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L'insurrezionalismo malatestiano nell'epoca del disordine di Stato

di Comidad-FAI

 

Gli ultimi anni della vita di Malatesta, fino alla morte nel 1932, furono vissuti nelle strettoie della sorveglianza della polizia fascista, in una condizione che, anche se non formalmente, consisteva in arresti domiciliari. L'arresto o il confino colpiva con regolarità tutti coloro che cercavano di avvicinarlo, configurando un isolamento che è testimoniato dalla scarsità degli scritti di quel periodo. L'unica rilevante eccezione a riguardo è costituita, come è noto, dal dibattito con Mackno sull'organizzazione, originato dalla cosiddetta "Piattaforma", il progetto di Unione generale degli Anarchici formulato da un gruppo di anarchici russi in esilio.

Non è quest'ultimo, però, il tema che intendiamo affrontare, che riguarda invece una domanda che in molti si sono rivolti a suo tempo, ed anche successivamente: perché Malatesta preferì rinunciare alla fuga all'estero?  Perché non  accettò un esilio che gli avrebbe permesso di cercare di riorganizzare la lotta insurrezionale fuori dall'Italia?

Altri due rilevanti personaggi dell'antifascismo fecero una scelta analoga: Benedetto Croce e Amadeo Bordiga. Ma le motivazioni di Croce possono risultarci evidenti: egli fu sino all'ultimo un lealista monarchico, e non avrebbe accettato in nessun caso di porsi in polemica diretta con il re.

Le motivazioni di Bordiga, il fondatore del Partito Comunista d'Italia, poi da questo espulso, invece,  potrebbero forse avere delle analogie con quelle di Malatesta, perciò non le tratteremo a parte.

È facile immaginare cosa sarebbe accaduto se Malatesta fosse riuscito a riparare all'estero, in qualche paese "democratico": un personaggio della sua fama internazionale avrebbe avuto addosso la stampa democratica, intenzionata ad estorcergli l'ammissione della preferibilità di un regime democratico a confronto di un regime dittatoriale.

Non è ardito supporre che alla base del rifiuto del fuoruscitismo da parte di Malatesta, vi sia stata proprio la preoccupazione di non avallare, di non legittimare la democrazia come "male minore", sistema che non sarebbe perfetto, ma da preferire comunque ad una dittatura.

In realtà la democrazia ha il crisma della perfezione per ciò che concerne la sua inesauribile capacità di mistificazione, che ne fa il regime perfetto dell'inganno intrecciato alla violenza.

Accreditare che i regimi democratici occidentali siano "altro" rispetto alle dittature, significa assolverli dalle loro responsabilità nella nascita e nel consolidamento della dittatura fascista e di quella nazista e, successivamente, in tutte le dittature che si sono avvicendate nel mondo.

Pare proprio che senza un'esplicita teorizzazione, ma forse più che intuitivamente, Malatesta abbia dato la priorità ad una questione di comunicazione, di demistificazione, piuttosto che ad un'urgenza d’insurrezionalismo pratico.

Rifiutarsi di affrontare il fascismo come fenomeno isolato rispetto al Dominio borghese mondiale, significava porre all'attenzione l'importanza di demistificare il fascismo, non accreditandolo di essere un fenomeno nazionale, e neppure nazionalistico.

Si sarà notato che questa discussione non procede attraverso la consueta analisi dei testi malatestiani, dato che il periodo della vita di Malatesta che si sta cercando di approfondire è il più povero di testi con cui porsi in relazione. Si tratta di spiegare la scelta del rifiuto dell'esilio attraverso la biografia politica di Malatesta, non soltanto della persona, ma anche del personaggio che egli, per forza di cose si è trovato a gestire.

La fama è strutturale al personaggio, anche se non alla persona, di Malatesta, perciò non se ne può prescindere nell'analisi complessiva della sua biografia politica. Malatesta divenne famoso a livello nazionale ed internazionale - famoso, si badi bene, non famigerato - all'epoca dell'impresa insurrezionale del Matese, del 1877, quindi in età ancora giovane. Quest’impresa, sebbene fallita come progetto insurrezionale, determinò un rapporto privilegiato di Malatesta con l'opinione pubblica italiana e mondiale.

