L'insurrezionalismo
malatestiano nell'epoca del disordine di Stato
di
Comidad-FAI
Gli ultimi anni
della vita di Malatesta, fino alla morte nel 1932, furono vissuti
nelle strettoie della sorveglianza della polizia fascista, in una
condizione che, anche se non formalmente, consisteva in arresti
domiciliari. L'arresto o il confino colpiva con regolarità tutti
coloro che cercavano di avvicinarlo, configurando un isolamento che
è testimoniato dalla scarsità degli scritti di quel periodo.
L'unica rilevante eccezione a riguardo è costituita, come è noto,
dal dibattito con Mackno sull'organizzazione, originato dalla
cosiddetta "Piattaforma", il progetto di Unione generale
degli Anarchici formulato da un gruppo di anarchici russi in esilio.
Non è quest'ultimo,
però, il tema che intendiamo affrontare, che riguarda invece una
domanda che in molti si sono rivolti a suo tempo, ed anche
successivamente: perché Malatesta preferì rinunciare alla fuga
all'estero? Perché non
accettò un esilio che gli avrebbe permesso di cercare di
riorganizzare la lotta insurrezionale fuori dall'Italia?
Altri due rilevanti
personaggi dell'antifascismo fecero una scelta analoga: Benedetto
Croce e Amadeo Bordiga. Ma le motivazioni di Croce possono
risultarci evidenti: egli fu sino all'ultimo un lealista monarchico,
e non avrebbe accettato in nessun caso di porsi in polemica diretta
con il re.
Le motivazioni di
Bordiga, il fondatore del Partito Comunista d'Italia, poi da questo
espulso, invece, potrebbero
forse avere delle analogie con quelle di Malatesta, perciò non le
tratteremo a parte.
È facile immaginare
cosa sarebbe accaduto se Malatesta fosse riuscito a riparare
all'estero, in qualche paese "democratico": un personaggio
della sua fama internazionale avrebbe avuto addosso la stampa
democratica, intenzionata ad estorcergli l'ammissione della
preferibilità di un regime democratico a confronto di un regime
dittatoriale.
Non è ardito
supporre che alla base del rifiuto del fuoruscitismo da parte di
Malatesta, vi sia stata proprio la preoccupazione di non avallare,
di non legittimare la democrazia come "male minore",
sistema che non sarebbe perfetto, ma da preferire comunque ad una
dittatura.
In realtà la
democrazia ha il crisma della perfezione per ciò che concerne la
sua inesauribile capacità di mistificazione, che ne fa il regime
perfetto dell'inganno intrecciato alla violenza.
Accreditare che i
regimi democratici occidentali siano "altro" rispetto alle
dittature, significa assolverli dalle loro responsabilità nella
nascita e nel consolidamento della dittatura fascista e di quella
nazista e, successivamente, in tutte le dittature che si sono
avvicendate nel mondo.
Pare proprio che
senza un'esplicita teorizzazione, ma forse più che intuitivamente,
Malatesta abbia dato la priorità ad una questione di comunicazione,
di demistificazione, piuttosto che ad un'urgenza d’insurrezionalismo
pratico.
Rifiutarsi di
affrontare il fascismo come fenomeno isolato rispetto al Dominio
borghese mondiale, significava porre all'attenzione l'importanza di
demistificare il fascismo, non accreditandolo di essere un fenomeno
nazionale, e neppure nazionalistico.
Si sarà notato che
questa discussione non procede attraverso la consueta analisi dei
testi malatestiani, dato che il periodo della vita di Malatesta che
si sta cercando di approfondire è il più povero di testi con cui
porsi in relazione. Si tratta di spiegare la scelta del rifiuto
dell'esilio attraverso la biografia politica di Malatesta, non
soltanto della persona, ma anche del personaggio che egli, per forza
di cose si è trovato a gestire.
La fama è
strutturale al personaggio, anche se non alla persona, di Malatesta,
perciò non se ne può prescindere nell'analisi complessiva della
sua biografia politica. Malatesta divenne famoso a livello nazionale
ed internazionale - famoso, si badi bene, non famigerato - all'epoca
dell'impresa insurrezionale del Matese, del 1877, quindi in età
ancora giovane. Quest’impresa, sebbene fallita come progetto
insurrezionale, determinò un rapporto privilegiato di Malatesta con
l'opinione pubblica italiana e mondiale.
