Malatesta
e il movimento di classe in Italia
di
Gianfranco Careri
Due
righe di premessa
Premessa
necessaria a questo lavoro è avverire che esso non pretende di
esaurire in poche pagine un’argomento così vasto e complesso come
il rapporto tra un grande rivoluzionario e il movimento di classe in
Italia nei periodi forse più intensi della sua storia.
Si
è cercato più realisticamente di focalizzare alcuni momenti e
aspetti che, per la loro centralità e la loro
importanza, a giudizio dell’autore, possono dare validi
spunti al dibattito e al confronto, anche collegandolo con le
tematiche dell’attualità.
Per
questo il lavoro inizia dalla Prima Internazionale con un giovane
Malatesta valido attivista della corrente antiautoritaria di Bakunin,
per poi passare all’esperienza anconetana che rappresenta uno dei
momenti chiave dell’azione (ma anche della riflessione teorica e
strategica) di Malatesta e ne segna la fase più alta di radicamento
all’interno di una realtà di classe. Una realtà estremamente
sensibile al suo insegnamento ma che al tempo stesso riesce ad
insegnare molto al suo maestro.
Il
rapporto col movimento sindacale organizzato, e in particolare con
l’USI ma non solo, apre infine una serie di spunti, tutti
attualissimi, che molto possono dare a lettori ed ascoltatori: la
questione dell’unità, il dualismo tra movimento specifico e
movimento di massa, la scelta della collocazione tra le
organizzazioni dei lavoratori, l’entrismo nei sindacati legati a
forze politiche di potere, l’inconciliabilità tra professionismo
politico ed attivismo sindacale e tanto altro ancora.
La
Prima Internazionale
Il
Sud dell’Italia, dopo il breve ed ambiguo inganno garibaldino,
subisce la sistematica rapina delle sue ricchezze da parte dei
Savoia e delle truppe d’occupazione piemontesi. L’industria
smantellata viene portata al nord mentre ha inizio per le classi
dominanti vecchie e nuove una ininterrotta fase di sfruttamento e di
oppressione che impoverisce sempre più la popolazione e favorisce
una sanguinosa repressione militare di ogni dissenso.
In
questo clima è proprio nel cuore del Sud, a Napoli, che nel 1869,
si crea la prima sezione italiana dell’Internazionale (fondata a
Londra nel 1864). Una sezione in rapida crescita che si scontra
subito con la violenta repressione del potere che porta (dopo un
riuscito sciopero di pellettieri) allo scioglimento
dell’associazione e alla persecuzione dei suoi attivisti.
Il
giovane Malatesta, aderente all’Internazionale, è uno di questi e
viene subito condannato per vilipendio delle istituzioni.
Sempre
nel 1869 un vasto movimento di lotta (contro l’imposta sul
macinato) si diffonde unitariamente tra le masse contadine del nord
e del sud ,con epicentro in Emilia e nella Valle Padana ( si avranno
ben 257 morti) gettando le basi di quell’azione sindacalista
rivoluzionaria che, di certo favorita dall’opera
dell’Internazionale (che comincia a ramificarsi in varie regioni),
condizionerà le grandi lotte operaie e contadine dei primi decenni
del novecento.
Nell’Internazionale
troviamo Malatesta
molto attivo nello scontro interno che vede fronteggiarsi da
una parte la componente autoritaria e verticistica di Marx
(intenzionata ad assicurarsi ad ogni costo il controllo egemone
sull’organizzazione) e dall’altra quella collettivista ed
antiautoritaria di Bakunin che vede il pieno e determinante sostegno
della sezione italiana.
Nel
settembre del 1871 (all’indomani della violenta repressione di una
delle prime e più belle esperienze rivoluzionarie internazionali:
la Comune di Parigi) Marx , alla Conferenza di Londra, lancia il suo
attacco. Condannate le posizioni libertarie vengono accentrati i
poteri al Consiglio Generale, annullata l’autonomia delle sezioni
e imposta la priorità della conquista del potere politico da parte
della classe operaia.
Malatesta
si trova quindi, insieme agli altri componenti della Federazione
Italiana dell’Internazionale, ad operare nel momento chiave di
tutta la storia internazionale del movimento organizzato dei
lavoratori. Un momento che di fatto ha condizionato e condiziona
tutta la storia successiva delle classi subalterne, fino ai nostri
giorni.