Egli divenne quindi una figura popolare, anche in ambienti certamente non rivoluzionari, a causa di un tentativo insurrezionale.

Questo dato dice molto circa lo stato d'animo generale della società dell'800 nei confronti dell'insurrezionalismo. Degli Stati che si erano legittimati come eredi di Risorgimenti nazionali - magari tradendo quegli stessi Risorgimenti, come appunto lo Stato italiano -, non potevano a loro volta permettersi subito di delegittimare sino in fondo l'attività insurrezionale di gruppi pur minoritari, che però si ricollegavano nel fatto e nel diritto alla tradizione risorgimentale. Tutti i grandi pensatori del Risorgimento italiano - Mazzini, Cattaneo, Pisacane - furono degli attivi insurrezionalisti, direttamente e personalmente coinvolti in imprese insurrezionali. Persino il moderatissimo Alessandro Manzoni prese aperta posizione a favore di moti insurrezionali e, per uno di questi, scrisse anche la famosa poesia Marzo 1821.

Quando parliamo di Risorgimento italiano, non ci riferiamo ovviamente all'unificazione italiana operata da Cavour e da Vittorio Emanuele II con l'aiuto di Luigi Bonaparte prima, dell'imperialismo britannico poi, dell'espansionismo prussiano ancora dopo; ci riferiamo invece al Risorgimento propriamente detto, cioè al periodo che va dal 1821 al 1849. Quello, e solo quello, è il Risorgimento italiano, non certo le varie fraudolente e criminali annessioni al Regno Sabaudo. In quel periodo rinasce la nazione italiana attorno a dei punti di riferimento - vorremmo risparmiarci e risparmiarvi la logora parola "valori -, dei punti di riferimento umanitari, sociali ed universalistici, nulla di grettamente nazionalistico. Basti pensare che l'abolizione della pena di morte era diventata un elemento unificante della rinata identità, e dignità, nazionale.

L'Anarchia poteva inserirsi in questa tradizione ed essere individuata come una possibile erede di quella stessa tradizione. Non importa che ciò sia stato voluto o meno, sta di fatto che era visto generalmente in questo modo.

Chi legga quel bellissimo libro che è Mezzo secolo di Anarchia di Armando Borghi, può rendersi conto che in tutta una fase dello sviluppo del movimento rivoluzionario in Italia, dall'ultimo quarto del XIX secolo sino alla prima Guerra Mondiale - vi era una comune identità nazionale, nella comune tradizione risorgimentale, tra le due parti in scontro sociale durissimo e spesso cruento (basti pensare alla strage del '98). Borghi fornisce una curiosa aneddotica a riguardo. Egli narra di come Pietro Gori, l'autore di Addio Lugano Bella, fosse un avvocato spesso impegnato nella difesa di compagni vittime della repressione, ma godesse della stima e della considerazione dei giudici che si trovava di fronte, tanto che uno di questi giudici lo pregò una volta di non occuparsi più della difesa di imputati, altrimenti non si sarebbe mai sentito di condannarli.

Uno dei primi ad operare questo tipo di riflessione fu l'economista liberista Luigi Einaudi che sarebbe diventato Presidente della neonata Repubblica Italiana nel secondo dopoguerra. Nell'agosto del 1900, all'indomani del regicidio di Monza, Einaudi scrisse un articolo su Francesco Saverio Merlino, allora difensore di Gaetano Bresci, articolo nel quale, senza mezzi termini, inquadrava l'attentato di Gaetano Bresci in una tradizione risorgimentale divenuta ormai ingombrante, poiché legittimava la pratica della ribellione ed anche del tirannicidio. Nell'articolo, Einaudi citava anche il nome di Malatesta, senza peraltro sentire neppure il bisogno di spiegare chi fosse, tanto il suo nome era abituale nello scenario politico del primo '900; ciò sebbene in quel periodo lo stesso Malatesta fosse quasi sempre costretto all'esilio, un esilio rifiutato però in presenza del fascismo.

