numero uno


America Latina: una battaglia per la sovranità o una lotta contro il capitale?

Argentina, il paese della sovranità violata.
Brasile, la speranza di sovranità e di emancipazione dagli States di un intero continente.

Così, almeno, viene raffigurata e la realtà negli organi di informazione della sinistra critica ("Il Manifesto", "Liberazione" siti come "Altremappe").

Entrando nel merito della questione, però, ci si accorge che tale rappresentazione non coglie aspetti rilevanti del vissuto di un continente.

E' indubbio che il modello liberista applicato dall'Argentina, con la privatizzazione di ogni servizio essenziale, ha portato alla grave situazione attuale.

Ma è anche vero che le ricette che propongono alcuni leaders del movimento antiglobalizzazione o sono insufficienti o non vanno dritte al cuore del problema.

Parliamoci chiaro: l'Argentina, oltre a disvelare il volto feroce della politica neoliberista e a rappresentare l'immagine possibile del nostro futuro, dimostra anche altro. Rivela, per dirsela tutta, la parzialità di esperimenti come quello di Porto Alegre, dove si propugna l'idea di una gestione dell'esistente improntata a criteri solidaristici, al giusto mix di mercato e di pubblico (da intendersi, quest'ultimo, non solo come statualità, ma anche come partecipazione collettiva alle decisioni).

Se ci si pensa bene, la non troppo lontana occasione di incontro verificatasi a Porto Alegre ha solo in parte risposto alle domande che venivano dall'Argentina.

Ovvio che in quel contesto si sia parlato di quel che accadeva nel frattempo a Buenos Aires. Lo si è fatto muovendo, però, da una ottica assai discutibile, partendo da un angolo visuale limitato. L'Argentina, vi si è detto, dimostra l'insostenibilità del liberismo. D'accordo, diciamo noi, ma la precipitazione degli eventi che li si è verificata è forse recuperabile con una sana politica di riforme, con un ripristino dell'intervento statale nell'economia? O, ancora, con la formula di bilancio partecipativo sperimentata a Porto Alegre?

Si può dire, senza ombra di dubbio, che la partecipazione popolare dispiegatasi nell'Argentina, che ha fatto cadere De La Rua e che preme di continuo su qualsiasi esecutivo, è cosa altra -pur nei suoi limiti- dal modello di pacificazione sociale promosso con l'esperimento dell'isola felice di Porto Alegre.

Non a caso, la prima è vista come disordine e preoccupa gli analisti democratici, anche se forse ciò che intimorisce sono più i suoi possibili sviluppi che il suo concreto svolgersi nel presente. Il secondo, viene apprezzato da tutti, anche dagli avversari del movimento no global. Porto Alegre non costituisce forse un segno di maturità e di propositività da parte di un movimento che spesso si limita solo a criticare ed a rifiutare?

Insomma, i mondi di Buenos Aires e di Porto Alegre si incontrano, ma fino a un certo punto.

Soprattutto perchè, è difficile anche un recupero tardivo della spinta contestativa verificatasi in Argentina. Tale recupero, sostenuto dalle firme più intelligenti della intellettualità della sinistra critica (vedi Lanfranco Caminiti), sarebbe possibile solo in caso di esaurimento della conflittualità. Ma il fuoco divampato nell'autunno-inverno 2001 non si è ancora affievolito. Semmai sono emerse, inevitabili, le contraddizioni. Contraddizioni tra settori sociali, tra le classi medie che si lamentano delle restrizioni bancarie alla riscossione dei propri crediti e i settori più genuinamente proletari del movimento argentino, quei piqueteros in cui Hebe de Bonafini ha visto gli eredi dei giovani che praticavano lo scontro di piazza nei '70, prima che la dittatura si facesse largo col piombo.

Insomma la lucha continua. E può spingersi ben al di là degli obiettivi individuati dai guru del movimento no global.

Ben al di là, per intendersi, di una sia pur sacrosanta opposizione all'ALCA, cioè a quell'accordo di libero commercio tra le Americhe che non potrebbe che confermare il predominio yankee su un continente.

