La
volontà libertaria. Malatesta e i problemi del nostro tempo.
di Marco Celentano
1.
Anarchia e filosofia
Vorei mettere
a confronto alcune posizioni di Malatesta con quelle di altri
autori, interni ed esterni al movimento anarchico, partendo da una
convinzione che fu propria di Malatesta: quella secondo cui conditio
sine quan non per il formarsi e per l’affermarsi del pensiero
e del movimento anarchico è la piena assunzione, da parte del
singolo individuo, della libera responsabilità di ciò che fa e di
ciò che dice, delle azioni che compie e dei giudizi che pronuncia. In
tal senso, a mio avviso, il germe di ogni pensiero libertario sta,
in fondo, in un atteggiamento che, a suo tempo, fu introdotto nella
cultura occidentale, dalla filosofia: l’attegiamento
dell’individuo che rivendica il diritto all’analisi autonoma e
alla libera scelta e, osando la libertà di giudizio e di scelta,
con una sorta di propagnada del fatto, invita ogni altro a farlo.
Tuttavia, se
andiamo a vedere che configurazione prendono, nel pensiero politico
moderno, questi concetti di autonomia e responsabilità personale
dell’individuo, troviamo che, nel Seicento, sia il modello
autoritario di Hobbes sia quello liberale di Locke partono dal
concetto della eguaglianza originaria di tutti gli uomini, ma
entrambi, sul piano politico: a) considerano lo Stato, e le
diseguaglianze e le restrizioni della libertà che esso impone, come
qualcosa di inevitabile, e come le uniche graranzie possibili per
l’esistenza di margini di libertà e di diritto positivi; b)
legano la libertà alla proprietà, sancendo in primo luogo
l’intangibilità della proprietà esistente, e riservando le
libertà e i diritti, non a tutti gli uomini, ma solo ad un
ristretto numero di cittadini maschi che avendo un certo censo
contribuiscono, attraverso la tassazione, alla ricchezza statale.
I 2 modelli di
Hobbes e di Locke costituiscono i capostipiti dei due poli di
oscillazione entro i quali si muoveranno, a mio avviso,
pressocché tutti gli stati e tutti i governi occidentali, a partire
dai primi cicli di espansione capitalistica, che proprio in quel
tempo, incominciavano a svilupparsi, grazie alla colonizzazione
dell’America e dell’Africa. Questi 2 poli di oscillazione
sono: l’autoritarismo senza veli, delle dittature, e quello velato
delle democrazie capitalistiche. Sullo sfondo di entrambe queste
pozioni politiche, c’è un’antropologia secondo la quale la
società reale può offrire il pieno ed effettivo esercizio della
libertà e dei diritti solo a pochi, e precisamente a coloro che
hanno proprietà, a prescindere da come ne sono entrati in possesso,
o che hanno forza per appropriandosi dei beni, delle persone, e del
lavoro altrui.
C’è,
invece, un altro versante del pensiero moderno che rivendica il
diritto di ribellione, nei confronti dello Stato e dell’altrui
proprietà, ma lo ritiene legittimo solo per l’individuo
“eccezionale”, che si considera ‘superiore al volgo’, e
perciò dotato di privilegi che non sono concessi a tutti. Questo
tipo di ribellione contro il potere statale, quale si presenta nelle
rivolte aristocratiche di Sade e di Nietzsche, è in grado di
svelare molti meccanismi del potere,
ma rivendica la completa libertà solo per pochi, e accetta in
cambio la schiavitù dei molti.
A mio avviso,
è solo con la comparsa dell’anarchismo, nell’alveo del pensiero
socialista ottocentesco, che incomincia la ricerca di una sintesi
tra due irrinunciabili esigenze che, poco più tardi, saranno alla
base del pensiero di Malatesta:
·
La piena libertà, per ogni singolo individuo, di
maturare, attraverso le esperienze, le proprie scelte e i propri
criteri di scelta.
·
La uguale libertà
di tutti, e il principio del libero accesso alle risorse, intesi
come fondamenti materiali e scopi primi dell’organizzazione
sociale, realizzati a partire da una abolizione dei privilegi
economici, politici, sociali e culturali.
L’unione di questi
principi si mostrerà nel movimento anarchico, con l’affermarsi
dell’idea che sia possibile coniugare comunismo e libertà,
costruendo un comunismo libertario, e di questa idea Malatesta
sarà uno dei principali promotori e innovatori.