La delegittimazione della tradizione risorgimentale avvenne proprio ad opera del fascismo, e non in modo indiretto, bensì con un’esplicita presa di posizione ideologica. Nel Manifesto degli intellettuali fascisti, del 1925, apparve per la prima volta la tesi secondo cui il risorgimento sarebbe stato un fenomeno elitario, che non avrebbe mai coinvolto le masse. Nel Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce e pubblicato appena dieci giorni dopo l'altro, la tesi degli intellettuali fascisti veniva demolita sulla base dei tradizionali ideali risorgimentali, che non inquadravano la condizione di minoranza dei gruppi patriottici come l'assunzione di una posizione di élite moralmente privilegiata, scorgendo anzi nel mancato coinvolgimento delle grandi masse un limite da superare. Insomma, secondo Croce, se il Risorgimento non fu popolare nelle dimensioni, lo fu certamente nei sentimenti e negli ideali, perciò nulla nella tradizione risorgimentale poteva essere adoperato per avallare una visione gerarchica ed elitaria della società. Del resto la lotta politica è sempre operata da minoranze organizzate, mentre le masse sono integrate nel Dominio (altrimenti che Dominio sarebbe?), ed il coinvolgimento delle masse nei movimenti di opposizione non può essere affatto un dato costante, semmai episodico.  La questione vera, il vero punto di distinzione, anzi di contrapposizione, è tra le minoranze che si pongono in modo esclusivo e oligarchico, e quelle che invece fanno della non esclusione il loro metodo caratterizzante.

Come si vede, anche Croce colse l'autentico nucleo antirisorgimentale ed antinazionale del fascismo, perciò non si può escludere che nel suo rifiuto dell'esilio avesse parte non solo il lealismo monarchico, ma anche la preoccupazione di non dare adito a strumentalizzazioni antitaliane. Ma la posizione di Croce non assunse nessun aspetto "scandaloso" per l'opinione pubblica, proprio a causa di quella sua lealtà a casa Savoia, da lui ritenuta erroneamente come una depositaria della tradizione risorgimentale. Ma nella realtà i Savoia hanno solo sfiorato, con Carlo Alberto, il Risorgimento vero e proprio, quello che si concluse nel 1849. I Savoia hanno subìto la tradizione risorgimentale e non hanno esitato ad allearsi con coloro che quella tradizione hanno sovvertito.

Non si può dubitare del carattere provocatoriamente antitaliano del fascismo, dato che Mussolini non perse mai occasione per denigrare l'Italia e gli italiani, questo persino nelle circolari ministeriali, nelle quali qualsiasi espressione di indisciplina degli impiegati viene sprezzantemente bollata come "costume italico". È significativa l'affinità delle espressioni antitaliane di Mussolini con le tesi della cosiddetta destra "austriacante", che si opponeva al Risorgimento con gli argomenti consueti sulla inferiorità italiana nei confronti dei popoli del Nord Europa, e con il rifiuto dell'idea di una pari dignità di tutti i popoli. Il fascismo fu più un residuo delle tesi austriacanti che non una degenerazione del Risorgimento, anche se, ovviamente, la propaganda fascista non poteva  prescindere da un risorgimentalismo retorico. L'introduzione della pena di morte - che era stata abolita su proposta del ministro Zanardelli, eroe delle Dieci Giornate di Brescia -, fu però un tradimento esplicito e sostanziale dell'identità risorgimentale.

Anche le leggi razziali del 1938 sono state un tradimento plateale della tradizione risorgimentale, che aveva dato un contributo fondamentale contro il pregiudizio antisemita, basti pensare a certi scritti di Carlo Cattaneo, oppure, più semplicemente, ad un inno come il Va pensiero di Verdi (a proposito: fu censurato dopo le leggi razziali?).

Il sospetto che il fascismo non fosse un fenomeno politico autenticamente autoctono, che non fosse cioè l'espressione di una mera degenerazione del costume politico maturata autonomamente in Italia, Benedetto Croce lo avanzò indirettamente con la sua teoria del "fascismo come parentesi della Storia italiana". Che il fascismo sia stato in realtà il prodotto di un’ingerenza esterna, non è un'ipotesi ardita, così come molti indizi convergono nel far supporre che Mussolini non sia stato un "rinnegato", ma, sin dall'inizio della sua carriera politica, un agente provocatore agli ordini di servizi segreti di potenze occidentali.