L’emancipazione
dei lavoratori deve quindi essere opera dei lavoratori stessi o di
chi intende guidarli dall’alto? E’ di fatto la chiave di lettura
di tutte le esperienze successive all’Internazionale stessa:
sindacali, politiche, economiche e sociali. E’ la chiave di
lettura di tutte i tentativi, condotti nel mondo, di reale
trasformazione sociale e, purtroppo, anche di tutte le drammatiche
(e spesso sanguinose) sconfitte subite dalle classi subalterne.
Per
Malatesta, come per tutta la componente antiautoritaria, una vera
libera internazionale dei lavoratori potrà esistere solo sulle basi
del federalismo basato sulla piena libertà e l’autonomia delle
sezioni. Diviene così necessario per i veri internazionalisti (al
di là quindi delle loro convinzioni) fare in modo che il movimento
di classe non subisca condizionamenti, forzature e manipolazioni
durante il suo percorso
di lotta
fronteggiando quindi anche ogni tentativo di chiunque di
impadronirsi del potere politico (anche a nome della “classe
operaia”) optando invece per una trasformazione federalista ed
autogestionaria della società. Purtroppo, come la storia insegna,
la “dittatura del proletariato” diventa sempre è comunque una
sanguinosa dittatura “sul proletariato”.
Contro
il “golpe” marxista la componente antiautoritaria da vita a una
libera ed organizzata struttura internazionale che vede come tappe
fondamentali la Conferenza di Rimini dell’Agosto 1972 (21 le
sezioni italiane che costituiscono la Federazione) e il Congresso
Internazionale di Saint-Imier, in Svizzera, le cui deliberazioni
sancisono, oltre alla piena autonomia e alla solidarietà tra le
sezioni, che compito del proletariato sia la distruzione di ogni
potere politico (compreso quello “sedicente rivoluzionario”).
Malatesta
partecipa attivamente, come esponente di spicco, a questi due
fondamentali avvenimenti che determinano la nascita della corrente
antiautoritaria organizzata del movimento di classe.
Come
la storia successivamente insegnerà la “spaccatura” determinata
con la prima Internazionale si ripercuote (a volte anche
drammaticamente) nella storia successiva delle classi subalterne di
tutto il mondo e non sempre le soluzioni da prendere saranno
automaticamente semplici e sicure. Lo stesso Malatesta ne dovrà
prendere atto (così come lo faranno i rivoluzionari russi e
successivamente gli anarcosindacalisti spagnoli) nelle fasi
realmente rivoluzionarie della storia. La questione dell’”unità”
del movimento dei lavoratori (spesso determinante per fronteggiare
la reazione e la repressione del potere) andrà necessariamente a
complicare il dibattito e le decisioni della componente organizzata
libertaria del movimento di classe. E in questo dibattito, come
vedremo, Malatesta (come altri dopo di lui in altri scenari
mondiali, vedi la Spagna) interverrà con scelte forse necessarie e
coerenti ma certo non sempre vincenti.
Ancona
palestra di lotta
Malatesta
arriva ad Ancona nel 1897. La città marchigiana e’ molto
particolare con una conflittualità latente ma potenzialmente
esplosiva. Il porto, con i quartieri popolari attorno, rappresenta
il cuore economico e sociale della città, attorno al quale
gravitano forti interessi. La presenza di una camorra organizzata fa
si che spesso si arrivi a scontri violenti tra portuali e
camorristi. La composizione di classe dei lavoratori portuali è
attraversata da profonde differenziazioni che determinano
forme (anche molto violente) di scontro. Il formarsi di una
vera e propria aristocrazia operaia privilegiata (facchini stabili
che coi “caporali” gestiscono mafiosamente il traffico dello
scarico delle merci) ha come contraltare una schiera di portuali
avventizi (oggi potremmo anche definirli “precari”) che trovano
solo saltuariamente lavoro e quasi sempre alle condizioni di
sfruttamento (sottopagati e con ritmi infernali) imposte da malavita
e dai lavoratori privilegiati. Gli avventizi, gli operai e i
lavoratori del porto meno pagati e più sfruttati formano i primi
compatti nuclei di proletari disposti a lottare a fondo e
radicalmente per difendere ed ampliare i propri interessi di classe.