2.
Individuo e società
L’idea che sia
possibile una concordanza teorica e pratica fra questi due principi
si fa strada faticosamente, fra Ottocento e primo Novecento, nel
pensiero e nel movimento anarchico, scontando il peso di mille
contraddizioni epocali e personali dei suoi interpreti,
contraddizioni da cui, a mio avviso, proprio con Malatesta
incomincia ad affrancarsi in modo più maturo. Senza alcuna pretesa
riassuntiva, né tanto meno liquidatoria, ed esclusivamente in
funzione della precisazione di alcuni punti qualificanti e
innovativi del pensiero e dell’azione politica di Malatesta,
vorrei indicare, in modo estremamente schematico, alcuni limiti, o
ambiguità, a mio avviso, presenti nell’impostazione di 3
figure chiave, che, prima di Malatesta, avevano funto
da punti di riferimento del pensiero e del movimento anarchico.
Innanzitutto, Max
Stirner (1806.1856). Per lui ’autonomia, e la piena
libertà di giudizio e di azione del singolo individuo sono
l’elemento primario ed essenziale. Stirner è al di là
dell’individualismo aristocratico, perché la libertà che egli
rivendica per sé, a suo avviso, può e dovrebbe essere conquistata
da ognuno. Egli afferma l’autonomia dell’individuo dallo Stato,
dalla patria, dalla famiglia, dalla religione, dalla tradizioni,
dallo stesso concetto di umanità. Ma il nocciolo positivo della sua
filosofia, personalmente, mi desta varie perplessità. Stirner
applica a se stesso il concetto di proprietà privata,
affermando che si è proprietari di se stessi, e del proprio potere,
e in base a questa premessa punta tutto sulla rivendicazione
dell’egoismo come pratica individuale. Questa formula, pur potente
nel suo lato decostruttivo, va incontro, a mio avviso, da un punto
di vista anarchico, a pericolose ambiguità, in quanto non offre
alcun criterio decisivo per distinguere l’azione liberatoria,
postulata da Stirner, dalla legge del più forte, e del meglio
armato, e dall’accaparramento privato dei beni, che vigono nelle
società autoritarie e , nello specifico, nella società borghese.
Ad ambiguità del genere si espongono, a mio avviso, affermazioni
come quella seguente, tratta à, dal terzultimo cap.
ell’opera L’unico e la sua proprieta, intitolato “Il
mio potere”: “I comunisti affermano: ‘la terra appartiene
legalmente a colui che la coltiva ‘ … Io penso che essa
appartenga a chi sa prendersela, o a chi non se la lascia strappare.
Se se ne appropria, gli appartiene non solo la terra, ma anche il
diritto di possederla. Questo è il diritto egoistico, cioè, se per
me è giusto così, allora è giusto”.
Nel cap. successivo, questi concetti sono ribaditi, con accenti
quasi sadiani, nelle pagine in cui, criticando Proudhon, che aveva
definito la proprietà “un furto”, Stirner afferma che non
dobbiamo incolpare coloro che si appropriano dei beni, come se ci
derubassero, e che invece “noi stessi siamo colpevoli per il fatto
di non derubare gli altri”.
Seppure qui Stirner sottintende con la parola “altri” gli
attuali detentori delle grandi proprietà terriere e industriali, il
principio del “trasformare tutto in proprio”, che egli fa
valere, a mio avviso, non difende dal formarsi di una società
fondata sull’appropriazione selvaggia e sui privilegi dei più
forti.
In ogni caso, ciò
che ci interessa rilevare è che resta merito innegabile di questo
pensatore aver rivendicato, contro ogni autoritarismo, e contro
l’intera tradizione liberale, una applicazione piena e coerente
dell’autonomia individuale; e, nel contempo, che nella
forma in cui Stirner pensa l’anarchismo, la libertà individuale e
il comunismo appaiono ancora due cose inconciliabili fra loro.
