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L'attualità di Errico Malatesta

di Massimo Varengo

 

Negli oltre settant’anni che ci separano dalla morte di E.M., molte sono state le occasioni di riflessione su questo o quell’aspetto del suo pensiero, soprattutto in corrispondenza di momenti storici particolarmente significativi dal punto di vista della trasformazione sociale. A ben vedere anche oggi che torniamo, dopo anni, a riparlare di Malatesta, lo scenario sociale in cui siamo immersi appare particolarmente segnato da una conflittualità crescente, sinonimo di una qualche trasformazione, prossima ventura, non necessariamente definita. 

E anche oggi le proposte di E.M. possono dare un contributo alla definizione di un’azione che sappia rapportarsi ai mutamenti in atto, sempre che si sappia coglierne l’attualità.

A tale proposito è evidente come non si possa generalizzare: la vita di E.M. è talmente piena di fatti e di pensieri, spesso in evoluzione, che è difficile definire un quadro statico del suo sistema di pensiero e di azione.

Luigi Fabbri – che di E.M. fu per lunghi anni stretto compagno – a tal proposito afferma, nella sua introduzione al libro Malatesta, l’uomo ed il pensiero : “Bisogna tener presente, fra altre cose,  che Malatesta, pur essendo restato sempre il medesimo anarchico socialista e rivoluzionario di quando aveva 18 anni, s’è formato da sé il suo pensiero personale, la sua personalità distinta e caratteristica. E questo non poteva fare, non poteva cioè giungere alla sua formazione più matura che passando attraverso una inevitabile evoluzione di idee. Egli cominciò infatti con l’accettare le idee del socialismo tali e quali si erano elaborate in seno alla I° Internazionale fino al momento in egli vi entrò, aderendo alla concezione libertaria di Bakunin. Ma da quel primo momento il suo spirito critico, lo studio e l’esperienza cominciarono subito a modificare in lui quella primitiva concezione, fino a condurlo ad una concezione anarchica sua propria, in parte d’accordo ed in armonia con l’evoluzione di tutto il movimento anarchico, ma in parte restata sempre più personalmente sua.

Fino dal 1876 egli già dichiarava al Congresso Internazionale di Berna di non essere ‘bakuniniano’; e con Cafiero, Covelli, Costa, ecc. era passato dal collettivismo anarchico al comunismo anarchico. Restava ancora però, in quel tempo, assai impregnato di marxismo – come lo stesso Bakunin e tutti gli anarchici – e nel medesimo tempo credente nello spontaneismo anarchico delle masse popolari che poi divenne caratteristico in Kropotkin; mentalità che in Malatesta si andò modificando man mano, specialmente dal 1884 in poi.

A me sembra di cogliere approssimativamente bene il periodo di transizione dall’anarchismo della I° Internazionale a quello che fu più suo più o meno fino alla fine della sua vita, nei 7/8 anni che vanno da L’Associazione di Londra (1890) a L’Agitazione di Ancona (1897): Questo periodo può considerarsi come quello della formazione definitiva, nel senso sempre relativo della parola, del pensiero malatestiano – benché già ne La Questione Sociale di Firenze (1884) certi punti fondamentali della sua evoluzione siano già abbastanza marcati.

Ho già detto altra volta ch’egli non riconosceva più completamente come sue alcune idee da lui esposte nel 1884 nell’opuscolo Programma e Organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. A qualche punto del medesimo Fra Contadini (1884), quando se ne fece una edizione a Spezia nel 1913, egli appose qualche nota di riserva contro alcune idee marxiste che ne ispiravano qualche argomentazione. In una serie di articoli su “L’evoluzione dell’Anarchismo” ne L’Agitazione di Ancona (1897) esponeva chiaramente le sue idee antimarxiste e la posizione dell’anarchismo di fronte al marxismo. Nel medesimo periodico pubblicò sei articoli su “L’individualismo nell’Anarchismo”, “L’armonismo” e “L’Organizzazione” in cui, senza polemizzare direttamente con Kropotkin, dava dell’anarchismo una interpretazione che è nettamente contrastante con quella kropotkiniana de “La Conquista del Pane” e di altri scritti di quel tempo.

