L'attualità
di Errico Malatesta
di
Massimo Varengo
Negli
oltre settant’anni che ci separano dalla morte di E.M., molte sono
state le occasioni di riflessione su questo o quell’aspetto del
suo pensiero, soprattutto in corrispondenza di momenti storici
particolarmente significativi dal punto di vista della
trasformazione sociale. A ben vedere anche oggi che torniamo, dopo
anni, a riparlare di Malatesta, lo scenario sociale in cui siamo
immersi appare particolarmente segnato da una conflittualità
crescente, sinonimo di una qualche trasformazione, prossima ventura,
non necessariamente definita.
E
anche oggi le proposte di E.M. possono dare un contributo alla
definizione di un’azione che sappia rapportarsi ai mutamenti in
atto, sempre che si sappia coglierne l’attualità.
A tale proposito è evidente come non si possa
generalizzare: la vita di E.M. è talmente piena di fatti e di
pensieri, spesso in evoluzione, che è difficile definire un quadro
statico del suo sistema di pensiero e di azione.
Luigi
Fabbri – che di E.M. fu per lunghi anni stretto compagno – a tal
proposito afferma, nella sua introduzione al libro Malatesta,
l’uomo ed il pensiero : “Bisogna tener presente, fra altre
cose, che Malatesta,
pur essendo restato sempre il medesimo anarchico socialista e
rivoluzionario di quando aveva 18 anni, s’è formato da sé il suo
pensiero personale, la sua personalità distinta e caratteristica. E
questo non poteva fare, non poteva cioè giungere alla sua
formazione più matura che passando attraverso una inevitabile
evoluzione di idee. Egli cominciò infatti con l’accettare le idee
del socialismo tali e quali si erano elaborate in seno alla I°
Internazionale fino al momento in egli vi entrò, aderendo alla
concezione libertaria di Bakunin. Ma da quel primo momento il suo
spirito critico, lo studio e l’esperienza cominciarono subito a
modificare in lui quella primitiva concezione, fino a condurlo ad
una concezione anarchica sua propria, in parte d’accordo ed in
armonia con l’evoluzione di tutto il movimento anarchico, ma in
parte restata sempre più personalmente sua.
Fino
dal 1876 egli già dichiarava al Congresso Internazionale di Berna
di non essere ‘bakuniniano’; e con Cafiero, Covelli, Costa, ecc.
era passato dal collettivismo anarchico al comunismo anarchico.
Restava ancora però, in quel tempo, assai impregnato di marxismo
– come lo stesso Bakunin e tutti gli anarchici – e nel medesimo
tempo credente nello spontaneismo anarchico delle masse popolari che
poi divenne caratteristico in Kropotkin; mentalità che in Malatesta
si andò modificando man mano, specialmente dal 1884 in poi.
A
me sembra di cogliere approssimativamente bene il periodo di
transizione dall’anarchismo della I° Internazionale a quello che
fu più suo più o meno fino alla fine della sua vita, nei 7/8 anni
che vanno da L’Associazione
di Londra (1890) a L’Agitazione
di Ancona (1897): Questo periodo può considerarsi come quello della
formazione definitiva, nel senso sempre relativo della parola, del
pensiero malatestiano – benché già ne La
Questione Sociale di Firenze (1884) certi punti fondamentali
della sua evoluzione siano già abbastanza marcati.
Ho
già detto altra volta ch’egli non riconosceva più completamente
come sue alcune idee da lui esposte nel 1884 nell’opuscolo Programma
e Organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori.
A qualche punto del medesimo Fra
Contadini (1884), quando se ne fece una edizione a Spezia nel
1913, egli appose qualche nota di riserva contro alcune idee
marxiste che ne ispiravano qualche argomentazione. In una serie di
articoli su “L’evoluzione dell’Anarchismo” ne L’Agitazione di Ancona (1897) esponeva chiaramente le sue idee
antimarxiste e la posizione dell’anarchismo di fronte al marxismo.
Nel medesimo periodico pubblicò sei articoli su
“L’individualismo nell’Anarchismo”, “L’armonismo” e
“L’Organizzazione” in cui, senza polemizzare direttamente con
Kropotkin, dava dell’anarchismo una interpretazione che è
nettamente contrastante con quella kropotkiniana de “La Conquista
del Pane” e di altri scritti di quel tempo.