Egli divenne quindi
una figura popolare, anche in ambienti certamente non rivoluzionari,
a causa di un tentativo insurrezionale.
Questo dato dice
molto circa lo stato d'animo generale della società dell'800 nei
confronti dell'insurrezionalismo. Degli Stati che si erano
legittimati come eredi di Risorgimenti nazionali - magari tradendo
quegli stessi Risorgimenti, come appunto lo Stato italiano -, non
potevano a loro volta permettersi subito di delegittimare sino in
fondo l'attività insurrezionale di gruppi pur minoritari, che però
si ricollegavano nel fatto e nel diritto alla tradizione
risorgimentale. Tutti i grandi pensatori del Risorgimento italiano -
Mazzini, Cattaneo, Pisacane - furono degli attivi insurrezionalisti,
direttamente e personalmente coinvolti in imprese insurrezionali.
Persino il moderatissimo Alessandro Manzoni prese aperta posizione a
favore di moti insurrezionali e, per uno di questi, scrisse anche la
famosa poesia Marzo 1821.
Quando parliamo di
Risorgimento italiano, non ci riferiamo ovviamente all'unificazione
italiana operata da Cavour e da Vittorio Emanuele II con l'aiuto di
Luigi Bonaparte prima, dell'imperialismo britannico poi,
dell'espansionismo prussiano ancora dopo; ci riferiamo invece al
Risorgimento propriamente detto, cioè al periodo che va dal 1821 al
1849. Quello, e solo quello, è il Risorgimento italiano, non certo
le varie fraudolente e criminali annessioni al Regno Sabaudo. In
quel periodo rinasce la nazione italiana attorno a dei punti di
riferimento - vorremmo risparmiarci e risparmiarvi la logora parola
"valori -, dei punti di riferimento umanitari, sociali ed
universalistici, nulla di grettamente nazionalistico. Basti pensare
che l'abolizione della pena di morte era diventata un elemento
unificante della rinata identità, e dignità, nazionale.
L'Anarchia poteva
inserirsi in questa tradizione ed essere individuata come una
possibile erede di quella stessa tradizione. Non importa che ciò
sia stato voluto o meno, sta di fatto che era visto generalmente in
questo modo.
Chi legga quel
bellissimo libro che è Mezzo
secolo di Anarchia di Armando Borghi, può rendersi conto che in
tutta una fase dello sviluppo del movimento rivoluzionario in
Italia, dall'ultimo quarto del XIX secolo sino alla prima Guerra
Mondiale - vi era una comune identità nazionale, nella comune
tradizione risorgimentale, tra le due parti in scontro sociale
durissimo e spesso cruento (basti pensare alla strage del '98).
Borghi fornisce una curiosa aneddotica a riguardo. Egli narra di
come Pietro Gori, l'autore di Addio
Lugano Bella, fosse un avvocato spesso impegnato nella difesa di
compagni vittime della repressione, ma godesse della stima e della
considerazione dei giudici che si trovava di fronte, tanto che uno
di questi giudici lo pregò una volta di non occuparsi più della
difesa di imputati, altrimenti non si sarebbe mai sentito di
condannarli.
Uno dei primi ad
operare questo tipo di riflessione fu l'economista liberista Luigi
Einaudi che sarebbe diventato Presidente della neonata Repubblica
Italiana nel secondo dopoguerra. Nell'agosto del 1900, all'indomani
del regicidio di Monza, Einaudi scrisse un articolo su Francesco
Saverio Merlino, allora difensore di Gaetano Bresci, articolo nel
quale, senza mezzi termini, inquadrava l'attentato di Gaetano Bresci
in una tradizione risorgimentale divenuta ormai ingombrante, poiché
legittimava la pratica della ribellione ed anche del tirannicidio.
Nell'articolo, Einaudi citava anche il nome di Malatesta, senza
peraltro sentire neppure il bisogno di spiegare chi fosse, tanto il
suo nome era abituale nello scenario politico del primo '900; ciò
sebbene in quel periodo lo stesso Malatesta fosse quasi sempre
costretto all'esilio, un esilio rifiutato però in presenza del
fascismo.