Io chiesi a Malatesta negli ultimi anni se egli avesse modificato più sostanzialmente le sue idee dopo il periodo de La Agitazione: Egli mi rispondeva in una lettera dell’11 luglio 1931:’…Quanto alla differenza che vi può essere tra le mie idee attuali e quelle del 1897 si tratta, come tu dici, di sfumature. Allora, al tempo dell’Agitazione, avevo più fiducia nel sindacalismo ( o per meglio dire nei sindacati) di quella che ho ora; ed il comunismo mi sembrava una soluzione più semplice e più facile di quello che mi sembra ora…Differenze più grandi troveresti tra le mie idee attuali (e del 1897) e quelle del 1872-73-74: Allora eravamo kropotkiniani prima di Kropotkin…’.

Un pensiero in evoluzione quindi, essenzialmente pratico, mai freddamente ideologico la cui attualità si misura necessariamente con il grado di interesse che è  in grado di suscitare all’interno del più generale dibattito di liberazione sociale.

 Per tale motivo ritengo utile concentrare l’attenzione di questo mio intervento solo su alcuni punti a mio avviso particolarmente significativi.

Riguardo al movimento dei lavoratori, del sindacalismo, della collocazione degli anarchici nel conflitto sociale che attualità possono avere i suoi orientamenti?

E’ noto come per E.M. il movimento dei lavoratori fosse di tale importanza ai fini della rivoluzione libertaria da ritenere totalmente improponibile un atteggiamento che lo ignorasse o che addirittura lo combattesse. Innumerevoli sono gli scritti in cui insiste su questo punto, come d’altronde sono innumerevoli le dimostrazioni offerte, in Europa come in America, nell’organizzare, sostenere, propagandare l’azione operaia. Un’azione operaia che viene compresa in tutte le sue potenzialità, ma anche con tutti i suoi limiti senza paraocchi operaistici. Potenzialità offerte da un grande movimento di masse in ascesa, spinte alla difesa dei propri interessi dall’intensificarsi dello sfruttamento capitalistico, e perciò maggiormente sensibili alla proposta rivoluzionaria, raggruppate in grandi concentramenti urbani, intrise di senso comunitario, escluse dai processi dell’integrazione statuale, dotate di una forza quale nessun altro raggruppamento sociale poteva contare. Ma proprio la conoscenza della composizione e della struttura della classe lavoratrice che Malatesta, operaio egli stesso, aveva, non poteva far passare in secondo piano i limiti stessi dell’azione proletaria, ai quali il puro e semplice volontarismo non poteva offrire rimedi.

Un’azione molte volte sensibile al suo semplice restringimento in una dimensione puramente economica, interessata a volte alla propria integrazione in un sistema in espansione, coinvolta in conflitti intercategoriali a sostegno di questo o quello schieramento padronale, in questo o quel conflitto nazionale. Ecco quindi il suo richiamo deciso all’azione sindacale (e non sindacalista) rivolto ai compagni, troppe volte distratti dalla quotidianeità dei bisogni proletari dal mito dello scontro frontale a tutti i costi; ecco l’attenzione rivolta a questo o quel settore operaio, la cui azione pare determinante ai fini della lotta (esemplare il richiamo agli operai metallurgici, nel pieno dell’occupazione delle fabbriche). Ma ecco anche l’accentuazione dell’importanza dell’azione anarchica, dell’organizzazione specifica anarchica, del ‘partito’ come si diceva allora, ai fini della propaganda, del proselitismo, della progressiva crescita d’influenza della proposta e della pratica libertaria nel seno delle organizzazioni di classe, della preparazione in vista della rivoluzione sociale .

Una chiara concezione di dualismo organizzativo, quindi, che lungi dal rappresentare una qualsivoglia cinghia di trasmissione reciproca, va semplicemente a riaffermare l’importanza del movimento dei lavoratori come mezzo, e sicuramente il più notevole, per assicurare il cambio sociale e, con esso, la libertà d’azione per gli anarchici.