Un primo tentativo
di connettere queste due esigenze si trova in Proudhon
(1809-1865), che prende le mosse dall’affermazione che
“la proprietà è un furto”, in quanto permette di appropriarsi
anche del lavoro altrui, dalla proposta di una “società senza
Stato”, dalla convinzione che la rivoluzione sociale sia il mezzo
più appropriato per realizzarla. Tuttavia, il concetto di
rivoluzione sociale di Proudhon finì, col passare del tempo, per
assumere toni sempre più sfumati e riformistici, e varie furono le
sue prese di posizione quanto meno ambigue: per es. l’iniziale
appoggio al colpo di stato di Napoleone III, nel 1851. Infine, egli
ripiegò, negli utltimi anni di vita, verso un programma di sapore
socialdemocratico, che si riconciliava con il libero commercio, con
la proprietà, con il parlamentarismo.
Comunque, col suo
passaggio “dalla rivelazione alla rivoluzione”, sia pure in modo
ancora ambiguo, e forse a tratti ingenuo, Proudhon aveva tentato di
coniugare l’autonomia e la libertà dell’individuo con una
organizzazione sociale basata sul superamento dello sfruttamento del
lavoro.
In Michail
Bakunin (1814-1876) troviamo, a mio avviso, da un lato il
rafforzarsi della saldatura fra queste 2 esigenze, dall’altro, le
continue oscillazioni e le contraddizioni di un anarchismo sociale
in fase di gestazione, una specie di potente e violenta eruzione del
pensiero anarchico, in cui tutte le sue componenti e tendenze sono
ancora mescolate: spontaneismo e organizzazione, fiducia romantica
in un progresso storico che sboccherà nella rivoluzione e
volontarismo, obiettivi anarchici e ricadute in una concezione
simile alla dittatura del proletariato, affermazione della coerenza
tra mezzi e fini e rivendicazione enfatiche del terrorismo, o
idealizzazioni del ruolo della violenza, di cui Malatesta tenderà
invece, a circoscrivere, scrupolosamente l’applicazione. Con
Bakunin, l’anarchismo prende corpo e volto, incomincia a
diffondersi tra le masse, e a trovarsi al centro di tutti i
più significativi tentativi rivoluzionari dell’epoca.
3. La
concezione malatestiana del comunismo libertario
Malatesta,
nonostante avesse una notevole formazione culturale, fu per
scelta il meno filosofo fra i grandi leaders del
movimento anarchico. Eppure proprio lui è stato, a mio avviso, quello che ha offerto,
con i suoi scritti e con le scelte politiche e di vita, l’idea più
equilibrata e matura di anarchia, e l’esempio di una coerenza che
è, nel contempo, capacità di rinnovarsi, nel tempo, e di
fronteggiare nuovi problemi.
Malatesta, che rifuggì
sempre dalla scrittura filosofica sistematica, come scrittore ebbe
sempre il grande dono della sintesi, intesa non come chiusura, e
risposta definitiva, ma come ricostruzione critica dei problemi,
delle differenze, dei fraintendimenti, dei dibattiti, degli
obiettivi, delle conciliazioni possibili e delle inconciliabilità.
Malatesta offre
un’idea di anarchia che a me pare incentrata sul tentativo di
riuscire a coniugare realmente comunismo e libertà di ognuno, e
concepì il comunismo libertario come una forma di organzizzazione
sociale che deve realizzare insieme i due principi che ho già
citato:
·
La piena libertà, per ogni singolo individuo, di
maturare, attraverso le esperienze, le proprie scelte e i propri
criteri di scelta.
·
La uguale libertà di scelta e di accesso alle risorse
per tutti, intesa come garanzia materiale e come scopo
dell’organizzazione sociale.
L’organizzazione anarchica e l’azione sociale come
laboratori del comunismo libertario
Qual è il punto
d’avvio per questa costruzione, quali sono i laboratori in cui
essa può essere tentata?
Malatesta
dà alcune risposte:
per lui, condizioni
basilari di possibilità per l’anarchia sono, in primo luogo, la
libera scelta e il libero accordo degli individui e dei gruppi. (s.
v. Rivoluzione e lotta quotidiana, pp. 95-6, ed. Antistato).
La pratica anarchica deve dunque innestarsi sul bisogno di libertà
e di espressione che è in ogni uomo. Laboratorio per questa ricerca
è ogni luogo di vita associata in cui si diano le condizioni minime
per tentarla. Ma, per Malatesta, subito dopo l’esperienza di vita
di ognuno, laboratorio per la costruzione di una società anarchica
è la gestione della stessa organizzazione anarchica, il modo in cui
essa si struttura al proprio interno, in cui affronta e gestisce le
differenze e vive i processi decisionali, e il modo in cui si
relaziona all’esterno, si inserisce nei movimenti, si radica nel
sociale.