Attorno a loro si muove la popolazione dei quartieri popolari (Guasco,
Capodimonte,Porto, ecc.), con in prima fila le donne (attivissime
nelle mobilitazioni di piazza), in un contesto dove, anche grazie
all’agitazione anarchica, prevalgono le istanze dell’unità e
della solidarietà di classe. La stessa piccola criminalità, un
tempo diffusissima in città, si “converte” ai cambiamenti
sociali in corso tanto che alla fine quasi scompare. Lo stesso
Malatesta ricordava sovente le affermazioni del procuratore del re
Coppola quando parlando di Ancona dichiarava che “sono cessati i
piccoli delitti per preparare il grande: la rivoluzione”. Di fatto
una piccola folla di sottoproletariato e di micro malavita locale
entrava a far parte della militanza anarchica e sovversiva.
In
questo contesto Malatesta, con la sua grande capacità di farsi
capire dal popolo, trova in Ancona un ambiente
fertile
per la propaganda e l’organizzazione. Per le masse locali
sfruttate e oppresse, costrette a vivere ai bordi della miseria,
l’anarchismo malatestiano , semplice e al tempo stesso incisivo,
rappresenta un percorso preciso di riscatto e di
emancipazione.
Ovviamente
Malatesta può contare anche su un movimento anarchico locale già
attivo prima della sua venuta, con molte figure di militanti
conosciuti, stimati e seguiti dalla popolazione mentre fertile è
anche il territorio attorno alla città (Marche e Romagna
rappresentano al tempo una zona dove le istanze sociali e
rivoluzionarie non si erano affievolite nonostante le dure
persecuzioni subite).
L’abilità
di Malatesta è quella di far crescere rapidamente la protesta,
ramificando l’organizzazione nei quartieri e nei territori vicini
e dotando subito il movimento di agili strumenti d’intervento. La
stampa per Malatesta come sempre ha un ruolo fondamentale per
accompagnare l’azione. Nel marzo 1897 nasce “L’Agitazione”
giornale che, fin dal nome, annuncia la strategia adottata dagli
anarchici. E’ un giornale fortemente antigovernativo che fa subito
presa tra i lavoratori del porto e nei quartieri popolari.
Nonostante continui sequestri e censure “L’Agitazione”tira
dalle 6000 alle 7000 copie riuscendo a uscire con supplemento
quotidiano nella settimana del processo di Ancona.
Ricorda
P.C. Masini in uno scritto del 1949 che “L’Agitazione è
l’ultima voce anarchica dell’ottocento. La sua morte coincide
con la morte di centinaia di lavoratori abbattuti dalle cannonate di
Bava Beccaris.”.
Il
giornale che Malatesta fonda ad Ancona è particolarmente importante
perchè nelle sue pagine Errico definisce, oltre che le linee
dell’antielettoralismo e dell’antiparlamentarismo, anche la sua
teoria del gradualismo rivoluzionario in sostituzione
dell’autoritaria tendenza (blanquista) di limitare la rivoluzione
al solo atto insurrezionale.
Col
gradualismo rivoluzionario Malatesta apre di fatto un saldo ponte
(ripreso poi anche dal sindacalismo rivoluzionario) con le lotte
quotidiane in difesa degli interessi di classe dando molto spazio al
metodi dell’azione diretta intesa come forma di lotta di massa
fortemente antistituzionale.
Fondamentale
il chiarimento di Malatesta sulle rivendicazioni operaie
(“L’Agitazione” 17 Ottobre 1897):
“Noi
cerchiamo nel movimento operaio la base della nostra forza e la
garanzia che la prossima rivoluzione riesca davvero socialista ed
anarchica; e ci rallegriamo di ogni miglioramento che gli operai
riescono a conquistare perché esso aumenta nella classe lavoratrice
la coscienza della propria forza, eccita nuovi bisogni e nuove
pretese, ed avvicina il punto limite, dove i borghesi non possono più
cedere se non rinunciando ai loro privilegi e quindi il conflitto
violento diventa fatale”.
