L'AFGHANISTAN NEL CUORE


aprile 2003, di Graziella Longoni, Donne in Nero Milano

1. ANDARE IN AFGHANISTAN
L'Afghanistan è entrato nella mia vita e nei miei pensieri attraverso il racconto e la testimonianza di Orzala, Mariam, Zoya, Naja, Sharifa, Razia, donne di HAWCA e di RAWA, che in questi anni sono venute in Italia per chiedere aiuto e per farci conoscere la tragica condizione di vita di un popolo, in particolare delle donne, martoriato da 25 anni di guerra, dall'invasione sovietica alla sanguinaria guerra civile tra i mujahidin, alla violenza sistematica del regime barbaro e oscurantista dei Taleban, all'intervento americano per colpire il terrorismo di al Qaeda. Un paese remoto, misterioso, che trovava posto nelle pagine di cronaca solo come grande produttore di oppio, o come brodo di coltura di un islamismo brutale che aveva pronunciato il jihad contro l'Occidente e gli Stati islamici asserviti si suoi interessi, o come luogo destinato a diventare un corridoio di passaggio dei gasdotti che avrebbero congiunto il Mar Caspio all'Oceano Indiano, attraverso il Turkmenistan e il Pakistan. L'Afghanistan appariva un paese ingovernabile, un paese in preda al caos. Intanto, nell'indifferenza generale i suoi abitanti consumavano la loro esistenza nella miseria, nell'analfabetismo, nella negazione dei più elementari diritti umani, nella violenza sistematica contro le donne condannate dai fondamentalisti a vagare come fantasmi informi, nascoste sotto il burqa, a languire senza cure e senza lavoro, a morire lapidate, a vivere come eterne minorenni senza alcun rispetto ed alcuna autonomia, o come "cose" da possedere, da usare e da gettare. Nelle parole di Orzala, Mariam, Zoya, Naja, Sharifa, Razia, che con coraggio giravano il mondo per rompere il muro di silenzio e di menzogna che alienava e isolava il loro paese dal cosiddetto mondo civile, prendeva corpo un'umanità dolente, travolta dalla sofferenza, un'umanità che loro, nella loro azione quotidiana, cercavano di risvegliare al senso del diritto e dell'autostima. Impegnandosi ogni giorno ad alleviare la pena di chi vive nei campi profughi in condizioni di grande precarietà, o in povere casupole di fango , o di plastica, queste donne mettevano in atto i gesti della "cura": scuole di alfabetizzazione per donne, bambine e bambini, scuole di taglio e cucito per le vedove che, apprendendo un lavoro, avrebbero potuto poi mantenere i propri figli senza prostituirsi e senza chiedere l'elemosina, orfanotrofi per accogliere i bambini e le bambine, strappandoli dalla strada, accoglimento e protezione delle donne violentate e dei loro figli. Occuparsi di queste persone, in particolare delle donne, figure marginali in una società tribale tradizionalista attraversata dal vento gelido del fondamentalismo, e aiutarle a prendere coscienza della propria realtà di soggetti portatori di diritti umani per costruire insieme a loro le ragioni della speranza, rompendo con quel vissuto di rassegnazione che condanna alla passività e all'immobilismo, perché legge una situazione storica di negazione e di soprusi come destino ineluttabile; questo è il senso di ogni autentico gesto di "cura". A Orzala, Mariam, Zoya, Naja, Sharifa, Razia io devo l'emozione profonda che mi ha permesso di sentirmi solidale e coinvolta in quel processo di liberazione che accoglie e vive l'"altro" come prossimo e non come straniero e lo incontra nell'impegno quotidiano per affermare il rispetto e la dignità dell'essere umano in qualsiasi regione del mondo conduca la sua esistenza. E' per dire loro "grazie" che ho deciso di andare in delegazione in Afghanistan. Stare insieme a loro nei loro luoghi di vita e di lavoro, condividere, sia pur per poco tempo, le difficoltà che incontrano nel loro operare, conoscere da vicino le loro attività il loro stile di lavoro, le persone di cui si occupano con grande senso etico e grande finezza psicologica , questo sarà un momento del mio cammino per dare sostegno alla loro causa, che diventerà anche la mia causa.