Io
chiesi a Malatesta negli ultimi anni se egli avesse modificato più
sostanzialmente le sue idee dopo il periodo de La
Agitazione: Egli mi rispondeva in una lettera dell’11 luglio
1931:’…Quanto alla differenza che vi può essere tra le mie idee
attuali e quelle del 1897 si tratta, come tu dici, di sfumature.
Allora, al tempo dell’Agitazione,
avevo più fiducia nel sindacalismo ( o per meglio dire nei
sindacati) di quella che ho ora; ed il comunismo mi sembrava una
soluzione più semplice e più facile di quello che mi sembra
ora…Differenze più grandi troveresti tra le mie idee attuali (e
del 1897) e quelle del 1872-73-74: Allora eravamo kropotkiniani
prima di Kropotkin…’.
Un
pensiero in evoluzione quindi, essenzialmente pratico, mai
freddamente ideologico la cui attualità si misura necessariamente
con il grado di interesse che è
in grado di suscitare all’interno del più generale
dibattito di liberazione sociale.
Per
tale motivo ritengo utile concentrare l’attenzione di questo mio
intervento solo su alcuni punti a mio avviso particolarmente
significativi.
Riguardo
al movimento dei lavoratori, del sindacalismo, della collocazione
degli anarchici nel conflitto sociale che attualità possono avere i
suoi orientamenti?
E’
noto come per E.M. il movimento dei lavoratori fosse di tale
importanza ai fini della rivoluzione libertaria da ritenere
totalmente improponibile un atteggiamento che lo ignorasse o che
addirittura lo combattesse. Innumerevoli sono gli scritti in cui
insiste su questo punto, come d’altronde sono innumerevoli le
dimostrazioni offerte, in Europa come in America,
nell’organizzare, sostenere, propagandare l’azione operaia.
Un’azione operaia che viene compresa in tutte le sue potenzialità,
ma anche con tutti i suoi limiti senza paraocchi operaistici.
Potenzialità offerte da un grande movimento di masse in ascesa,
spinte alla difesa dei propri interessi dall’intensificarsi dello
sfruttamento capitalistico, e perciò maggiormente sensibili alla
proposta rivoluzionaria, raggruppate in grandi concentramenti
urbani, intrise di senso comunitario, escluse dai processi
dell’integrazione statuale, dotate di una forza quale nessun altro
raggruppamento sociale poteva contare. Ma proprio la conoscenza
della composizione e della struttura della classe lavoratrice che
Malatesta, operaio egli stesso, aveva, non poteva far passare in
secondo piano i limiti stessi dell’azione proletaria, ai quali il
puro e semplice volontarismo non poteva offrire rimedi.
Un’azione
molte volte sensibile al suo semplice restringimento in una
dimensione puramente economica, interessata a volte alla propria
integrazione in un sistema in espansione, coinvolta in conflitti
intercategoriali a sostegno di questo o quello schieramento
padronale, in questo o quel conflitto nazionale. Ecco quindi il suo
richiamo deciso all’azione sindacale (e non sindacalista) rivolto
ai compagni, troppe volte distratti dalla quotidianeità dei bisogni
proletari dal mito dello scontro frontale a tutti i costi; ecco
l’attenzione rivolta a questo o quel settore operaio, la cui
azione pare determinante ai fini della lotta (esemplare il richiamo
agli operai metallurgici, nel pieno dell’occupazione delle
fabbriche). Ma ecco anche l’accentuazione dell’importanza
dell’azione anarchica, dell’organizzazione specifica anarchica,
del ‘partito’ come si diceva allora, ai fini della propaganda,
del proselitismo, della progressiva crescita d’influenza della
proposta e della pratica libertaria nel seno delle organizzazioni di
classe, della preparazione in vista della rivoluzione sociale .
Una
chiara concezione di dualismo organizzativo, quindi, che lungi dal
rappresentare una qualsivoglia cinghia di trasmissione reciproca, va
semplicemente a riaffermare l’importanza del movimento dei
lavoratori come mezzo, e sicuramente il più notevole, per
assicurare il cambio sociale e, con esso, la libertà d’azione per
gli anarchici.
