ci sono le mosse
indovinate e quelle sbagliate, ci sono i combattenti accorti e
quelli che, lasciandosi trasportare dall’entusiasmo, si offrono
facile bersaglio al nemico e magari compromettono la posizione dei
compagni; ciò vuol dire che ciascuno deve consigliare e difendere e
praticare quella tattica che crede più atta a raggiungere la
vittoria nel più breve tempo e col meno di sacrifizi possibile; ma
non può alterare il fatto fondamentale, evidente che chi combatte,
bene o male, contro il nostro nemico e cogli stessi intenti nostri,
sia nostro amico ed abbia diritto, non certo alla nostra
incondizionata approvazione, ma alla nostra cordiale simpatia.
Che l’unità combattente sia una collettività o un
individuo solo non può cambiar nulla all’aspetto morale della
questione. Una insurrezione armata fatta inopportunamente può
produrre un danno reale o apparente alla guerra sociale che noi
combattiamo, come lo fa un attentato individuale che urta il
sentimento popolare; ma se l’insurrezione è fatta per conquistare
la libertà, nessun anarchico le negherà la sua simpatia, nessuno
soprattutto oserà negare il carattere di combattenti
politico-sociali agli insorti vinti. Perché dovrebbe essere
diversamente se l’insorto è uno solo?
L’Agitazione ha ben detto che gli scioperanti han
sempre ragione, ed ha detto bene, quantunque sia evidente che non
tutti gli scioperi siano consigliabili, perché uno sciopero non
riuscito può, in date circostanze, produrre scoraggiamento e
dispersione delle forze operaie. Perché quello che è vero nella
lotta economica contro i padroni non lo sarebbe nella lotta politica
contro i governanti, che col fucile del soldato e le manette dei
gendarmi vogliono asservirci a loro stessi ed ai capitalisti?
Qui non si tratta di discutere di tattica.
Se si trattasse di questo io direi che in linea generale preferisco
l’azione collettiva a quella individuale, anche perché
sull’azione collettiva, che richiede qualità medie abbastanza
comuni, si può fare più o meno assegnamento, mentre non si può
contare sull’eroismo, eccezionale e di natura sua sporadica, che
richiede il sacrificio individuale. Si tratta ora di una questione
più alta: si tratta dello spirito rivoluzionario, si tratta di quel
sentimento quasi istintivo di odio contro l’oppressione, senza del
quale non conta nulla la lettera morta dei programmi, per quanto
libertari siano gli affermati propositi; si tratta di quello spirito
di combattività, senza di cui anche gli anarchici si addomesticano
e vanno a finire, per una via o per l’altra, nel pantano del
legalitarismo…
…È stolto, per salvare la vita, distruggere le
ragioni del vivere. A che possono servire le organizzazioni
rivoluzionarie, se si lascia morire lo spirito rivoluzionario? A che
la libertà di propaganda, se non si propaga più quel che si pensa? (“L’Agitazione”,
22 settembre 1901)
Rispondendo a Luigi
Fabbri che aveva definito l’uccisione del presidente americano
atto inqualificabile e malgesto di incosciente, si preoccupa prima
di tutto di affermare con fermezza la legittimità di qualsiasi
attacco contro l’oppressore. È proprio all’anarchico
attentatore che pensa, non alle conseguenze repressive che l’atto
in questione avrebbe inevitabilmente scatenato. Non prende le
distanze, ma si schiera subito a fianco del ribelle. Si fa
sostenitore della violenza perché la violenza possa finire al più
presto, perché possa finire la necessità di rispondere alla
violenza con la violenza. Lamenta che anarchici hanno potuto
insultare l’oppresso che si ribella e definisce questo
atteggiamento come malsano desiderio di avere l’applauso degli
avversari. Ecco un punto su cui bisognerebbe fermare la nostra
riflessione. Non c’è condivisione possibile da parte del nemico