Malatesta sapeva, poteva facilmente prevedere, che il suo rifiuto dell'esilio sarebbe stato strumentalizzato dalla propaganda fascista, la quale si sarebbe servita della presenza del famoso rivoluzionario in Italia per accreditare l'immagine di una dittatura paternalistica e tollerante. Così fu, infatti,. Armando Borghi riferiva con indignazione i comunicati stampa rilasciati dal regime fascista in occasione della morte di Malatesta, comunicati in cui non si faceva risparmio di menzogne spudorate, in cui si arrivava a sostenere che il vecchio rivoluzionario, negli ultimi anni, di vita fosse stato ospitato dal regime in una casa procuratagli per interessamento dello stesso Mussolini.

Evidentemente lo stesso Malatesta dovette porsi il problema di quale possibile strumentalizzazione sarebbe stata più nefasta e più foriera di confusione per il futuro. Qui va colto il senso, il filo conduttore, del metodo malatestiano, che non punta mai ad un’astratta "irreprensibilità" nei confronti delle provocazioni e della ostilità pregiudiziale della comunicazione ufficiale, ma segue le sue priorità. Le democrazie occidentali costituivano evidentemente per Malatesta il "potere forte" nei confronti del quale era prioritario non mostrare concessioni e cedimenti, perché ciò avrebbe determinato uno smarrimento definitivo dell'identità anarchica.

Le democrazie occidentali, che producono dittature tramite la loro diretta ingerenza in paesi più deboli, e poi si servono di quelle stesse dittature per legittimare se stesse in quanto "meno peggio" dei loro nemici, queste democrazie occidentali sono un nemico molto più subdolo del loro sottoprodotto fascista.

La legittimità delle democrazie non si fonda su cosiddetti "valori" o su punti di riferimento certi, al contrario questi "valori" e questi punti di riferimento sono continuamente spazzati via, avviliti, ridicolizzati in nome dell'interesse immediato delle oligarchie dominanti. L'unica legittimità che la democrazia accampa in continuazione, le deriva dalla "mostruosità" dei suoi nemici, sempre impresentabili, sopra le righe, fanatici e folli.

Ecco perché il produrre disordine interno ed internazionale diviene l'interesse - e l'urgenza - dei regimi democratici.  La provocazione e la destabilizzazione divengono attività operate su larga scala, da apparati dello Stato creati allo specifico scopo di compiere attività criminali. L'insurrezione non soltanto deve essere bollata di terrorismo, ma deve essere realmente tale, il terrorismo deve risultare l'unica opposizione alla democrazia, l'unica opposizione esistente e l'unica opposizione possibile.

Il colonialismo contemporaneo ha infatti una carica di repulsione razzistica  che nemmeno il brutale colonialismo ottocentesco era riuscito ad esprimere. L'imperialismo britannico, criminale sino al midollo, risentiva di un certo fascino dell'esotico, testimoniato dagli scritti di Kipling e Conrad, quindi non sempre riusciva evitare l'integrazione con le diversità che andava a sottomettere. La carica razzistica dell'americanismo - che non si assume mai responsabilità imperiali, ma gioca vittimisticamente su una fasulla  necessità di doversi difendere -, questa carica razzistica dell'americanismo   appare invece illimitata, non soltanto esprime orrore per le diversità reali (mentre in astratto le ammette), ma soprattutto riesce ad inventare nella sua propaganda un grado di diversità mostruosa che adopera come referente negativo e come testimonianza della propria superiorità sul resto del mondo. Il terrorismo rimane dunque l'unico nemico possibile, da evocare e, soprattutto, da coltivare con i metodi dell'infiltrazione e della mistificazione da parte dei servizi segreti.