Tale concezione di dualismo organizzativo non poteva di certo significare la divisione tra lotta economica e lotta politica, in considerazione soprattutto dei labili confini esistenti tra le due, e prefigurando (o idealizzando) un rimedio alle lotte tra correnti di pensiero differenti ed antagoniste all’interno delle organizzazioni proletarie – che vedeva da una parte un’intesa generale e la solidarietà nelle lotte puramente economiche e, dall’altra un’autonomia completa degli individui e dei vari raggruppamenti nelle lotte politiche – Malatesta prefigurava l’importanza di un’unica organizzazione di classe in grado di raccogliere l’insieme del proletariato, indipendentemente dal credo politico e religioso dei suoi componenti. Un’unica organizzazione che nella sua dinamica riuscisse ad affratellare tutti i lavoratori, emarginando progressivamente le influenze parlamentari, e che, tramite l’adozione della tattica anarchica, basata sull’azione diretta e sul rifiuto della delega e del compromesso, si avvicinasse sempre più alle finalità degli anarchici. Ma anche se così non fosse, e Malatesta era cosciente di questa probabilissima eventualità, l’organizzazione unitaria di classe avrebbe comunque costituito un importantissimo terreno di propaganda e di azione per i gruppi anarchici.

Agitare i temi dell’unione tra tutti i lavoratori, della lotta al corporativismo, della tolleranza ideologica reciproca, dell’autonomia dei vari raggruppamenti, del decentramento, della libertà d’iniziativa, dell’inutilità e della dannosità di capi e di funzionari permanenti, nel quadro comune della solidarietà contro i padroni ed il governo, era, per Malatesta, l’azione fondamentale che gli anarchici avrebbero dovuto sviluppare nel seno dell’organizzazione unitaria. Impostazione cui E.M. non venne mai meno, nemmeno al sorgere dell’USI e dell’adesione ad essa di numerosissimi anarchici.

Partendo dal concetto – chiaramente esposto nel dibattito con Monatte ad Amsterdam –che il sindacato per sua natura è riformista e che gli anarchici al suo interno sarebbero rimasti comunque minoranza, diventava controproducente, per E.M., stabilire una concorrenza sul terreno organizzativo sindacale che avrebbe comunque stemperato l’intransigenza libertaria, a danno dell’azione rivoluzionaria di tipo insurrezionale che si andava profilando. Certo, se le condizioni lo imponevano, se l’organizzazione unitaria avesse preso una via che comprometteva l’avvenire e se diventava difficile porvi rimedio, se gli spazi d’azione al suo interno si annullavano, la scissione si sarebbe imposta ed una nuova organizzazione avrebbe preso vita. Ma anche nell’eventuale prolificare di organizzazioni concorrenti, non si sarebbe mai dovuto perdere di vista l’obiettivo ultimo: “ poiché se l’organizzazione dei lavoratori è una necessità primordiale per le lotte di oggi e per le realizzazioni di domani, non ha grande importanza l’esistenza e la durata di questa o di quella determinata organizzazione. L’essenziale è che si sviluppi nei singoli lo spirito d’organizzazione, il senso della solidarietà, la convinzione della necessità di cooperazione fraterna per combattere l’oppressione e realizzare una società in cui tutti possano godere di una vita veramente umana” (Pensiero e Volontà n°4, 1925).

E in questa direzione gli anarchici avrebbero dovuto portare la loro attività in tutte le organizzazioni, rifiutando, in chiara polemica con le tendenze anarcosindacaliste di scuola sia spagnola (CNT) che argentina (FORA), la costituzione di una specifica organizzazione sindacale anarchica, considerata una pura e semplice contraddizione in termini.

Probabilmente il suo mettere l’accento sull’organizzazione degli anarchici, sul ‘partito’,  sottovalutando gli effetti che la scuola quotidiana del sindacato libertario aveva sui suoi aderenti, lascia intendere un ruolo dello specifico di ben più alto livello di quello che poi l’Unione Anarchica riuscì a realizzare, presa tra i due fuochi del fascismo incalzante e del mito bolscevico, e impantanata nel mito del Fronte unito proletario.

Di certo è che il suo pensiero faceva riferimento ad una situazione sociale in continua ebollizione che solo la controrivoluzione preventiva rappresentata dal fascismo riuscì a stroncare. In questo frangente si può dire che la spregiudicatezza con la quale E.M. guardava, nei primi anni venti, alle polemiche CGL-USI e al dibattito ‘fusionista’ (che metteva in chiara difficoltà la componente anarchica dell’USI nei confronti dei riformisti della CGL) fosse dovuta alla scarsa importanza che dava a qualunque organizzazione sindacale valutata comunque come puramente formale, a fronte di un intento insurrezionale che avrebbe dovuto vedere i militanti della sinistra di classe, i repubblicani di sinistra, impegnarsi, insieme agli anarchici, per l’abbattimento del governo e del capitalismo.