Negli anni venti, in
polemica con il gruppo di Makn,
che applica il principio della “responsabilità colettiva”,
Malatesta insiste sull’assunzione indidividuale di responsabilità.
Per lui è fondamentale che l’organizzazione anarchica, intesa
come gruppo o federazione di gruppi, sia strutturata in modo
profondamente libertario
al proprio interno; sia cioè qualcosa di simile ad un laboratorio
in cui si sperimenta la coniugazione tra piena assunzione di
responsabilità e piena libertà di espressione di ogni singolo, da
un lato, e organizzazione collettiva delle lotte e di altri momenti
della vita sociale, dall’altro. Credo che questo sia un tema
importante. La capacità di esercitare una effettiva orizzontalità
nei processi decisionali, e di
evitare il più possibile concentrazioni delle responsabilità
e forme di delega, funziona come cemento interno sia nei gruppi, sia
nei movimenti, almeno quanto il loro contrario funziona come fattore
disgregante e respingente. Per fare un esempio odierno, quante fra
quelle decine di migliaia di persone che inizialmente si sono
avvicinate al movimento no global, ed hanno riempito le aule
dove si svolgevano le assemblee, si sono poi allontanate, dopo
qualche tempo, deluse dalla scoperta che, nel movimento, dietro la
retorica sul pluralismo e sull’organizzazione dal basso, si
riproducevano le stesse dinamiche di spartizione e contesa del
potere, gli stessi protagonismi esasperati e le stesse forme di
impantanamento, che sono proprie della politica ufficiale? A mio
parere, molte, troppe.
La pratica anarchica,
quale la intese Malatesta, richiede un impegno e una riflessione
anche in tal senso. Essa, per essere applicata coerentemente,
richiede a ognuno un lavoro di analisi critica delle proprie
personali forme di introiezione del dominio, , dei propri
modi di assimilare e riprodurre i meccanismi della gara per il
potere e le relazioni improntati all’accentramento di potere.
Un lavoro critico e autocritico che , in altra epoca e contesto, ha
nuovamente suggerito Foucault ,facendo tesoro dell’analisi
nietzschiana dei metodi di formazione sociale della volontà
individuale, e volgendoli in chiave di critica libertaria del potere
e dei saperi.
4.
Malatesta e i problemi del nostro tempo:
·
Crisi del comunismo autoritario e stato di salute del
comunismo libertario
In che misura è colpito il comunismo libertario di
matrice malatestiana dalla sentenza oggi ricorrente secondo cui
“il comunismo è morto”?
Credo che Malatesta individuò, con estrema lucidità,
già di fronte ai loro primissimi sviluppi, i limiti che avrebbero
condotto ad esiti fallimentari ed autoritari, due grandi esperienze
che hanno condizionato l’intera storia del Novecento: la scelta
dei socialisti europei per il parlamentarismo, e la rivoluziuone
russa. Del primo aspetto è testimonianza il dibattito
Malatesta-Merlino su anarchia e democrazia parlamentarista, degli
anni 1897-98, che è a mio avviso una vera miniera per una
conoscenza, non dogmatica e non astratta, dell’anarchismo sociale.
Penso che quanto che Malatesta afferma, in quelle pagine, sull’uso
ragionato del principio di maggioranza e minoranza, e su molti altri
problemi concreti, dovrebbe divenire, nuovamente, base per una
discussione sulle forme attuali della proposta e dell’azione
anarchiche, e dovrebbe
essere precisato, per quanto è possibile. Ciò contribuirebbe a
sfatare il mito dell’anarchia come caos che regna nei media e
nell’opinione pubblica. Il secondo aspetto è documentato dalle
lucidissime, e non ingenerose, analisi critiche dell’esperienza
leninista in Russia che Malatesta pubblica, in forma di lettere e
articoli, negli anni
1919-21, quando incominciano ad arrivare dalla Russia le prime
notizie attendibili.