La delegittimazione
della tradizione risorgimentale avvenne proprio ad opera del
fascismo, e non in modo indiretto, bensì con un’esplicita presa
di posizione ideologica. Nel
Manifesto degli intellettuali fascisti, del 1925, apparve per la prima volta la tesi
secondo cui il risorgimento sarebbe stato un fenomeno elitario, che
non avrebbe mai coinvolto le masse. Nel Manifesto
degli intellettuali antifascisti,
redatto da Benedetto Croce e pubblicato appena dieci giorni dopo
l'altro, la tesi degli intellettuali fascisti veniva demolita sulla
base dei tradizionali ideali risorgimentali, che non inquadravano la
condizione di minoranza dei gruppi patriottici come l'assunzione di
una posizione di élite moralmente privilegiata, scorgendo anzi nel
mancato coinvolgimento delle grandi masse un limite da superare.
Insomma, secondo Croce, se il Risorgimento non fu popolare nelle
dimensioni, lo fu certamente nei sentimenti e negli ideali, perciò
nulla nella tradizione risorgimentale poteva essere adoperato per
avallare una visione gerarchica ed elitaria della società. Del
resto la lotta politica è sempre operata da minoranze organizzate,
mentre le masse sono integrate nel Dominio (altrimenti che Dominio
sarebbe?), ed il coinvolgimento delle masse nei movimenti di
opposizione non può essere affatto un dato costante, semmai
episodico. La questione
vera, il vero punto di distinzione, anzi di contrapposizione, è tra
le minoranze che si pongono in modo esclusivo e oligarchico, e
quelle che invece fanno della non esclusione il loro metodo
caratterizzante.
Come si vede, anche
Croce colse l'autentico nucleo antirisorgimentale ed antinazionale
del fascismo, perciò non si può escludere che nel suo rifiuto
dell'esilio avesse parte non solo il lealismo monarchico, ma anche
la preoccupazione di non dare adito a strumentalizzazioni
antitaliane. Ma la posizione di Croce non assunse nessun aspetto
"scandaloso" per l'opinione pubblica, proprio a causa di
quella sua lealtà a casa Savoia, da lui ritenuta erroneamente come
una depositaria della tradizione risorgimentale. Ma nella realtà i
Savoia hanno solo sfiorato, con Carlo Alberto, il Risorgimento vero
e proprio, quello che si concluse nel 1849. I Savoia hanno subìto
la tradizione risorgimentale e non hanno esitato ad allearsi con
coloro che quella tradizione hanno sovvertito.
Non si può dubitare
del carattere provocatoriamente antitaliano del fascismo, dato che
Mussolini non perse mai occasione per denigrare l'Italia e gli
italiani, questo persino nelle circolari ministeriali, nelle quali
qualsiasi espressione di indisciplina degli impiegati viene
sprezzantemente bollata come "costume italico". È
significativa l'affinità delle espressioni antitaliane di Mussolini
con le tesi della cosiddetta destra "austriacante", che si
opponeva al Risorgimento con gli argomenti consueti sulla inferiorità
italiana nei confronti dei popoli del Nord Europa, e con il rifiuto
dell'idea di una pari dignità di tutti i popoli. Il fascismo fu più
un residuo delle tesi austriacanti che non una degenerazione del
Risorgimento, anche se, ovviamente, la propaganda fascista non
poteva prescindere da
un risorgimentalismo retorico. L'introduzione della pena di morte -
che era stata abolita su proposta del ministro Zanardelli, eroe
delle Dieci Giornate di Brescia -, fu però un tradimento esplicito
e sostanziale dell'identità risorgimentale.
Anche le leggi
razziali del 1938 sono state un tradimento plateale della tradizione
risorgimentale, che aveva dato un contributo fondamentale contro il
pregiudizio antisemita, basti pensare a certi scritti di Carlo
Cattaneo, oppure, più semplicemente, ad un inno come il Va
pensiero di Verdi (a proposito: fu censurato dopo le leggi
razziali?).
Il sospetto che il
fascismo non fosse un fenomeno politico autenticamente autoctono,
che non fosse cioè l'espressione di una mera degenerazione del
costume politico maturata autonomamente in Italia, Benedetto Croce
lo avanzò indirettamente con la sua teoria del "fascismo come
parentesi della Storia italiana". Che il fascismo sia stato in
realtà il prodotto di un’ingerenza esterna, non è un'ipotesi
ardita, così come molti indizi convergono nel far supporre che
Mussolini non sia stato un "rinnegato", ma, sin
dall'inizio della sua carriera politica, un agente provocatore agli
ordini di servizi segreti di potenze occidentali.