La
propaganda si traduce presto in azione e nel gennaio 1898 Ancona è
la prima città d’Italia che scende in piazza dopo l’aumento del
prezzo del pane (da 45 a 50 centesimi al Kg). La protesta dilaga per
più giorni e la popolazione (con alla testa i gruppi organizzati
dei facchini), inneggiando all’anarchismo, si scontrano
violentemente contro le forze della repressione. Nonostante
l’arrivo di ingenti truppe regie i popolani resistono
sperimentando forme vincenti di guerriglia cittadina, prendendo il
controllo dei quartieri popolari e fermando le cariche della
cavalleria con fili telegrafici stesi a ragnatela nelle vie del
centro. Alla fine la città viene militarizzata e il generale
Baldissera, avuti i pieni poteri militari sul territorio, procede
all’arresto degli agitatori anarchici tra cui Malatesta
per il quale, dopo il carcere, inizia un periodo di domicilio
coatto nelle isole siciliane e quindi la fuga e l’esilio.
Ma
l’azione rivoluzionaria non è stata vana e ha avuto i suoi
risultati vincenti costringendo il governo a ridurre il dazio
d’entrata del grano. Così come il processo di saldamento tra
l’anarchismo organizzato e il proletariato cittadino (ma anche
regionale) è diventato un dato di fatto da cui non si torna
indietro nonostante la repressione che accompagna tutti i primi anni
del nuovo secolo.
Non
è un caso che, nel dilagare delle azioni popolari contro la guerra
e l’esercito, Malatesta
nel 1913 sceglie di tornare ad agire ad Ancona riprendendo ed
allargando i collegamenti del passato. Ed Ancona ridiviene il centro
attivo dell’agitazione antimilitarista e poi della rivolta che
inizia dopo l’eccidio (tre morti e molti feriti) compiuto il 7
Giugno 1914 dai carabinieri contro i manifestanti
che escono da un comizio alla “Villa Rossa”. Ha inizio la
Settimana Rossa” che vede la popolazione, con cui fraternizzano
soldati e marinai, impadronirsi, dopo aver più volte respinto
polizia e guardie regie, per sette giorni della città dando vita a
un’esperienza autogestionaria che si estende dalla distribuzione
del cibo e di altri aspetti della vita cittadina.
Il
moto insurrezionale dilaga da Ancona a tutta la regione e poi
nell’Emilia Romagna. Mentre l’USI proclama lo sciopero generale
scontri e morti si hanno in tutt’Italia. saranno i dirigenti della
CGL e dei partiti riformisti della sinistra, con una modalità che
si ripeterà puntualmente per tutto il secolo, ha bloccare il
movimento con un’intesa opera boicottatrice. Malatesta commenta su
“Umanità Nova” il disorientamento causato dal telegramma
circolare della CGL che ordina la cessazione dello sciopero proprio
nel momento in cui questo, a tendenza insurrezionale, si estendeva e
i ferrovieri stavano per prendere in mano la direzione del servizio
e impedire cosi gli spostamenti delle truppe facendo viaggiare solo
i treni utili per il movimento.
Il
fronte popolare si divide, favorendo l’azione repressiva delle
truppe regie che assaltano le zone dove si intende comunque
continuare la rivolta. Non basta quindi che i proletari di Ancona
scendano subito in piazza contro CGL e riformisti bruciando
pubblicamente tutti i giornali che contengono copie dell’infame
telegramma confederale. Alla fine il moto insurrezionale è domato
da un potere che ora ha le porte aperte per partecipare al grande
macello proletario della prima guerra mondiale.
Senza
dubbio questo percorso sulla realtà di classe anconetana e i suoi
rapporti con il pensiero e l’azione di Malatesta deve di fatto
citare i fatti del giugno del 1920, la “rivolta dei
bersaglieri”, anche se in quei giorni Malatesta era a Bologna per
il Congresso nazionale dell’Unione Anarchica.
La nuova rivolta di Ancona del 1920 è senz’altro da
considerarsi il proseguimento ideale e pratico dei moti
antimilitaristi e sociali della settimana rossa del 1914 anche se la
sua collocazione può inserirsi pur se autonomamente nel movimento
del biennio rosso . Stavolta, al centro dell’insurrezione è il
rifiuto delle truppe della caserma Villarey di partire per
l’Albania e il loro collegamento con la locale Camera del Lavoro
(sulle posizioni del sindacalismo libertario e rivoluzionario) e con
i gruppi anarchici organizzati. La rivolta armata di bersaglieri e
popolazione viene stroncata dall’invio di ingenti truppe da parte
del governo e con l’arresto di 500 insorti ma nonostante ciò
riuscirà a costringere lo stato a ritirare le sue truppe
dall’Albania.