Quando si sia raggiunta una sufficiente sproporzione di forze, allora l'ordine non è più necessario alla gerarchia. Se il Dominio dispone di una potenza materiale molto superiore ad ogni suo possibile avversario, in questo caso l'ordine è un disturbo per il Dominio, mentre il disordine e la provocazione divengono armi indispensabili per consentirgli di esercitarsi come Dominio.  È lo squilibrio delle forze in campo ad aver consentito l'ingresso nell'epoca del disordine di Stato. Beninteso, disordine e provocazione sono sempre state in qualche modo armi del Dominio, ma solo dall'ultimo secolo si sono verificate le condizioni di potenza materiale  che rendessero l'ordine pubblico del tutto obsoleto, un residuo del passato. Oggi il mito della "legalità" è diventata il paravento della illegalità di Stato, della destabilizzazione intesa come strumento di intossicazione dei pensieri e delle azioni.

Oggi le forze dell'ordine sono diventate le forze della provocazione , le agenzie del disordine istituzionalizzato, ciò grazie ad una disponibilità di mezzi materiali che non poteva ancora verificarsi cento e o centocinquanta anni fa.

In questo senso occorre cogliere il vero senso dello psicodramma e della messinscena della lotta al terrorismo. Non è rilevante che l'opinione pubblica creda davvero all'autenticità dei kamikaze, o all'esistenza di Bin Laden (non bisogna ritenere le persone più stupide di quello che sono). Il punto essenziale della messinscena consiste nell'esibizione di forza e di potenza del Dominio. Il vero orrido ispirato dalle icone dei terroristi non consiste tanto nel loro fanatismo, quanto nella loro sostanziale impotenza. I terroristi sono destinati  a perdere, ed è questo che ispira repulsione, la loro debolezza è la loro colpa davvero imperdonabile.

Sono in molti a sforzarsi di dar torto ai potenti e ragione ai deboli, ma quasi nessuno vi riesce. La forza è una ragione forte che spinge a darle ragione, almeno in parte. Marx, ad esempio, ha trasformato la critica del capitalismo in apologia dello stesso capitalismo e della borghesia e, insieme ad Engels, nel Manifesto dei Comunisti giunge a irridere gli sforzi conservatori degli operai di fronte allo slancio rivoluzionario della borghesia. Marx fa quindi propria, senza riserve, la mistificazione semantica che considera conservatrice qualsiasi opposizione al cambiamento, anche quando tale cambiamento vada nel senso della restaurazione o del consolidamento dei privilegi di classe.

In realtà il termine "conservazione" indicava in origine soltanto la tendenza politica intenzionata a mantenere i tradizionali privilegi di classe, privilegi che possono essere mantenuti anche promuovendo mutamenti economici e sociali. D'altra parte il Dominio rivendica per sé anche l'aura del progresso e, troppo spesso, anche i suoi oppositori gliela riconoscono sbrigativamente.

Riteniamo che tutti, più o meno, si ricordino qualcosa della storia del banchiere anarchico di Pessoa. Ciò che abbiamo trovato dapprima irritante nella lettura di quel racconto, è stato di non trovarvi nessun arguto sofisma che giustificasse il paradosso. Poi, riflettendoci meglio, ci siamo resi conto che non c'era nessun sofisma da cercare. Pessoa dice una cosa sin troppo ovvia: gli esseri umani sono conformisti, alla fine tendono sempre a dare ragione al forte e torto al debole, perciò il "peggio per te" e il "si salvi chi può" costituiscono il modo di pensare che emerge quando cade ogni residuo velo di ipocrisia. Gli esperimenti di psicologia sociale di Ash e di Milgram hanno conferito al conformismo appunto il crisma di una verità sperimentale ufficiale, ma anche facilmente sperimentabile da ognuno.

Ogni movimento di opposizione è destinato alla lunga a perire per il semplice fatto di essere ancora opposizione, quindi di non essere adeguato alle proprie aspirazioni. Per opportunismo e per conflittualità interna, ogni opposizione si logora e si consuma nella faida intestina a causa della sua inferiorità di forze che la spinge a rivolgere all'interno la propria aggressività.

Il luogo comune dice che tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile. Si invoca l'astratta categoria della Storia, la quale, come presunta scienza, si riduce a dar ragione ai vincitori e torto ai perdenti e, come impersonale entità sovrastante le umane sorti, non è altro che una figura retorica della propaganda, il tribunale dei vincitori.