Invero, un processo popolare di contestazione permanente alle politiche neoliberiste che non si fermi, che non venga imbrigliato in logiche di mediazione istituzionale, può sfociare in una negazione aperta, collettiva, del capitalismo.

E a quel punto la ostilità verso l'ALCA si caricherebbe di ben altre valenze rispetto a quelle attuali.

Non si tratterebbe più di opporsi a quella ipotesi nel nome di un Mercosur rinnovato.

Certo, il Mercato Comune del Sud, nato con il trattato di Asuncion del 1991 (sottoscritto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), è sempre stato inviso agli States, che ad esso hanno decisamente contrapposto la suddetta prospettiva di un'area di libero scambio tale da andare dall'Alaska alla Terra del Fuoco.

Ma questa contrarietà degli USA, desiderosi di mantenere una egemonia minacciata, non può rendere più condivisibile una ipotesi velleitaria e discutibile.

L'idea di una area di libero commercio latinoamerica dove invece del liberismo predomini il principio della cooperazione, di un'area, cioè, interna al mercato mondiale ma sganciata dalle sue logiche più crudeli, non ci convince.

Non ci convince e ci rimanda direttamente ad un approccio critico verso il "caso brasiliano", verso le "magnifiche sorti e progressive" che spetterebbero ad un paese eventualmente governato, dopo le elezioni di ottobre, dalla sinistra, dal Pt di Lula.

Non possiamo dimenticarci, infatti, delle contraddizioni emerse durante la kermesse di Porto Alegre.

Non può cadere l'oblio sulla scelta di fare entrare dalla porta di servizio le punte più radicali della conflittualità latinoamericana (si pensi alle madri di Plaza de Mayo, la cui attività di trasmissione della memoria fa paura, o alle FARC, realtà cui guardiamo con distacco critico ma che non può essere ignorata).

Così come sono ancora fresche, nella nostra memoria, le cronache scandalizzate dei più genuini avventori alla corte di Lula, quelli che riportavano un fatto inquietante: durante le giornate antiglobalizzazione, i minori che sono soliti chiedere l'elemosina nelle strade, sono stati "sgombrati" per non dare una cattiva immagine della città-paradiso di Porto Alegre.

Il ricordo di simili nefandezze, ci fa venire più di un dubbio circa la possibilità che l'affermazione di Lula, dopo otto anni di cedimenti agli States da parte di Cardoso, porti il Brasile a diventare l'alfiere del riscatto latinoamericano.

Anzi, da parte nostra è radicale la critica proprio alla impostazione politica e culturale emersa in quel di Porto Alegre.

Trattasi di una impostazione che viene da lontano. E che rimanda ad ipotesi come quella già evocata dello "sganciamento", elaborata negli anni '70. Con essa prima si intendeva lo sganciamento di singoli Stati-nazione dal mercato mondiale, per costruire, sulla base di una alleanza interna tra borghesia illuminata e ceti popolari, una economia indipendente e "socialisteggiante".

Oggi, alla luce dei cambiamenti verificatisi nel proscenio internazionale, con il termine sganciamento si intende la costituzione di blocchi di Stati che cooperino tra loro, rimanendo, come si diceva prima, interni al mercato mondiale ma senza accettare tutte le direttive di Banca Mondiale e Fondo Monetario.

Il che, molto prosaicamente, rimanda alla scelta, per il continente latinoamericano, di partners economici e commerciali diversi dagli States.

Partners che già si sono fatti vivi. Vogliamo forse dimenticare gli investimenti effettuati in America Latina dalla Spagna? O l'apprezzamento verso il Mercosur più volte manifestato dagli euroburocrati?

Diciamocela tutta: un rilancio della suddetta prospettiva di "sganciamento" non può che coincidere con un sempre maggiore rapporto con l'Europa. Ma, per l'America Latina, ciò vorrebbe dire cambiare padrone, assumerne uno più democratico, certo, ma sempre rimanendo dentro un rapporto di dipendenza economica e politica.

Altro che riconquista della sovranità!

Per fortuna non ci sono solo Lula e soci. E imbrigliare spinte come quella dei Piqueteros nel nome di un possibile idillio con l'UE non sarà una impresa facile!