Anarchici,
movimento operaio e questione dell'unità
Con
la nascita dell’USI nel 1912 e con le lotte successive che
arrivano fino al biennio rosso si accentua all’interno
dell’anarchismo il dibattito sulla sua collocazione nel movimento
operaio e nelle sue componenti sindacali. Determinante diviene la
problematica dell’unità di classe.
Scrive
Borghi che ”Gli anarchici si dividevano in tre correnti. Una parte
era indifferente al nostro lavoro nell’interno
dell’organizzazione operaia perché non accettava nessuna forma di
organizzazione. La maggioranza lavorava con noi nell’ USI senza
distinzioni e suddistinzioni: Una terza corrente accettava l’USI
come fatto inevitabile, dati i sistemi centralisti e dogmatici, e
soprattutto data la dipendenza della Confederazione del Lavoro dal
Partito Socialista, ma considerava in linea ideologica l’unità
dell’organizzazione operaia come condizione necessaria ad un
movimento efficace; la nostra divisione dalla confederazione era un
male inevitabile, ma era un male. Su quest’ultima linea era
l’Unione Anarchica, cioè l’associazione politica a cui io
aderivo e che era ispirata dal Malatesta”.
Senza
dubbio, a parte limitate componenti antiorganizzatrici, la
stragrande maggioranza dell’anarchismo italiano concordava .sulla
necessità prioritraria di essere saldamente all’interno del
movimento di classe. Lo stesso Malatesta precisa che:
“compito
degli anarchici è quello di lavorare a rafforzare le coscienze
rivoluzionarie tra gli organizzati e rimanere nei sindacati sempre
come anarchici”
Proprio
per il loro programma, per Malatesta, gli anarchici sono interessati
più di ogni altra componente politica allo sviluppo del movimento
operaio all’esterno del quale si potrebbe si fare propaganda ed
attività specifica ma col rischio di doversi poi accodare agli
altri che sfrutterebbero per altri fini il nostro lavoro.
Ma,
mentre “i sindacati devono fare la lotta per la conquista dei
benefici immediati…i rivoluzionari sorpassano anche questo. Essi
lottano per la rivoluzione espropriatrice del capitale e
l’abbattimento dello stato”.
Le
organizzazioni operaie quindi non possono essere composte solo da
anarchici e anzi desiderabile che questo non avvenga. Devono invece
agire, anche come gruppi al loro interno ”esercitando un’azione
di propulsione e di controllo”.
Sulla
situazione italiana dell’epoca Malatesta è più volte esplicito
nel delineare la sua posizione:
“Vi
sono in Italia due massime organizzazioni proletarie che mirano
ostensibilmente alla distruzione del sistema capitalistico: la
Confederazione Generale del Lavoro e la Unione Sindacale Italiana.
Le nostre maggiori simpatie sono certamente per l’USI, poiché tra
i suoi dirigenti vi è gran numero di compagni nostri, ed i suoi
metodi di azione diretta rispondono meglio alla tattica nostra. Ma
nella Confederazione del Lavoro vi sono pure molti compagni nostri e
vi sono lavoratori autentici animati in realtà dallo stesso spirito
che anima le masse affiliate all’USI. Occorre soprattutto che
queste masse dell’una e dell’altra organizzazione si
affratellino e lottino insieme. Se i regolamenti della
Confederazione sono tali che impediscono la sincera espressione
della volontà degli associati, bisogna combattere quei regolamenti
e cercare di cambiarli!”
Alcuni
aspetti centrali dell’analisi malatestiana vanno a questo punto
approfonditi con una critica moderna che ci permetta di affrontare
le grandi tematiche alla luce degli sviluppi successivi che lo
scontro di classe internazionale ha avuto nelle sue varie fasi.
Negando
di fatto la possibilità al sindacalismo di poter bastare a se
stesso Malatesta sembra non intravedere la possibilità che esso
possa essere un soggetto rivoluzionario. Da qui il ruolo centrale
del gruppo specifico e un relativo distacco dal problema delle
differenziazione delle forme organizzative sindacali che la classe
si dà.
Di
fatto sappiamo che il sindacalismo rivoluzionario, e ancor più l’anarcosindacalismo,
pur con suoi limiti, può invece essere un soggetto di
trasformazione sociale e può gestire un nuovo mondo, attraverso una
diffusa organizzazione autogestionaria dei settori produttivi e del
territorio.