Tale
concezione di dualismo organizzativo non poteva di certo significare
la divisione tra lotta economica e lotta politica, in considerazione
soprattutto dei labili confini esistenti tra le due, e prefigurando
(o idealizzando) un rimedio alle lotte tra correnti di pensiero
differenti ed antagoniste all’interno delle organizzazioni
proletarie – che vedeva da una parte un’intesa generale e la
solidarietà nelle lotte puramente economiche e, dall’altra
un’autonomia completa degli individui e dei vari raggruppamenti
nelle lotte politiche – Malatesta prefigurava l’importanza di
un’unica organizzazione di classe in grado di raccogliere
l’insieme del proletariato, indipendentemente dal credo politico e
religioso dei suoi componenti. Un’unica organizzazione che nella
sua dinamica riuscisse ad affratellare tutti i lavoratori,
emarginando progressivamente le influenze parlamentari, e che,
tramite l’adozione della tattica anarchica, basata sull’azione
diretta e sul rifiuto della delega e del compromesso, si avvicinasse
sempre più alle finalità degli anarchici. Ma anche se così non
fosse, e Malatesta era cosciente di questa probabilissima eventualità,
l’organizzazione unitaria di classe avrebbe comunque costituito un
importantissimo terreno di propaganda e di azione per i gruppi
anarchici.
Agitare
i temi dell’unione tra tutti i lavoratori, della lotta al
corporativismo, della tolleranza ideologica reciproca,
dell’autonomia dei vari raggruppamenti, del decentramento, della
libertà d’iniziativa, dell’inutilità e della dannosità di
capi e di funzionari permanenti, nel quadro comune della solidarietà
contro i padroni ed il governo, era, per Malatesta, l’azione
fondamentale che gli anarchici avrebbero dovuto sviluppare nel seno
dell’organizzazione unitaria. Impostazione cui E.M. non venne mai
meno, nemmeno al sorgere dell’USI e dell’adesione ad essa di
numerosissimi anarchici.
Partendo
dal concetto – chiaramente esposto nel dibattito con Monatte ad
Amsterdam –che il sindacato per sua natura è riformista e che gli
anarchici al suo interno sarebbero rimasti comunque minoranza,
diventava controproducente, per E.M., stabilire una concorrenza sul
terreno organizzativo sindacale che avrebbe comunque stemperato
l’intransigenza libertaria, a danno dell’azione rivoluzionaria
di tipo insurrezionale che si andava profilando. Certo, se le
condizioni lo imponevano, se l’organizzazione unitaria avesse
preso una via che comprometteva l’avvenire e se diventava
difficile porvi rimedio, se gli spazi d’azione al suo interno si
annullavano, la scissione si sarebbe imposta ed una nuova
organizzazione avrebbe preso vita. Ma anche nell’eventuale
prolificare di organizzazioni concorrenti, non si sarebbe mai dovuto
perdere di vista l’obiettivo ultimo: “ poiché se
l’organizzazione dei lavoratori è una necessità primordiale per
le lotte di oggi e per le realizzazioni di domani, non ha grande
importanza l’esistenza e la durata di questa o di quella
determinata organizzazione. L’essenziale è che si sviluppi nei
singoli lo spirito d’organizzazione, il senso della solidarietà,
la convinzione della necessità di cooperazione fraterna per
combattere l’oppressione e realizzare una società in cui tutti
possano godere di una vita veramente umana” (Pensiero e Volontà n°4,
1925).
E
in questa direzione gli anarchici avrebbero dovuto portare la loro
attività in tutte le organizzazioni, rifiutando, in chiara polemica
con le tendenze anarcosindacaliste di scuola sia spagnola (CNT) che
argentina (FORA), la costituzione di una specifica organizzazione
sindacale anarchica, considerata una pura e semplice contraddizione
in termini.
Probabilmente
il suo mettere l’accento sull’organizzazione degli anarchici,
sul ‘partito’, sottovalutando gli effetti che la scuola quotidiana del
sindacato libertario aveva sui suoi aderenti, lascia intendere un
ruolo dello specifico di ben più alto livello di quello che poi
l’Unione Anarchica riuscì a realizzare, presa tra i due fuochi
del fascismo incalzante e del mito bolscevico, e impantanata nel
mito del Fronte unito proletario.
Di
certo è che il suo pensiero faceva riferimento ad una situazione
sociale in continua ebollizione che solo la controrivoluzione
preventiva rappresentata dal fascismo riuscì a stroncare. In questo
frangente si può dire che la spregiudicatezza con la quale E.M.
guardava, nei primi anni venti, alle polemiche CGL-USI e al
dibattito ‘fusionista’ (che metteva in chiara difficoltà la
componente anarchica dell’USI nei confronti dei riformisti della
CGL) fosse dovuta alla scarsa importanza che dava a qualunque
organizzazione sindacale valutata comunque come puramente formale, a
fronte di un intento insurrezionale che avrebbe dovuto vedere i
militanti della sinistra di classe, i repubblicani di sinistra,
impegnarsi, insieme agli anarchici, per l’abbattimento del governo
e del capitalismo.