La vera Storia, però, è fatta di scelte quotidiane, e ci sono individui che diventano indispensabili, perché possono riorientarla in un senso o nell'altro perché non sono espressione del conformismo, sanno sfuggire a tutte le trappole che la rivendicazione astratta delle proprie buone ragioni e delle proprie buone intenzioni  dissemina nel cammino, difendono le proprie posizioni e le proprie priorità senza ricorrere all'esclusione di questo o di quell'altro, non si perdono in contrapposizioni pretestuose ed in affannose ricerche di identità a scapito dell'unità, non sono dei leader ma, al tempo stesso, diventano dei punti di riferimento insostituibili, perché sanno far ritrovare anche agli altri i punti di riferimento.

Una delle astuzie del conformismo per travolgere le resistenze anche di chi sia intenzionato a resistergli, è la demagogia, lo scavalcamento a sinistra, la retorica dell'azione a tutti i costi. A causa della scelta di rimanere in Italia durante la dittatura fascista, Malatesta si è trovato di fronte a molte di questa obiezioni demagogiche.

Beninteso, sarebbe un fraintendimento inaccettabile del nostro discorso, interpretarlo in qualche modo come critica a coloro che hanno preso la via dell'esilio durante il ventennio fascista. Una tale critica sarebbe illegittima  perché non terrebbe conto delle condizioni reali e dei pericoli effettivi che hanno ispirato certe scelte. Noi ci stiamo riferendo a quei casi specifici in cui la via dell'esilio non era resa inevitabile dalla pressione degli eventi, ma diventava una scelta politica ed una presa di posizione politica.

Ci stiamo riferendo, ad esempio, alla fuga di Filippo Turati, organizzata per precisa scelta politica della direzione del Partito Socialista. In un'intervista televisiva rilasciata a Sergio Zavoli nel 1970, Pietro Nenni spiegò quella scelta con l'esplicita intenzione di differenziarsi dalla linea di condotta adottata da Malatesta a riguardo. Il nome di Malatesta fu quindi citato da Nenni, anche se rispettosamente, come referente negativo, come esempio da cui prendere le distanze.

Da antifascisti coraggiosi quali erano, Pertini e Parri spiegarono le loro motivazioni durante il processo che subirono per aver organizzato la fuga di Turati. La permanenza di Turati avrebbe costituito, secondo loro, un avallo al regime fascista, perciò per Turati abbandonare l'Italia significava assumere una decisa posizione a favore della democrazia.

In altri termini,  Malatesta, in  quanto anarchico ed insurrezionalista, anzi come simbolo mondiale dell'insurrezionalismo anarchico, doveva rimanere in Italia per non alimentare illusioni democratiche e pseudolegalitarie; mentre Turati, socialista riformista e parlamentarista,  non se lo poteva permettere.

Ecco che quindi, l'insurrezionalismo non implica il cascare nella provocazione demagogica dell'azione a tutti i costi. In certi momenti, significa soltanto assumere una posizione demistificatoria e trasparente contro tutte le provocazioni del dominio.

Una fuga in Francia o in Inghilterra o negli Stati Uniti, avrebbe significato sorvolare sulle responsabilità di questi Stati nella carriera di Mussolini e nell'avvento della sua dittatura. Turati scelse di sorvolare su questo aspetto e di lasciar  quindi ritenere che il fascismo fosse esclusivamente un prodotto della degenerazione italiana, espressione dell'immaturità politica del popolo italiano. È la visione del dominio democratico del mondo: vi sono popoli che la democrazia l'avrebbero nel loro DNA, gli apparterebbe per Storia e vocazione, mentre vi sono altri popoli  che possono avere la democrazia solo se vengono liberati dalle armi dei popoli geneticamente democratici.

Malatesta scelse invece di non sorvolare sulle dirette responsabilità degli Stati democratici nell'avvento del fascismo e rifiutò di lasciar credere che il fascismo fosse solo una malattia italiana, perciò la sua era la posizione anarchica e insurrezionalista, ma era anche la posizione in sintonia con l'autentica tradizione risorgimentale, nel senso della pari dignità di tutti i popoli.