Probabilmente
l’USI poteva avere già allora questa possibilità (anche se forze
le mancavano alcuni anelli). L’AIT che nel 1922 nasce in
contrapposizione all’Internazionale Rossa gestita dai comunisti,
si pone la questione e getta le basi per una risposta mondiale
all’esigenza della trasformazione sociale libertaria. La CNT
Spagnola di certo prova l’attuazione pratica di questa
trasformazione e se non vi riesce è per cause esterne che tutti
conosciamo.
E’
proprio la rivoluzione spagnola del 1936 (avvenuta dopo la scomparsa
di Malatesta nel 1932) probabilmente l’evoluzione più realistica
e vincente della prospettiva sociale dell’anarchismo organizzato.
A
differenza dell’Italia in Spagna è il sindacato (nella sua forma
assembleare, solidaristica e federalista), che in questo caso ha (per
la prima volta nella storia) anche la possibilità di bastare a se
stesso nella sua collocazione anarcosindacalista, il soggetto
principale attorno al quale ruota il processo rivoluzionario e i
gruppi specifici (Federazione Anarchica Iberica) nascono
successivamente al sindacato e agiscono prevalentemente al suo
interno proprio per quell’opera di “propulsione e di
controllo” di cui parla Malatesta. Opera necessaria quando la
crescita
numerica e d’importanza dell’organizzazione può causare
fughe dai principi base e provocare tentativi, da parte di minoranze
politiche ed autoritarie, d’impadronirsi del sindacato e cambiarne
la direzione.
Sulla
questione dell’unità grande fu sempre la confusione sotto al
cielo. Di fatto si presenta come problema centrale in ogni momento
importante della storia e le risposte da dare differenziano sempre
più la sfera teorico-idealle (l’unità è necessaria e
prioritaria) da quella strategica e pratica ( proprio in nome di
quell’unità troppo spesso arrivano gli inganni e le sconfitte più
grandi). E’ indubbio che Malatesta, probabilmente più di tutti,
ha chiaro il problema (senza unità non si vince e bisogna far
lottare insieme i lavoratori in qualsiasi sindacato si trovino) e dà
delle prime indicazioni, purtroppo ferme sul solo piano ideale, per
risolverlo (lavorare in tutti i fronti possibili, in tutti i
sindacati, battere le resistenze e unire i lavoratori). Di fatto
questo puntualmente porta a risultati fallimentari (impossibile
lavorare con successo all’interno di strutture controllate
gerarchicamente) ed è il tormentone che si presenta ad ogni
occasione generando poi il riflusso dei movimenti e delle lotte
autonome.
Malatesta
verifica puntualmente come la CGL (e i socialisti che la
controllano) sia la causa prima delle sconfitte proletarie ed il
soggetto capace (più della stessa repressione governativa) di
frenare e poi bloccare le lotte favorendo così poi la spietata
reazione padronale. La settimana Rossa e l’Occupazione delle
Fabbriche sono solo due eclatanti esempi di questa collaudata
consuetudine. Quello che forse il movimento specifico sottovaluta è
il ruolo negativo e pericoloso che possono assumere gli anarchici
della CGL in questi contesti.
Un
esempio tra tutti: Siamo in pieno nella fase pre-insurrezionale
dell’occupazione delle fabbriche da parte degli operai armati.
L’USI convoca un convegno unitario a Sampiedrarena. L’intenzione
è prendere possesso del porto di Genova ed estendere
l’occupazione a tutta la Liguria. Probabilmente sarebbe l’inizio
della rivoluzione. La CGL invia al convegno due esponenti: Colombino
(uno dei suoi massimi gerarchi) e Garino, della componente anarchica
della CGL. Sicuramente non è un caso che la CGL mandi anche un
nostro compagno, conosciuto e stimato, ad accompagnare il suo
burocrate. Vi è un obiettivo che la burocrazia e i vertici dei
partiti vogliono raggiungere e per l’occasione usano abilmente
anche un nostro compagno.
L’intervento
di Colombino infatti casca nel vuoto e procura solo dissensi ma così
non è per l’intervento di Garino che chiede ai presenti di
sospendere momentaneamente l’azione perché la CGL convocava tra
pochi giorni un convegno a Milano, senza escludere nessuna forza
sindacale, li si sarebbe decisa unitariamente l’azione finale non
solo in Liguria ma in tutta Italia.