Malatesta sapeva,
poteva facilmente prevedere, che il suo rifiuto dell'esilio sarebbe
stato strumentalizzato dalla propaganda fascista, la quale si
sarebbe servita della presenza del famoso rivoluzionario in Italia
per accreditare l'immagine di una dittatura paternalistica e
tollerante. Così fu, infatti,. Armando Borghi riferiva con
indignazione i comunicati stampa rilasciati dal regime fascista in
occasione della morte di Malatesta, comunicati in cui non si faceva
risparmio di menzogne spudorate, in cui si arrivava a sostenere che
il vecchio rivoluzionario, negli ultimi anni, di vita fosse stato
ospitato dal regime in una casa procuratagli per interessamento
dello stesso Mussolini.
Evidentemente lo
stesso Malatesta dovette porsi il problema di quale possibile
strumentalizzazione sarebbe stata più nefasta e più foriera di
confusione per il futuro. Qui va colto il senso, il filo conduttore,
del metodo malatestiano, che non punta mai ad un’astratta
"irreprensibilità" nei confronti delle provocazioni e
della ostilità pregiudiziale della comunicazione ufficiale, ma
segue le sue priorità. Le democrazie occidentali costituivano
evidentemente per Malatesta il "potere forte" nei
confronti del quale era prioritario non mostrare concessioni e
cedimenti, perché ciò avrebbe determinato uno smarrimento
definitivo dell'identità anarchica.
Le democrazie
occidentali, che producono dittature tramite la loro diretta
ingerenza in paesi più deboli, e poi si servono di quelle stesse
dittature per legittimare se stesse in quanto "meno
peggio" dei loro nemici, queste democrazie occidentali sono un
nemico molto più subdolo del loro sottoprodotto fascista.
La legittimità
delle democrazie non si fonda su cosiddetti "valori" o su
punti di riferimento certi, al contrario questi "valori" e
questi punti di riferimento sono continuamente spazzati via,
avviliti, ridicolizzati in nome dell'interesse immediato delle
oligarchie dominanti. L'unica legittimità che la democrazia accampa
in continuazione, le deriva dalla "mostruosità" dei suoi
nemici, sempre impresentabili, sopra le righe, fanatici e folli.
Ecco perché il
produrre disordine interno ed internazionale diviene l'interesse - e
l'urgenza - dei regimi democratici.
La provocazione e la destabilizzazione divengono attività
operate su larga scala, da apparati dello Stato creati allo
specifico scopo di compiere attività criminali. L'insurrezione non
soltanto deve essere bollata di terrorismo, ma deve essere realmente
tale, il terrorismo deve risultare l'unica opposizione alla
democrazia, l'unica opposizione esistente e l'unica opposizione
possibile.
Il colonialismo
contemporaneo ha infatti una carica di repulsione razzistica
che nemmeno il brutale colonialismo ottocentesco era riuscito
ad esprimere. L'imperialismo britannico, criminale sino al midollo,
risentiva di un certo fascino dell'esotico, testimoniato dagli
scritti di Kipling e Conrad, quindi non sempre riusciva evitare
l'integrazione con le diversità che andava a sottomettere. La
carica razzistica dell'americanismo - che non si assume mai
responsabilità imperiali, ma gioca vittimisticamente su una fasulla
necessità di doversi difendere -, questa carica razzistica
dell'americanismo appare
invece illimitata, non soltanto esprime orrore per le diversità
reali (mentre in astratto le ammette), ma soprattutto riesce ad
inventare nella sua propaganda un grado di diversità mostruosa che
adopera come referente negativo e come testimonianza della propria
superiorità sul resto del mondo. Il terrorismo rimane dunque
l'unico nemico possibile, da evocare e, soprattutto, da coltivare
con i metodi dell'infiltrazione e della mistificazione da parte dei
servizi segreti.
Quando si sia
raggiunta una sufficiente sproporzione di forze, allora l'ordine non
è più necessario alla gerarchia. Se il Dominio dispone di una
potenza materiale molto superiore ad ogni suo possibile avversario,
in questo caso l'ordine è un disturbo per il Dominio, mentre il
disordine e la provocazione divengono armi indispensabili per
consentirgli di esercitarsi come Dominio.