Possiamo, allora, rispondere, almeno in prima istanza,
che il luogo comune oggi imperante secondo cui “il comunismo è
fallito”, in realtà, colpisce nel segno solo riguardo a quei
paesi e a quei partiti che divennero emblemi e modelli del socialismo
autoritario, o socialismo di Stato. E che questi partiti e
questi modelli sono falliti, in quanto, da sedicenti o reali
promotori di liberazione, si sono trasformati in nuovi strumenti di
oppressione, esattamente per le ragioni che, in tempi non sospetti,
Malatesta aveva evidenziato. Si è dimostrato perdente il modello
del Partito-Stato, e della rivoluzione intesa come un impadronirsi
dello Stato, come un prendere il potere al posto di coloro che lo
detengono, attualmente, puntando sull’accentramento autoritario di
tutti i poteri e di tutti i grandi apparati produttivi nelle mani
dello Stato-partito.
Questo modello, che divise radicalmente i comunisti autoritari da
quelli libertari, ha mostrato certamente la sua incapacità ad
arginare il ritorno della dittatura, del terrore,
dell’oppressione, dello sfruttamento. Ma, insieme all’idea della
rivoluzione come colpo di Stato, è stata sconfitta, sul piano
economico, anche la via del capitalismo di Stato che, alla lunga,
entro una medesima ottica di sfruttamento e repressione, si è
rivelata perdente nella competizione con il capitalismo basato sul
profitto privato.
E non meno fallimentare, come Malatesta tentò di
chiarire per tempo a Merlino, doveva riverlarsi l’esperienza di
quei partiti e sindacati che, in nome del socialismo e del
comunismo, perseguirono in realtà una integrazione sempre più
organica all’interno del capitalismo e del sistema parlamentare,
fino a smarrire completamente le motivazioni che, inizialmente, li
avevano spinti a concepirsi come forze antagoniste al sistema
vigente, fino a divenire
i principali strumenti di controllo delle masse lavoratrici,
nelle mani del sistema capitalistico stesso.
Dunque, come ha osservato recentemenete C. Scarinzi,
nel suo Enigma della transizione, il crollo del socialismo
autoritario, e la paralisi delle cosiddette "sinistre"
parlamentari, renderebbero oggi virtualmente possibile il rilancio
della prospettiva del comunismo libertario. Anzi sembra, scrive
Scarinzi, che il movimento anarchico
giochi, in tal senso, "un ruolo inferiore a quello che
parrebbe possibile in
un contesto apparentemente favorevole". Occorre, a mio avviso,
tener conto del fatto che tale contesto è, oggi, favorevole di
diritto più che di fatto. In altre parole, è vero che il fatto
che l’anarchismo comunista fosse, almeno in certa misura,
vaccinato, fin dall’inizio del secolo, dalle vocazioni autoritarie
del socialismo di stato, è stato alla
base, in anni recenti, successivi al crollo del regime
sovietico, di una riscoperta e di una rinnovata attenzione per la
tradizione culturale anarchica, da parte di settori della nuova
intellettualità e dei nuovi movimenti di sinistra. Questo rinnovato
interesse culturale e sociale è il rovescio del rinnovato attacco
repressivo da parte delle istituzioni verso il movimento anarchico
nella sua generalità. Ed è vero che il crollo del socialismo
autoritario e di quello parlamentarista hanno effettivamente creato
un deficit di proposte complessive di superamento della
società capitalistica, che il comunismo libertario potrebbe
virtualmente riempire. Anche il fatto che i nuovi movimenti contro
la globalizzazione abbiano sentito il bisogno di cercare, purtroppo
più esteriormente che praticamente, la loro legittimazione
nell’orizzontalità, nel pluralismo, nel rispetto delle minoranze,
nell’organizzazione non partitica, cioè in aspetti che si
richiamano, sia pur vagamente, alla tradizione libertaria, è segno
di una rinnovata attenzione. Ma l'esaurimento dei cicli di lotte
degli anni '60 e '70 ha lasciato in molte parti del mondo, e
specialmente in Europa, un vuoto di organizzazione autonoma degli
sfruttati, che è stato quasi interamente riempito da forze
asservite al capitale. Quasi tutti i movimenti ispirati al
socialismo hanno subito, negli ultimi decenni, una gigantesca crisi,
quasi dappertutto le classi lavoratricie gli sfruttati, gli esclusi,
hanno visto peggiorrare la loro situazione. Anche la pratica
anarcocominista va dunque oggi radicalmente ripensata. Il comunismo
libertario non è, a mio avviso, e non era per Malatesta, un
ricettario magico che si possa in ogni momento cavar fuori dal
cappello della storia, intatto e pronto per l’uso: esso
costituisce piuttosto un piccolo insieme di principi regolativi
negativi, privativi, che suggeriscono ciò che è necessario non
fare, se non si vuol ripetere sempre da capo quel movimento che
contrasta un potere solo per ricrearne uno speculare, e non meno
autoritario.