Chiedersi
oggi che attualità abbiano queste tesi, può avere un senso se ci
rifacciamo al movimento odierno dei lavoratori e alla dinamica
sociale di questi anni.
Dopo
le distruzioni operate dal fascismo e dal nazismo, dallo stalinismo,
dopo la subordinazione sindacale alle istituzioni fino alla sua
totale integrazione, possiamo dire che del sindacato, come del
movimento operaio, così come ne parlava E.M., non ne esista
praticamente più traccia.
Esiste
piuttosto un movimento dei lavoratori, duramente attaccato dai
processi di ristrutturazione capitalistica e dal ridisegnarsi dei
meccanismi del dominio, che si esprime a livelli diversi in momenti
diversi, a volte utilizzando l’istituzione-sindacato, a volte
muovendosi con comportamenti autonomi, dandosi cioè forme
organizzative consone all’obiettivo posto (più o meno
recuperabile, più o meno antagonista), a volte ancora rifondando
nuove forme sindacali più o meno autodirette.
Al
suo fianco sono sorti altri movimenti, più o meno trasversali, come
quelli di lotta contro la devastazione del territorio e
dell’ambiente, quello femminista, contro la guerra, quello
animalista, contro la globalizzazione, oppure quelli giovanili che
dal 1968 in poi hanno rappresentato per vari anni una spina nel
fianco della ristrutturazione, sviluppando pratiche rivoluzionarie
di tipo nuovo rispetto al ‘vecchio’ movimento operaio.
La
frantumazione poi del tradizionale mondo del lavoro, l’emergere di
nuove forme di sfruttamento parcellizzate, l’erosione di diritti e
di libertà, l’esplodere del terziario, hanno contribuito alla
perdita di peso specifico del movimento dei lavoratori, nel più
generale movimento di emancipazione e di liberazione umana.
Ma
finché il problema della riuscita di una rivoluzione si misurerà
con il grado di soddisfacimento immediato delle esigenze delle
popolazioni – condizione fondamentale per la conquista del
consenso – allora la questione della produzione e della
distribuzione di viveri e merci, quindi della ricchezza sociale,
quindi del lavoro umano, manterrà un suo posto fondamentale
all’interno delle lotte di liberazione.
Ed
in questo senso l’indicazione di Malatesta per un maggior impegno
degli anarchici sul terreno del lavoro – sia in termini di lotta
che di studio - conserva tutta la sua validità . Come pure il
concetto della necessità dell’unità di tutti i lavoratori,
inteso naturalmente come tensione militante e come obiettivo di
fondo, sia pure tattico, della nostra azione.
Pur
con le dovute differenze tra aderenti al sindacalismo confederale,
all’USI, al sindacalismo di base, tra anarcosindacalisti ed
anarcoconsiliaristi, la preoccupazione di E.M. in merito
all’importanza dell’organizzazione anarchica, del ‘partito’,
dovrebbe riguardare tutti i compagni e le compagne, nella
definizione di una tattica anarchica in grado di misurarsi con i
problemi (e sono molti e gravi) sul tappeto.
Solo
ridando forza e chiarezza all’organizzazione è possibile che la
diaspora sindacale degli anarchici ritrovi una sua logica ed una sua
ragion d’essere.
Un’organizzazione
che non si limiti però a puro contenitore delle istanze dei
militanti sindacali ma che sappia essere momento di costruzione di
una strategia che sappia convogliare gli sforzi di quanti si battono
per una società di liberi ed eguali.
A
questo proposito si apre una nuova riflessione sul tema del
gradualismo come metodo di azione sviluppato da E.M. per verificarne
l’effettiva praticabilità.
Un
metodo d’azione (basato, non dimentichiamolo, sulla concezione
della conquista di riforme con moti popolari, scioperi, tentativi
insurrezionali, ecc.) che affondava le sue radici, la sua ragion
d’essere, in una situazione proletaria, ancora abbondantemente
estranea – nonostante gli sforzi dei socialisti – ai meccanismi
ed alle logiche statali ed istituzionali. Il proletariato costituiva
ancora una comunità con i suoi valori, le sue tensioni, la sua
cultura, terreno fertile per concezioni antagoniste come quelle del
comunismo anarchico rivoluzionario, avversario deciso di quel potere
che lo opprime e lo sfrutta. Ed è in questa comunità che
l’anarchismo poteva rafforzarsi e rinvigorirsi, abbandonando la
strategia dello scontro frontale, sempre e comunque, che dalla banda
del Matese alla Settimana Rossa aveva mostrato le sue potenzialità
insieme ai suoi limiti.