È lo squilibrio delle forze in campo ad aver consentito
l'ingresso nell'epoca del disordine di Stato. Beninteso, disordine e
provocazione sono sempre state in qualche modo armi del Dominio, ma
solo dall'ultimo secolo si sono verificate le condizioni di potenza
materiale che rendessero l'ordine pubblico del tutto obsoleto, un
residuo del passato. Oggi il mito della "legalità" è
diventata il paravento della illegalità di Stato, della
destabilizzazione intesa come strumento di intossicazione dei
pensieri e delle azioni.
Oggi le forze
dell'ordine sono diventate le forze della provocazione , le agenzie
del disordine istituzionalizzato, ciò grazie ad una disponibilità
di mezzi materiali che non poteva ancora verificarsi cento e o
centocinquanta anni fa.
In questo senso
occorre cogliere il vero senso dello psicodramma e della messinscena
della lotta al terrorismo. Non è rilevante che l'opinione pubblica
creda davvero all'autenticità dei kamikaze, o all'esistenza di Bin
Laden (non bisogna ritenere le persone più stupide di quello che
sono). Il punto essenziale della messinscena consiste
nell'esibizione di forza e di potenza del Dominio. Il vero orrido
ispirato dalle icone dei terroristi non consiste tanto nel loro
fanatismo, quanto nella loro sostanziale impotenza. I terroristi
sono destinati a
perdere, ed è questo che ispira repulsione, la loro debolezza è la
loro colpa davvero imperdonabile.
Sono in molti a
sforzarsi di dar torto ai potenti e ragione ai deboli, ma quasi
nessuno vi riesce. La forza è una ragione forte che spinge a darle
ragione, almeno in parte. Marx, ad esempio, ha trasformato la
critica del capitalismo in apologia dello stesso capitalismo e della
borghesia e, insieme ad Engels, nel Manifesto dei Comunisti giunge a irridere gli sforzi conservatori
degli operai di fronte allo slancio rivoluzionario della borghesia.
Marx fa quindi propria, senza riserve, la mistificazione semantica
che considera conservatrice qualsiasi opposizione al cambiamento,
anche quando tale cambiamento vada nel senso della restaurazione o
del consolidamento dei privilegi di classe.
In realtà il
termine "conservazione" indicava in origine soltanto la
tendenza politica intenzionata a mantenere i tradizionali privilegi
di classe, privilegi che possono essere mantenuti anche promuovendo
mutamenti economici e sociali. D'altra parte il Dominio rivendica
per sé anche l'aura del progresso e, troppo spesso, anche i suoi
oppositori gliela riconoscono sbrigativamente.
Riteniamo che tutti,
più o meno, si ricordino qualcosa della storia del banchiere
anarchico di Pessoa. Ciò che abbiamo trovato dapprima irritante
nella lettura di quel racconto, è stato di non trovarvi nessun
arguto sofisma che giustificasse il paradosso. Poi, riflettendoci
meglio, ci siamo resi conto che non c'era nessun sofisma da cercare.
Pessoa dice una cosa sin troppo ovvia: gli esseri umani sono
conformisti, alla fine tendono sempre a dare ragione al forte e
torto al debole, perciò il "peggio per te" e il "si
salvi chi può" costituiscono il modo di pensare che emerge
quando cade ogni residuo velo di ipocrisia. Gli esperimenti di
psicologia sociale di Ash e di Milgram hanno conferito al
conformismo appunto il crisma di una verità sperimentale ufficiale,
ma anche facilmente sperimentabile da ognuno.
Ogni movimento di
opposizione è destinato alla lunga a perire per il semplice fatto
di essere ancora opposizione, quindi di non essere adeguato alle
proprie aspirazioni. Per opportunismo e per conflittualità interna,
ogni opposizione si logora e si consuma nella faida intestina a
causa della sua inferiorità di forze che la spinge a rivolgere
all'interno la propria aggressività.
Il luogo comune dice
che tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile. Si invoca
l'astratta categoria della Storia, la quale, come presunta scienza,
si riduce a dar ragione ai vincitori e torto ai perdenti e, come
impersonale entità sovrastante le umane sorti, non è altro che una
figura retorica della propaganda, il tribunale dei vincitori.