·
Sui problemi
dell’organizzazione sociale anarchica e della sua realizzazione
Luciano Nicolini osserva che molto spesso gli è
capitato di sentirsi dire: "Voi libertari avete ottimi
principi, ma come è possibile organizzare una società basata su di
essi?" O domandare: "ammesso che una società libertaria
sia teoricamente possibile, come si può, nella pratica, costruirla?
Penso che gli anarchici, se intendono radicare il loro
modello di vita nella società, dovrebbero farsi portatori di una
proposta complessiva di trasformazione e riorganizzazione in senso
libertario delle attività sociali fondamentali, ma anche
incominciare a sperimentare, in questa fase storica, pratiche di
autogestione libertaria, per quanto le condizioni date lo rendono
possibile, come ad es. si tenta a Spezzano Albanese e in altri
luoghi. Per diventare modalità di vita e forme di lotta ampiamente
condivise, le proposte di organizzazione libertaria della società
devono contenere principi di autoregolazione chiari, comunicabili,
comprensibili e, almeno in parte, sperimentabili nei loro aspetti
basilari sia negativi (cosa eliminare) sia positivi (come
organizzare). Anche se è giusto il rilievo di Malatesta secondo il
quale, al di là di alcune linee guida, non è possibile
predeterminare, nel dettaglio, le forme organizzative di una società
anarchica, perché esse dovrebbero emergere dalla libera
sperimentazione delle concrete comunità di vita, ognuna delle
persone a cui si propone di organizzare la società in modo
anarchico, e magari di rischiare la vita per ottenere questo scopo,
ha diritto di conoscere il più chiaramente possibile tali linee
guida: sapere come gli anarchici intendano risolvere i problemi
relativi a tutti i servizi sociali basilari, alle forme più
elementari e indispensabili di tutela, ai trasporti, alle
comunicazioni, all'istruzione ecc.
Nel dibattito del 1897-98, se in molti punti Malatesta
poté dimostrare l’inconsistenza della conciliazione fra anrchismo
e parlamentarsimo, tentata da Merlino, anche quest’ultimo pose
importanti domande e difficili problemi che, ovviamente, non sempre
Malatesta poté adeguatamente fronteggiare: come risolvere in una
società anarchica il problema della difesa, dell’autodifesa,
della risoluzione delle controversie? Sarebbe inevitabile, anche in
una società anarchica, vietare alcune cose (per es.
l'accaparramento dei mezzi di produzione)? Domande che sono rimaste
nel movimento anarchico. In un suo breve scritto scritto di qualche
anno, il già citato Nicolini si chiedeva se un’organizzazione
sociale libertaria debba prevedere, per autodifendersi, "sia
pur limitatissimi mezzi coercitivi", e se saranno necessarie,
per motivi organizzativi, alcune forme di delega e di
rappresentanza, per quanto limitate, revocabili, circoscritte.
Malatesta aveva chiaramente indicato, e lo ha recentemente ribadito
Scarinzi, che anche in una società anarchica, come talvolta nella
federazione anarchica, è necessario prendere decisioni, a
maggioranza.