L’intervento
sembra ragionevole, il personaggio che lo tiene è fidato e
l’assemblea decide di non prendere una decisione affrettata e di
aspettare Milano.
Il
famoso convegno di Palazzo Marino è invece una trappola colossale.
Unione Sindacale italiana e Unione Anarchica sono escluse dalla
partecipazione ai lavori. I Sindacati unitari non confederali
(Ferrovieri, Portuali, Marittimi) sono invitati ma senza diritti di
voto. Partecipano naturalmente di diritto la Direzione del Partito
Socialista e la rappresentanza del gruppo parlamentare socialista.
Pure la componente comunista partecipa volentieri alla trappola e
non si oppone alle esclusioni in quanto USI e anarchici, se
presenti, avrebbero raccolto la maggioranza dei consensi attorno a
loro e questo ai moscoviti proprio non piace, alla faccia dei
supremi interessi di classe.
Al
termine dei lavori è naturalmente decisa la fine della lotta
consegnando l’Italia alla reazione padronale e fascista.
Come
non soffermarsi sul ruolo “istituzionale” (e non ci interessa
sapere se in buonafede o in malafede) della componente anarchica
della CGL? Come non domandarsi se alla fine queste componenti non
siano che il fiore all’occhiello dei vertici burocratici che le
usano come sacca di recupero del dissenso, diventando così esse
stesse controparti dei lavoratori?
Problema
questo, dell’unità e dell’entrismo in sindacati maggioritari
legati e diretti dal potere politico, che si ripresenterà
puntualmente in altri momenti storici.
Ad
esempio tenteranno, in nome dell’unità contro il fascismo, di far
sciogliere l’USI in clandestinità nel 1925 e in esilio negli anni
trenta per farla confluire nella CGL (senza comunque riuscirvi). Si
sacrificherà invece, come movimento anarchico, la ricostruzione
dell’USI nel 1945 (in un momento storico molto favorevole alla
ripresa del sindacalismo rivoluzionario) in nome di quell’unità
sindacale patteggiata da
comunisti, socialisti e democristiani
che naufraga dopo pochi anni con la fine del governo di unità
nazionale.
Malatesta e il caso di
Vittorio
La questione della
candidatura parlamentare di Di Vittorio e di Faggi, entrambi
esponenti della corrente sindacalista dell’USI, apre una
importante discussione in cui Malatesta interviene più volte
direttamente.
Di Vittorio (che diverrà
il “mito” principe per CGIL e per il PCI) in realtà non è mai
stata una bella figura. Proveniene dalla corrente che seguì i vari
Ferri, Labriola e Leone all’interno del partito socialista da dove
furono allontanati non riuscendo a conquistarne la dirigenza
confluendo poi nel movimento sindacalista. Interventista
mussoliniano nel 1914 Di Vittorio fa rapida marcia indietro
“pentendosi di quel trascorso” come ricorda Borghi “diventò
verso il 1916 collaboratore di Guerra di Classe. Così potè fare
ritorno a Cerignola dopo la guerra, senza che lo prendessero a
sassate”.
Nel 1921 una vasta
operazione comunista diretta da Mosca tende a portare sotto il
controllo bolscevico i maggiori e più combattivi sindacati
mondiali. Per l’Italia l’Internazionale Rossa mette subito gli
occhi sull’USI e, dopo un primo tentativo il patto di “stretta
collaborazione” col partito comunista (sottoscritto a nome
dell’USI da due rappresentanti del sindacato inviati a Mosca per
confrontarsi sul tema dell’unità sindacale) viene decisamente
respinto dall’USI. I comunisti iniziano una vera e propria
“guerra” (con molti mezzi e molti rubli a disposizione) interna
ed esterna all’Unione per eliminare i sostenitori della linea
contraria all’accordo con Mosca. In questo clima due noti
militanti dell’USI, Giuseppe Di Vittorio e Angelo Faggi, passati
ora alla corrente comunista,
partecipano alle elezioni e diventano deputati scatenando nel
sindacato la polemica sulla possibilità o meno di poter essere
deputati e al tempo stesso avere cariche nell’Unione.
Malatesta innanzitutto
interviene in difesa di Borghi, principale bersaglio della infamante
propaganda comunista che lo accusavano di contrastare il disegno
moscovita per mantenere stipendio e carica di segretario.