La vera Storia, però,
è fatta di scelte quotidiane, e ci sono individui che diventano
indispensabili, perché possono riorientarla in un senso o
nell'altro perché non sono espressione del conformismo, sanno
sfuggire a tutte le trappole che la rivendicazione astratta delle
proprie buone ragioni e delle proprie buone intenzioni
dissemina nel cammino, difendono le proprie posizioni e le
proprie priorità senza ricorrere all'esclusione di questo o di
quell'altro, non si perdono in contrapposizioni pretestuose ed in
affannose ricerche di identità a scapito dell'unità, non sono dei
leader ma, al tempo stesso, diventano dei punti di riferimento
insostituibili, perché sanno far ritrovare anche agli altri i punti
di riferimento.
Una delle astuzie
del conformismo per travolgere le resistenze anche di chi sia
intenzionato a resistergli, è la demagogia, lo scavalcamento a
sinistra, la retorica dell'azione a tutti i costi. A causa della
scelta di rimanere in Italia durante la dittatura fascista,
Malatesta si è trovato di fronte a molte di questa obiezioni
demagogiche.
Beninteso, sarebbe
un fraintendimento inaccettabile del nostro discorso, interpretarlo
in qualche modo come critica a coloro che hanno preso la via
dell'esilio durante il ventennio fascista. Una tale critica sarebbe
illegittima perché non
terrebbe conto delle condizioni reali e dei pericoli effettivi che
hanno ispirato certe scelte. Noi ci stiamo riferendo a quei casi
specifici in cui la via dell'esilio non era resa inevitabile dalla
pressione degli eventi, ma diventava una scelta politica ed una
presa di posizione politica.
Ci stiamo riferendo,
ad esempio, alla fuga di Filippo Turati, organizzata per precisa
scelta politica della direzione del Partito Socialista. In
un'intervista televisiva rilasciata a Sergio Zavoli nel 1970, Pietro
Nenni spiegò quella scelta con l'esplicita intenzione di
differenziarsi dalla linea di condotta adottata da Malatesta a
riguardo. Il nome di Malatesta fu quindi citato da Nenni, anche se
rispettosamente, come referente negativo, come esempio da cui
prendere le distanze.
Da antifascisti
coraggiosi quali erano, Pertini e Parri spiegarono le loro
motivazioni durante il processo che subirono per aver organizzato la
fuga di Turati. La permanenza di Turati avrebbe costituito, secondo
loro, un avallo al regime fascista, perciò per Turati abbandonare
l'Italia significava assumere una decisa posizione a favore della
democrazia.
In altri termini,
Malatesta, in quanto anarchico ed insurrezionalista, anzi come simbolo
mondiale dell'insurrezionalismo anarchico, doveva rimanere in Italia
per non alimentare illusioni democratiche e pseudolegalitarie;
mentre Turati, socialista riformista e parlamentarista,
non se lo poteva permettere.
Ecco che quindi, l'insurrezionalismo
non implica il cascare nella provocazione demagogica dell'azione a
tutti i costi. In certi momenti, significa soltanto assumere una
posizione demistificatoria e trasparente contro tutte le
provocazioni del dominio.
Una fuga in Francia
o in Inghilterra o negli Stati Uniti, avrebbe significato sorvolare
sulle responsabilità di questi Stati nella carriera di Mussolini e
nell'avvento della sua dittatura. Turati scelse di sorvolare su
questo aspetto e di lasciar quindi
ritenere che il fascismo fosse esclusivamente un prodotto della
degenerazione italiana, espressione dell'immaturità politica del
popolo italiano. È la visione del dominio democratico del mondo: vi
sono popoli che la democrazia l'avrebbero nel loro DNA, gli
apparterebbe per Storia e vocazione, mentre vi sono altri popoli
che possono avere la democrazia solo se vengono liberati
dalle armi dei popoli geneticamente democratici.
Malatesta scelse
invece di non sorvolare sulle dirette responsabilità degli Stati
democratici nell'avvento del fascismo e rifiutò di lasciar credere
che il fascismo fosse solo una malattia italiana, perciò la sua era
la posizione anarchica e insurrezionalista, ma era anche la
posizione in sintonia con l'autentica tradizione risorgimentale, nel
senso della pari dignità di tutti i popoli.
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