Per cocncludere, appare inevitabile, dal mio punto di vista, ripensare
anche i concetti di "rivoluzione" e
"rivoluzionario". A mio avviso va, innanzitutto, messa in
discussione l’aspettativa messianica e salvifica, ancora
intensamente diffusa all’epoca di Malatesta, che fa della
rivoluzione un analogo del giorno del giudizio, a partire dal quale
comincia una sorta di paradiso terrestre. Il modo in cui si poteva immaginare, o vivere, ai tempi di Malatesta, una
rivoluzione è oggi probabilmente, in molte zone del mondo, reso
anacronistico dalla sproporzione di forze e di armamenti che rende
inverosimile una liberazione con le armi in pugno. A mio avviso, del
principio malatestiano secondo cui la rivoluzione anarchica implica
necessariamente un momento violento, perché i proprietari e i
detentori del potere non accetteranno mai di lasciasi espropriare
pacificamente, resta oggi il nocciolo negativo: anche il più
accanito pacifista deve essere consapevole che, se riuscirà a
ostacolare in qualche misura i centri di potere, essi faranno tutto
ciò che possono per neutralizzarlo. Ilaria Alpi, che non credo
fosse anarchica, per fare un esempio fra tanti possibili altri, è
stata uccisa semplicemente perché cercava di scoprire e svelare un
traffico di armi e scorie radioattive. Occorre dunque non farsi
illusione, cioè essere consapevoli, malatestianamente, che i poteri
vigenti useranno le proprie armi e i propri mezzi, fino in fondo,
anche contro la più pacifica iniziativa anticapitalistica o
antiautoritaria, se questa cominciasse ad insidiarli, o a
diffondersi.
Per
Sade si vedano frasi di
questo tipo, ricorrenti nell’opera del marchese: “Come? Un
sovrano ambizioso potrà distruggere a suo piacimento e senza il
minimo scrupolo i nemici che nuocciono ai suoi piani di
grandezza […] e noi, deboli e infelici creature, non potremmo
sacrificare un solo essere alle nostre vendette e ai nostri
capricci?” (De
Sade D. A. F. , La filosofia nel boudoir, Milano, SE,
1986, p. 56). Per Sade, poiché lo Stato è un puro parassita
dell’esistenza umana, e altrettanto si può dire di ogni
istituzione religiosa, ogni individuo è autorizzato, a sua
volta, a ritornare allo stato di natura hobbesiano, cioè alla
“guerra di tutti contro tutti”, e comportarsi come parassita
nei riguardi degli altri uomini e delle istituzioni stesse. Sade
è una punta estrema di quella critica del potere statale, di
provenienza aristocratica, che aveva già avuto in inghilterra e
in Francia una sua tradizione. L’individuo sadiano non
rispetta le leggi, ma neanche mette in discussione l’organzizzazione
gerarchica della società. Egli si limita a sfruttare, ovunque
può, indiscriminatamente, gli altri a vantaggio del proprio
piacere e potere. Per Nietzsche si vedano, almeno, la seconda
dissertazione della Genealogia della morale, in cui
l’autore ragiona, fra l’altro, sulle origini dello Stato, e
il discorso “Del nuovo idolo”, in Così parlo Zarathustra,
dedicato all’analisi del rapproto fra lo Stato e l’individuo
che rivendica la piena autonomia, che termina con la seguente
considerazione: “Dove finisce lo Stato comincia l’uomo che
non è superfluo”.
La citazione è tratta da M. Stirner, L’unico e la sua
proprietà, ed. Anarchismo, p. 177. Nel valutare l’opera,
ho tenuto ampiamente conto anche della traduzione offerta da
Adelphi.
Stirner sembra chiudere
la polemica con Proudhon con un’apologia
dell’appropriazione: in realtà, secondo lui, ogni uomo è
mosso dalla volontà di appropriarsi di ogni cosa (rispuntano
qui in Stirner l’ntropologia di Hobbes e di Sade) ma quasi
tutti, ipocritamente, “invece di trasformare l’estraneo in
proprio”, sono parole sue, fingono “imparzialità”.
Stirner ha comunque dato un contributo importante alla pars
destruens del discorso anarchico ed ha segnalato un
problema, quello del rapporto fra anarchia e proprietà privata,
che sarà ancora oggetto di riflessione, nell’ambito della
discussione sulle differnze fra comunismo e collettivismo, ai
tempi della polemica Malatesta-Merlino, nel 1897.
Si veda, a questo
proposito, l’ultima opera del pensatore francese, De la
capacité politique des classes ouvières, Paris, 1865, tr. it. La
capacità politica delle classi operaie, Città di Castello
1920.
Questo modello aveva le sue radici nel Manifesto del Partito
Comunista di Marx anche se in realtà Marx stesso lo aveva
rimesso in discussione dopo l’esperienza della Comune
parigina. Esso fu poi poi consacrato dalla rivoluzione russa e
dalla tradizione marxista-leninista, basato. Esso
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