NIKE CONDANNATA PER LE BUGIE AL PUBBLICO.
ULA CORTE SUPREMA DELLA CALIFORNIA: IL COLOSSO DELL'ABBIGLIAMENTO SPORTIVO NON PUO' MENTIRE AI CONSUMATORI. ALL'INDICE I COMUNICATI A DIFESA DEGLI STABILIMENTI NEL SUDEST ASIATICO


maggio 2002

NEW YORK - Al pubblico è vietato dire bugie. Lo ha stabilito la Corte suprema della California con una sentenza a carico della Nike, il colosso dell'abbigliamento sportivo, accusata di mentire per le campagne a difesa dell'azienda. Gli spot incrinati, precisano i giudici, sono quelli mirate a fornire un'immagine della società dopo le rivelazioni sulle condizioni di lavoro nei suoi stabilimenti del sudest asiatico.
I giudici supremi si sono comunque spaccati sulla sentenza, ma la loro decisione viene ora considerata una svolta giuridica con possibili ripercussioni sulla comunicazione aziendale di molte grandi 'corporation' degli Usa e potenzialmente del resto del mondo. La Nike è stata ritenuta non protetta dal Primo Emendamento alla Costituzione, che tutela la libertà di espressione. Per le proprie dichiarazioni pubblicate in pagine a pagamento sui giornali o in comunicati stampa, secondo i giudici, devono valere regole simili a quelle legate ai dati di bilancio. La Corte ha sancito che la Nike può essere denunciata e portata in aula per le proprie affermazioni pubbliche, che possono rivelarsi una forma di 'pubblicità ingannevole' e tramutarsi in risarcimenti di danni.
Immediata la reazione della Nike, che ha preannunciato di voler portare il caso di fronte alla Corte suprema degli Stati Uniti. ''Questa decisione stabilisce un precedente pericoloso - afferma un comunicato della società - limitando la possibilità per società come Nike di rilasciare dichiarazioni
pubbliche riguardo alle proprie pratiche imprenditoriali quando viene sfidata in modo pubblico''.
Il caso Nike era esploso nel 1996, quando un'inchiesta televisiva della Cbs aveva svelato le condizioni dei lavoratori negli stabilimenti in Vietnam e in altri paesi. I giornali americani avevano dato grande risonanza alla vicenda, pubblicando inchieste che accusavano la Nike di pagare salari da miseria e di chiedere orari di lavoro eccessivi, oltre ad alcune storie di abusi fisici e sessuali e di danni per la salute degli operai. La società aveva reagito con una vasta controffensiva di pubbliche relazioni, difendendo il proprio operato. Ma un attivista di San Francisco, Marc Kasky, l'aveva denunciata sostenendo che comunicati stampa e lettere inviate dalla Nike a giornali e ai vertici del mondo dell'atletica contenevano informazioni false.
La società ha quindi sostenuto che le dichiarazioni pubbliche di un'azienda sono protette dal diritto costituzionale alla libertà di espressione. Una tesi che ha retto nei primi gradi di giudizio, ma che ora è stata smontata dalla Corte suprema della California, aprendo la strada a Kasky per chiedere danni per milioni di dollari alla Nike, da destinare in beneficienza o a 'rimborsi' per i clienti. Quando una società diffonde ''rappresentazioni fatturali riguardo ai propri prodotti o alle proprie attività - ha scritto nella relazione di maggioranza il giudice Joyce Kennard - deve parlare in modo veritiero''. Altrimenti è passibile di azioni legali e dei conseguenti risarcimenti.
Tra i primi a muoversi in difesa della Nike è stata la principale organizzazione sindacale del Vietnam (Vgcl), secondo la quale la società garantisce le giuste condizioni di lavoro. ''Gli standard a cui la Nike chiede ai propri partner in Vietnam di adeguarsi sono molto buoni, se comparati con quelli di altri luoghi di lavoro'', ha detto Vuong Van Viet, vicedirettore della Vgcl. ''I salari, i benefici sociali, le ore di lavoro, tutto è molto buono'', ha detto Viet.