Chiedersi oggi che attualità abbiano queste tesi, può avere un senso se ci rifacciamo al movimento odierno dei lavoratori e alla dinamica sociale di questi anni.

Dopo le distruzioni operate dal fascismo e dal nazismo, dallo stalinismo, dopo la subordinazione sindacale alle istituzioni fino alla sua totale integrazione, possiamo dire che del sindacato, come del movimento operaio, così come ne parlava E.M., non ne esista praticamente più traccia.

Esiste piuttosto un movimento dei lavoratori, duramente attaccato dai processi di ristrutturazione capitalistica e dal ridisegnarsi dei meccanismi del dominio, che si esprime a livelli diversi in momenti diversi, a volte utilizzando l’istituzione-sindacato, a volte muovendosi con comportamenti autonomi, dandosi cioè forme organizzative consone all’obiettivo posto (più o meno recuperabile, più o meno antagonista), a volte ancora rifondando nuove forme sindacali più o meno autodirette.

Al suo fianco sono sorti altri movimenti, più o meno trasversali, come quelli di lotta contro la devastazione del territorio e dell’ambiente, quello femminista, contro la guerra, quello animalista, contro la globalizzazione, oppure quelli giovanili che dal 1968 in poi hanno rappresentato per vari anni una spina nel fianco della ristrutturazione, sviluppando pratiche rivoluzionarie di tipo nuovo rispetto al ‘vecchio’ movimento operaio.

La frantumazione poi del tradizionale mondo del lavoro, l’emergere di nuove forme di sfruttamento parcellizzate, l’erosione di diritti e di libertà, l’esplodere del terziario, hanno contribuito alla perdita di peso specifico del movimento dei lavoratori, nel più generale movimento di emancipazione e di liberazione umana.

Ma finché il problema della riuscita di una rivoluzione si misurerà con il grado di soddisfacimento immediato delle esigenze delle popolazioni – condizione fondamentale per la conquista del consenso – allora la questione della produzione e della distribuzione di viveri e merci, quindi della ricchezza sociale, quindi del lavoro umano, manterrà un suo posto fondamentale all’interno delle lotte di liberazione.

Ed in questo senso l’indicazione di Malatesta per un maggior impegno degli anarchici sul terreno del lavoro – sia in termini di lotta che di studio - conserva tutta la sua validità . Come pure il concetto della necessità dell’unità di tutti i lavoratori, inteso naturalmente come tensione militante e come obiettivo di fondo, sia pure tattico, della nostra azione.

Pur con le dovute differenze tra aderenti al sindacalismo confederale, all’USI, al sindacalismo di base, tra anarcosindacalisti ed anarcoconsiliaristi, la preoccupazione di E.M. in merito all’importanza dell’organizzazione anarchica, del ‘partito’, dovrebbe riguardare tutti i compagni e le compagne, nella definizione di una tattica anarchica in grado di misurarsi con i problemi (e sono molti e gravi) sul tappeto.

Solo ridando forza e chiarezza all’organizzazione è possibile che la diaspora sindacale degli anarchici ritrovi una sua logica ed una sua ragion d’essere.

Un’organizzazione che non si limiti però a puro contenitore delle istanze dei militanti sindacali ma che sappia essere momento di costruzione di una strategia che sappia convogliare gli sforzi di quanti si battono per una società di liberi ed eguali.

A questo proposito si apre una nuova riflessione sul tema del gradualismo come metodo di azione sviluppato da E.M. per verificarne l’effettiva praticabilità.

Un metodo d’azione (basato, non dimentichiamolo, sulla concezione della conquista di riforme con moti popolari, scioperi, tentativi insurrezionali, ecc.) che affondava le sue radici, la sua ragion d’essere, in una situazione proletaria, ancora abbondantemente estranea – nonostante gli sforzi dei socialisti – ai meccanismi ed alle logiche statali ed istituzionali. Il proletariato costituiva ancora una comunità con i suoi valori, le sue tensioni, la sua cultura, terreno fertile per concezioni antagoniste come quelle del comunismo anarchico rivoluzionario, avversario deciso di quel potere che lo opprime e lo sfrutta. Ed è in questa comunità che l’anarchismo poteva rafforzarsi e rinvigorirsi, abbandonando la strategia dello scontro frontale, sempre e comunque, che dalla banda del Matese alla Settimana Rossa aveva mostrato le sue potenzialità insieme ai suoi limiti.