Non
c’è dubbio che la situazione odierna sia tutt’altra. Ed è
mutata direi in alcune condizioni essenziali: lo sforzo del potere
di integrare il proletariato nelle dinamiche statuali, lo
smantellamento della comunità e dei suoi valori, l’importanza del
garantismo, le tensioni neo-corporative, lo sviluppo dei ceti medi,
l’amplificazione stessa del carattere dello Stato a ricoprire
funzioni di erogatore di servizi.
Questi
mutamenti non sono stati indolori per la strategia gradualista nelle
motivazioni di fondo. Se infatti è vero che nel primo gradualismo
l’ipotesi malatestiana si basava sul fatto che la lotta graduale
su obiettivi parziali era utile perché, dimostrando la sua
impossibilità di soluzione generale
al problema sociale, costringeva il movimento al salto
insurrezionale, nell’ultima parte della sua vita (vedi ad esempio
l’articolo ‘Anarchismo e riforme’ del 1924) il gradualismo
assume valenza più complessa, quasi una prefigurazione di una
controsocietà che si sviluppava in un contenitore che diveniva,
mano a mano, più stretto, fino ad arrivare all’esplosione non più
rimandabile: la rivoluzione sociale. Orbene il problema sta proprio
qui.
Il
primo modo di concepire il gradualismo mi pare superato nei fatti,
sia per le capacità dialettiche della controparte di aggredire il
movimento sul terreno che gli è proprio, con la disgregazione, la
separazione, il corporativismo, riducendo ogni lotta ad un fatto a sé
stante, e quindi razionalizzabile e recuperabile e sia per la
distruzione operata nell’immaginario collettivo dagli andamenti
rivoluzionari del secolo scorso.
Il
secondo modo di concepire il gradualismo si scontra oggettivamente
con un comportamento proletario che, anche nelle sue punte più
autonome, rifugge di farsi carico di una rifondazione della comunità
antagonista, preferendo nella sua quotidianeità il garantismo (o
quel che ne rimane) per battere poi la strada degli organismi
spontanei di lotta nelle rivendicazioni apparentemente incompatibili
o nelle fasi di più acuta ristrutturazione.
Questo
comporta necessariamente un intreccio profondo tra istanze ed
istituzioni ed è proprio su questo terreno che appare più facile
la saldatura tra gradualismo e riformismo, nell’abbandono
definitivo di ogni ipotesi di concreta pratica rivoluzionaria. E se
da una parte abbiamo verificato come la gran parte delle lotte si è
orientata ad ottenere garanzie e diritti dallo Stato, grazie
all’istituzionalizzazione del ruolo mediatore del sindacato e la
definitiva conversione dei partiti, nati dal movimento operaio, in
appendici del sistema di sfruttamento, riducendo i compagni che ad
esso continuano a fare riferimento a sostanziale coscienza critica
dei processi in corso, da un’altra parte abbiamo registrato la
volontà di forzatura operata sul corpo sociale per innescare forme
di resistenza radicale da parte di gruppi ed individui che,
ricorrendo a pratiche avanguardiste più o meno armate, hanno agito
nel tentativo di rompere la gabbia che si è andata costruendo.
Intransigenza
e pragmatismo sono due facce della stessa medaglia: stravolgendo ed
estremizzando il concetto di volontarismo lo si è sganciato dal suo
terreno di riferimento che ne limitava correttamente il significato
e, assumendo se stessi, individui o gruppi, come punto di
riferimento obbligato si è scivolati nel soggettivismo esclusivista
che è arrivato a bollare la ricerca del consenso – fondamentale
per un movimento come il nostro che vuole perseguire la costruzione
di una società solidaristica, orizzontale, comunitaria – come
dato meramente quantitativo, assumendo inoltre atteggiamenti da
coscienza morale del movimento.
L’anarchismo,
se rimane adagiato nell’intransigenza nei confronti delle
dinamiche reali della vita socio-politica, si taglia fuori dal tempo
e dallo spazio, per ripiegarsi di fatto nelle due varianti
possibili, quella 'educazionista’ e quella ‘violentista’.