in questa guerra di classe, non ci sono né regole, né onore delle
armi, forse più feroce della stessa repressione materiale è quella
che si attua facendo ricorso alle menzogne, alla disinformazione,
alle calunnie. Il nemico attacca mettendoci “fuori legge”
(preventivamente) e “fuori logica” (successivamente). Afferma
che ogni ribellione alle autorità costituite è un andare contro
leggi fatte apposta per garantire la convivenza comune, non capisce
come tutto questo possa accadere, come ci possano essere persone che
non condividano il migliore dei mondi possibili, comunque l’unico
mondo perfettibile attraverso le riforme e i miglioramenti. Il fatto
è che la logica della ribellione non gli appartiene, è faccenda
del tutto incomprensibile per lui, e di questo bisogna farsene una
ragione. Non possiamo attaccarlo e pretendere che il potere
condivida le regole di questo attacco, anche perché si tratta di un
attacco che segue regole diverse da quelle che sostengono i processi
della violenza oppressiva. Se ci convinciamo di ciò finiamo per
renderci conto che le nostre azioni di attacco contro il potere sono
“illogiche”. Non ha senso – cioè non ha senso per la logica
del potere e dei benpensanti che dal potere vengono pasciuti – che
Czolgosz spari a McKinley, se a un qualsiasi McKinley può sempre
succedere un Roosevelt. E che questa considerazione venga fatta dal
nemico è più che giusto, quello che duole è che spesso viene
fatta anche da non pochi compagni. Che senso ha abbattere un
traliccio, o milleduecento (quanti negli ultimi quindici anni ne
sono stati buttati giù in Italia) se poi l’Enel ne costruisce
altrettanti e in fretta? Che senso ha darsi da fare se questo darsi
da fare si riduce poi a uno sgonfiare il palloncino del figlio del
maresciallo? Per capire quale possa essere il senso dei piccoli
attacchi diffusi nel territorio bisogna accettare una logica diversa
da quella dei padroni e del potere. Ma accettare una logica diversa
spesso fa a pugni con quanto di più connaturato possediamo col
nostro modo di essere, cioè col nostro modo di pensare. Noi siamo
quello che pensiamo e pensiamo quello che siamo. Possiamo di certo
pensare qualcosa che mai faremmo o saremmo, ma questo pensiero non
alberga a lungo nella nostra mente, come fantasia del sabato sera
svanisce alle prime luci del lunedì. Malatesta parla di combattenti
accorti e meno accorti, di quelli che frenano il proprio entusiasmo
e di quelli che da questo si lasciano trascinare, ma non si accorge
che la valutazione è fatta dall’interno di una misura che non ci
appartiene. Quando ci muoviamo nell’azione che cerca di
avvicinarsi quanto più possibile al nemico per inquietarlo nelle
sue certezze, ogni calcolo di convenienza, ogni valutazione tattica,
ogni conoscenza tecnica e ogni approfondimento teorico possono
assisterci, possono stare tutti al nostro fianco e illuminarci la
strada, ma l’ultimo tratto, quello che solleva l’animo dagli
indugi finali, che tutto stringe nell’attimo in cui si supera la
propria frattura morale, lo dobbiamo fare da soli. Qui ognuno è
solo con la propria coerenza morale, con la propria coscienza
rivoluzionaria, con il proprio desiderio di farla finita con
l’oppressione e lo sfruttamento. Che importa se dall’azione
viene fuori un gesto approssimativo, qualcosa che la luce logica
dell’abbagliante non contraddittorietà valuterà un “malgesto
di incosciente”, siamo noi che quell’azione abbiamo fatto, siamo
noi che abbiamo preso la responsabilità non solo dell’azione in
se stessa ma anche di tutte le valutazioni di convenienza, di
tattica, ecc. E siamo noi che abbiamo deciso di portarla a
compimento. La nostra azione, in fondo, siamo noi stessi.
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