Non c’è dubbio che la situazione odierna sia tutt’altra. Ed è mutata direi in alcune condizioni essenziali: lo sforzo del potere di integrare il proletariato nelle dinamiche statuali, lo smantellamento della comunità e dei suoi valori, l’importanza del garantismo, le tensioni neo-corporative, lo sviluppo dei ceti medi, l’amplificazione stessa del carattere dello Stato a ricoprire funzioni di erogatore di servizi.

Questi mutamenti non sono stati indolori per la strategia gradualista nelle motivazioni di fondo. Se infatti è vero che nel primo gradualismo l’ipotesi malatestiana si basava sul fatto che la lotta graduale su obiettivi parziali era utile perché, dimostrando la sua impossibilità di soluzione generale  al problema sociale, costringeva il movimento al salto insurrezionale, nell’ultima parte della sua vita (vedi ad esempio l’articolo ‘Anarchismo e riforme’ del 1924) il gradualismo assume valenza più complessa, quasi una prefigurazione di una controsocietà che si sviluppava in un contenitore che diveniva, mano a mano, più stretto, fino ad arrivare all’esplosione non più rimandabile: la rivoluzione sociale. Orbene il problema sta proprio qui.

Il primo modo di concepire il gradualismo mi pare superato nei fatti, sia per le capacità dialettiche della controparte di aggredire il movimento sul terreno che gli è proprio, con la disgregazione, la separazione, il corporativismo, riducendo ogni lotta ad un fatto a sé stante, e quindi razionalizzabile e recuperabile e sia per la distruzione operata nell’immaginario collettivo dagli andamenti rivoluzionari del secolo scorso.

Il secondo modo di concepire il gradualismo si scontra oggettivamente con un comportamento proletario che, anche nelle sue punte più autonome, rifugge di farsi carico di una rifondazione della comunità antagonista, preferendo nella sua quotidianeità il garantismo (o quel che ne rimane) per battere poi la strada degli organismi spontanei di lotta nelle rivendicazioni apparentemente incompatibili o nelle fasi di più acuta ristrutturazione.

Questo comporta necessariamente un intreccio profondo tra istanze ed istituzioni ed è proprio su questo terreno che appare più facile la saldatura tra gradualismo e riformismo, nell’abbandono definitivo di ogni ipotesi di concreta pratica rivoluzionaria. E se da una parte abbiamo verificato come la gran parte delle lotte si è orientata ad ottenere garanzie e diritti dallo Stato, grazie all’istituzionalizzazione del ruolo mediatore del sindacato e la definitiva conversione dei partiti, nati dal movimento operaio, in appendici del sistema di sfruttamento, riducendo i compagni che ad esso continuano a fare riferimento a sostanziale coscienza critica dei processi in corso, da un’altra parte abbiamo registrato la volontà di forzatura operata sul corpo sociale per innescare forme di resistenza radicale da parte di gruppi ed individui che, ricorrendo a pratiche avanguardiste più o meno armate, hanno agito nel tentativo di rompere la gabbia che si è andata costruendo.

Intransigenza e pragmatismo sono due facce della stessa medaglia: stravolgendo ed estremizzando il concetto di volontarismo lo si è sganciato dal suo terreno di riferimento che ne limitava correttamente il significato e, assumendo se stessi, individui o gruppi, come punto di riferimento obbligato si è scivolati nel soggettivismo esclusivista che è arrivato a bollare la ricerca del consenso – fondamentale per un movimento come il nostro che vuole perseguire la costruzione di una società solidaristica, orizzontale, comunitaria – come dato meramente quantitativo, assumendo inoltre atteggiamenti da coscienza morale del movimento.