Malatesta ricorda ai
comunisti come Borghi “non appena si rese conto dell’esistenza
nell’Unione Sindacale di una corrente contraria alle sue idee, pur
avendo la maggioranza con sé, si dimise dal posto di segretario
generale”.
In altra occasione
Malatesta, che aveva diviso la cella con Borghi, scrive per
rispondere alle calunnie che sostengono che la posizione del
segretario del Sindacato, contraria alle candidature parlamentari,
sia posteriore alla sua uscita dal carcere e dovuta alla pressione
di membri anarchici dell’USI:
“…Il Borghi fu fin
dal primo momento fermo ed esplicito nella opinione che lo spirito,
se non lo statuto, dell’Unione Sindacale era nettamente
antiparlamentare, e che delle persone che intendono avere una
qualsiasi carica ed una qualsiasi influenza in un’organizzazione
operaia fatta per praticare l’azione diretta, non possono e non
debbono essere deputati, né occupare qualsiasi altro posto connesso
con l’organismo statale”.
Con Borghi Malatesta
partecipa ad alcune Conferenze in cui si verificano forti
contradditori con esponenti comunisti inviati ad attaccare
l’uscente Segretario dell’Unione.
Successivamente, dalle
colonne di “Umanità Nova” Malatesta polemizza direttamente con
Di Vittorio che, con una lettera cerca di giustificare le sue scelte
opportuniste (voler restare deputato e al tempo stesso organizzatore
nell’USI):
“Fra due metodi
bisogna scegliere; e chi è per l’azione diretta e vuole ispirare
nelle masse la fiducia nelle proprie forze e la voglia di agire
fuori e contro degli organi statali, non può avvantaggiarsi dei
benefizi della deputazione senza contraddirsi e ostacolare e
paralizzare l’azione diretta delle masse”.
In un altro articolo
Malatesta è ancora più drastico e così liquida la questione:
“Ci pare sia il caso
di Di Vittorio. Ma dopo tutto Di Vittorio c’interessa
poco,…..scenderà tutta la china, come han fatto tutti coloro che
han messo il piede sul terreno sdrucciolevole del parlamentarismo, e
l’azione rivoluzionaria del proletariato avrà un nemico in più.
Ce ne sono tanti ed un Di Vittorio di più o di meno non cambierà
la situazione”.
La profezia di Malatesta
puntualmente si è avverata. Di Vittorio, da dirigente comunista e
poi da pontefice della CGIL, non mancò mai di colpire i nostri
compagni. In particolare gli anarcosindacalisti. Ben ricordiamo che
fu il primo dirigente comunista a “rivendicare” l’uccisione di
Camillo Berneri (responsabile dell’ USI presso la CNT nella
Barcellona della rivoluzione libertaria). Lo ha fatto a Parigi nel
1937 alla sala dei Sindacati “commemorando” i caduti
antifascisti in Spagna e rifiutandovi di nominare Berneri perché
“non si può mandare un saluto a colui che pugnalava alla schiena
i bravi militi”. A pugnalarlo fu lui e i suoi compagni, Vidali e
Togliatti, in quella sanguinosa controrivoluzione scatenata dagli
stalinisti contro gli anarcosindacalisti e le collettivizzazioni
autogestionarie che fece il gioco di Franco e della reazione
nazi-fascista.
Nel marzo del 1922
‘USI tiene a Roma il suo Congresso nazionale. Si discute
l’adesione o meno all’Internazionale Rossa di Mosca. Il
dibattito e accesissimo. I comunisti, come ricorderà Borghi “si
batterono non da leoni, ma da vipere”. Il voto del Congresso fu
contro Mosca e i suoi sostenitori.
Nel 1922 a Berlino i
sindacati liberi e rivoluzionari di tutto il mondo danno vita a una
nuova Internazionale Sindacale, l’AIT.
Malatesta, pur rimanendo
all’esterno, non mancherà di manifestare in più occasioni la sua
soddisfazione per la scelta del sindacalismo rivoluzionario di non
confluire nell’Internazionale di mosca e di dar vita a una libera
Associazione di Lavoratori che ricorda al vecchio militante
anarchico l’inizio della sua storia, con la separazione tra
l’Internazionale Antiautoritatrioa e quella verticistica ed
autoritaria di Marx.
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