2 KABUL: UN'UMANITA' DOLENTE IN UNA CITTA' DEVASTATA.
Dall'oblò dell'aereo intravedo le cime innevate di montagne imponenti, che circondano e sembrano rinchiudere e isolare l'Afghanistan dal resto del mondo; in basso un pianoro brullo polveroso e i resti di qualche edificio bombardato. Atterriamo a vista, senza l'aiuto di radar e di torri di controllo; sono le 10.30 del giorno 16 marzo 2003, l'aria è pungente. Nei fatiscenti locali di ciò che resta dell'aeroporto una bolgia infernale, controlli ripetuti che però non sembrano avere senso, una folla di uomini, molti dei quali con barbe e turbanti, si accalcano per recuperare i bagagli che vengono portati a mano e deposti senza alcun criterio su un nastro trasportatore che non scorre. E' una lotta dura riuscire a vedere ciò che arriva, è una lotta dura farsi largo per strappare la valigia dai piedi che la stanno calpestando, è una lotta dura per non cadere e per cercare di respirare. Finalmente lasciamo l'aeroporto e in auto percorriamo le vie della città. Degrado, distruzione, miseria, caos è ciò che vediamo, un doloroso spettacolo, che nei giorni successivi si ripeterà continuamente. Kabul è una città devastata, ovunque edifici sventrati, pericolanti, sporcizia, fogne a cielo aperto ai bordi delle strade, un traffico ingovernabile, taxi che caricano decine di persone, una polvere untuosa che impregna l'aria, ingrigendo e insudiciando ogni cosa. Molte donne col burqa azzurro camminano veloci per le strade, non sono quasi mai sole, o sono precedute da un figlio maschio, o sono affiancate da altre donne, pochissime hanno il viso scoperto. Si incontrano tante vedove avvolte in burqa laceri e bisunti che chiedono l'elemosina, qualcuna mostra delle ricette mediche per dire che ha bisogno di medicine e non le può comprare. Sulla via dei negozi che espongono tappeti, tessuti, gioielli d'argento e di lapislazzuli, abiti caratteristici coloratissimi, frotte di bambini ci circondano e vogliono essere fotografati. Sono vestiti miseramente, sporchi, molti chiedono l'elemosina, altri insistono per pulirti le scarpe, altri offrono piccoli rotoli di carta igienica. Sui loro volti ci sono spesso le cicatrici delle ulcere prodotte dalla leshmaniosi, una malattia infettiva causata da parassiti, che colpisce la cute, ulcerandola, o le viscere (febbre nera), causando la degenerazione degli organi interni e provocando un'alta mortalità, se non trattata in tempo e adeguatamente.