L’anarchismo, se rimane adagiato nell’intransigenza nei confronti delle dinamiche reali della vita socio-politica, si taglia fuori dal tempo e dallo spazio, per ripiegarsi di fatto nelle due varianti possibili, quella 'educazionista’ e quella ‘violentista’. D’altro canto se affonda nel pragmatismo delle lotte parziali e delle dinamiche sindacali, rischia di perdere ogni connotazione rivoluzionaria. E l’anarchismo non può che essere rivoluzionario, troppo difforme, irrecuperabile il suo contenuto da quello di tutti gli assetti di potere gerarchici e oppressivi. E non può che lavorare per l’insurrezione intesa come fase finale di un processo di crescita della forza popolare in grado di porre all’ordine del giorno l’abbattimento definitivo di istituzioni già ampiamente corrose e delegittimate dalle pratiche diffuse di liberazione umana, di comunitarismo, di solidarismo. Insurrezione che sarà più o meno violenta a seconda del livello di resistenza che le forze della reazione, del privilegio, dello sfruttamento opporranno alla costruzione di una società di liberi ed eguali.

Il gradualismo anarchico è il metodo che da maggiori garanzie per un processo di crescita  della consapevolezza popolare, ma che sia veramente anarchico, basato sulla crescita del consenso, sulla costruzione della cultura della controsocietà, indisponibile a patteggiamenti istituzionali e recuperatori, nella certezza che non si può lottare e resistere in questo Stato come gli anarchici del 1920.

Il politico ed il sociale non possono essere più considerate categorie a sé stanti. Inoltre non ci si può ridurre al millenarismo cassandresco e rifuggire dai problemi concreti che la società, nel suo sviluppo, pone . Occorre affrontarli essendo capaci di mantenerci antagonisti, prefigurando meccanismi tendenzialmente autogestionari sia nei campi produttivi che nei servizi e sul territorio.

Non bisogna mai assecondare le tendenze autodistruttive del modo di produzione imperante ripiegando nell’attivismo nichilista, ma bisogna cogliere le opportunità offerte dai processi di disgregazione in atto per sviluppare un’azione in grado di dare risposta alle esigenze di libertà. Non è un caso che, su scala internazionale, si stiano moltiplicando azioni e movimenti di disobbedienza civile. In una situazione in rapidissimo mutamento e dai contenuti frammentati, pratiche collettive di vario tipo stanno sostituendo o affiancando le forme di lotta ‘tradizionali’, mettendo in discussione la sacralità del principio di autorità. Dagli hacker agli ecologisti, dal movimento d’occupazione delle case ai cosiddetti no-global, e così via, siamo di fronte ad un’espressione in crescita di forme di lotta politica in divenire. Concetti come azione diretta ed autogestione, sia pure in forme soft, si stanno diffondendo negli ambienti più disparati, pur all’interno di una lettura che rimane democratica e non ancora anarchica offrendo comunque prospettive di intervento.

Ed è proprio su questo terreno, quello dell’impegno concreto, del contatto con la realtà sociale nel suo complesso (e non tanto con questo o quel microsettore) che il movimento può ritrovare una sua identità, una sua concretezza con un impegno programmatico d’azione che superi antiche dicotomie (la rigida separazione tra ‘specifico’ e ‘sindacale’ ad esempio) non più rispondenti alle mutate condizioni sociali, con un’attenzione ai problemi odierni, alla lotta quotidiana contro lo sfruttamento e l’oppressione, alle battaglie che possono coinvolgere l’interesse dei cittadini, con una riconsiderazione della lotta territoriale, del comunalismo, senza settarismi di sorta.

In questo contesto le riflessioni di Malatesta restano in gran parte attuali soprattutto quando sostiene che propaganda ed educazione sono si importanti ma di per se stessi incapaci di produrre eventi rivoluzionari e che solo il ricorso all’azione diretta stimolatrice di movimenti radicali contribuisce a dare sostanza alla propaganda producendo nuovi stimoli e bisogni. Così pure il gradualismo e il pluralismo della sperimentazione sociale, nella concezione malatestiana, rimangono pienamente attuali quando si rapportino alle condizioni e alle esigenze delle masse popolari.

La validità della tesi anarchica sulla natura dello Stato, generatore di disordine, violenza e sopraffazione , è confermata dall’esperienza, per chi la vuol vedere.

E l’enunciato malatestiano sull’inefficacia rivoluzionaria delle riforme progressive, in mancanza di una chiara consapevolezza sulla sostanza del privilegio, ci spinge ancora oggi alla necessità di sviluppare un’azione rivoluzionaria senza compromessi se vogliamo veramente contribuire ad aprire le porte ad una società più giusta e più libera.