D’altro canto se affonda nel pragmatismo delle lotte parziali e
delle dinamiche sindacali, rischia di perdere ogni connotazione
rivoluzionaria. E l’anarchismo non può che essere rivoluzionario,
troppo difforme, irrecuperabile il suo contenuto da quello di tutti
gli assetti di potere gerarchici e oppressivi. E non può che
lavorare per l’insurrezione intesa come fase finale di un processo
di crescita della forza popolare in grado di porre all’ordine del
giorno l’abbattimento definitivo di istituzioni già ampiamente
corrose e delegittimate dalle pratiche diffuse di liberazione umana,
di comunitarismo, di solidarismo. Insurrezione che sarà più o meno
violenta a seconda del livello di resistenza che le forze della
reazione, del privilegio, dello sfruttamento opporranno alla
costruzione di una società di liberi ed eguali.
Il
gradualismo anarchico è il metodo che da maggiori garanzie per un
processo di crescita della
consapevolezza popolare, ma che sia veramente anarchico, basato
sulla crescita del consenso, sulla costruzione della cultura della
controsocietà, indisponibile a patteggiamenti istituzionali e
recuperatori, nella certezza che non si può lottare e resistere in
questo Stato come gli anarchici del 1920.
Il
politico ed il sociale non possono essere più considerate categorie
a sé stanti. Inoltre non ci si può ridurre al millenarismo
cassandresco e rifuggire dai problemi concreti che la società, nel
suo sviluppo, pone . Occorre affrontarli essendo capaci di
mantenerci antagonisti, prefigurando meccanismi tendenzialmente
autogestionari sia nei campi produttivi che nei servizi e sul
territorio.
Non
bisogna mai assecondare le tendenze autodistruttive del modo di
produzione imperante ripiegando nell’attivismo nichilista, ma
bisogna cogliere le opportunità offerte dai processi di
disgregazione in atto per sviluppare un’azione in grado di dare
risposta alle esigenze di libertà. Non è un caso che, su scala
internazionale, si stiano moltiplicando azioni e movimenti di
disobbedienza civile. In una situazione in rapidissimo mutamento e
dai contenuti frammentati, pratiche collettive di vario tipo stanno
sostituendo o affiancando le forme di lotta ‘tradizionali’,
mettendo in discussione la sacralità del principio di autorità.
Dagli hacker agli ecologisti, dal movimento d’occupazione delle
case ai cosiddetti no-global, e così via, siamo di fronte ad
un’espressione in crescita di forme di lotta politica in divenire.
Concetti come azione diretta ed autogestione, sia pure in forme
soft, si stanno diffondendo negli ambienti più disparati, pur
all’interno di una lettura che rimane democratica e non ancora
anarchica offrendo comunque prospettive di intervento.
Ed
è proprio su questo terreno, quello dell’impegno concreto, del
contatto con la realtà sociale nel suo complesso (e non tanto con
questo o quel microsettore) che il movimento può ritrovare una sua
identità, una sua concretezza con un impegno programmatico
d’azione che superi antiche dicotomie (la rigida separazione tra
‘specifico’ e ‘sindacale’ ad esempio) non più rispondenti
alle mutate condizioni sociali, con un’attenzione ai problemi
odierni, alla lotta quotidiana contro lo sfruttamento e
l’oppressione, alle battaglie che possono coinvolgere
l’interesse dei cittadini, con una riconsiderazione della lotta
territoriale, del comunalismo, senza settarismi di sorta.
In
questo contesto le riflessioni di Malatesta restano in gran parte
attuali soprattutto quando sostiene che propaganda ed educazione
sono si importanti ma di per se stessi incapaci di produrre eventi
rivoluzionari e che solo il ricorso all’azione diretta
stimolatrice di movimenti radicali contribuisce a dare sostanza alla
propaganda producendo nuovi stimoli e bisogni. Così pure il
gradualismo e il pluralismo della sperimentazione sociale, nella
concezione malatestiana, rimangono pienamente attuali quando si
rapportino alle condizioni e alle esigenze delle masse popolari.
La
validità della tesi anarchica sulla natura dello Stato, generatore
di disordine, violenza e sopraffazione , è confermata
dall’esperienza, per chi la vuol vedere.
E
l’enunciato malatestiano sull’inefficacia rivoluzionaria delle
riforme progressive, in mancanza di una chiara consapevolezza sulla
sostanza del privilegio, ci spinge ancora oggi alla necessità di
sviluppare un’azione rivoluzionaria senza compromessi se vogliamo
veramente contribuire ad aprire le porte ad una società più giusta
e più libera.
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