I più piccoli hanno un grande bisogno di contatto, di tenerezza. Faward, un bambino che dice di avere nove anni ma ne dimostra sei, mi si avvicina timidamente, vuole sapere il mio nome e poi, quando io riesco a pronunciare il suo, felice e con orgoglio mi prende per mano e non mi lascia più. Lo rivedo due giorni dopo e subito mi corre incontro, facendomi una grande festa. E' un bambino esile, dolcissimo, porta un camicione lungo, che lo rimpicciolisce ancora di più, i suoi occhi scuri mobilissimi sembrano attraversati da un'infinita malinconia, che entra nell'animo di chi li guarda, per non lasciarlo più. Appesi all'esterno dei negozi e in bella vista si vedono tappeti con le due torri gemelle di New York colpite dagli aerei e la bandiera americana affiancata a quella afghana in segno di amicizia. "USA good" ­ dicono i venditori, mentre alcuni bambini rispondono "USA no good, bombing". Dovunque grandi ritratti di Massud, per molti l'eroe nazionale. Verso la periferia piccole case di fango, abbarbicate sui versanti della montagna, ai bordi delle strade una fila ininterrotta di catapecchie sbrindellate, senza tetto e con una facciata coperta di teli di plastica, assolutamente inadatte a proteggere dal freddo notturno, quando la temperatura scende di parecchi gradi e a riparare dalla polvere che entra nella bocca, nelle narici, negli occhi che si arrossano, impregna i capelli e i vestiti. Ogni tanto si vede qualche pompa dell'acqua con bambine , donne e bambini che cercano di riempire bidoni, l'acqua però non è sicura, nemmeno bollita. Tra gli edifici sventrati e pericolanti si scorgono persone piegate, che cercano di rimpicciolirsi per riuscire a stare in uno spazio esiguo e polveroso, delimitato da calcinacci e da spunzoni di ferro arrugginito. Ogni tanto si vede anche qualche casa in pietra e cemento, completamente ristrutturata e abbellita da un giardino, che sicuramente apparterrà a qualche signore della guerra o a qualche personaggio di alto rango, dal momento che è difesa da uomini armati posti all'ingresso e lungo i muri perimetrali. Frequentemente si incontrano uomini armati e non si riesce a capire se sono guardie addette alla sicurezza della popolazione, o miliziani al servizio di qualche potente. La gente è incuriosita, quando vede qualche occidentale per strada, si lascia fotografare, anzi lo desidera, persino le donne col burqa si mettono in posa e spesso gli uomini radunano tutti i loro figli per farsi fare la foto di famiglia. A Kabul è difficile trovare alberi e prati verdi, c'è solo terra battuta, brulla e polverosa e asfalto che copre strade spesso dissestate. L'elettricità viene erogata per poche ore al giorno e se non si dispone di generatori si è costretti a stare al buio.
Ma quando si inizierà a ricostruire? Quando si farà una vera rete fognaria? Quando si scaveranno pozzi e si cercherà di migliorare la qualità dell'acqua?
Quando i bambini potranno giocare, non tra rivoli di fogna, ma su prati verdi?
Quando la cura per la vita e il diritti delle persone a condurre un'esistenza dignitosa si affermeranno come impegno primario, come dovere di civiltà?

3. LA DIFFICILE SITUAZIONE POLITICO-SOCIALE. Incontro con la Ministra degli Affari femminili Habiba Sarabi, già membro di Hawca.
Incontriamo la Ministra nel suo studio, dopo aver superato controlli severi. Il problema della sicurezza è infatti il più urgente e il più difficile da risolvere, soprattutto nei villaggi e nelle province più lontane dalla capitale. Ci sono parecchi segnali di pericolo che suscitano preoccupazione e allarme. La Ministra stessa è stata minacciata tanto è vero che le sue Guardie del corpo hanno dovuto schermare le finestre del suo ufficio con tele protettive. Troppa gente gira armata per le strade, il governo è debole, molte ordinanze di Karzai cadono come lettera morta perché non vengono applicate. Habiba ci descrive la struttura governativa e in particolare ci parla del lavoro svolto dal suo Ministero. Ci sono nove ministeri, ciascuno ha un responsabile che si avvale della collaborazione di una cinquantina di persona che però non hanno alcuna competenza specifica. I ministeri sono affollati di impiegati che non sanno cosa fare e che avrebbero bisogno di seguire un training formativo professionale per essere all'altezza del loro compito. Habiba sta lavorando da mesi per migliorare il sistema amministrativo con l'obiettivo di attivare una politica di genere nel campo della sanità, dell'istruzione e in ambito legislativo, questo le consentirà di proporre al Governo leggi specifiche che tutelino le donne soprattutto contro la violenza di cui sono ancora vittime e condannino i trasgressori. E' vero che la Costituzione del 1964, ritornata in vigore, proibisce di fare violenza a chiunque, ma questa norma spesso non trova applicazione, molte sono le resistenze ideologiche in tal senso. Per ora il Ministero degli Affari Femminili è riuscito a collocare suoi rappresentanti in tutti gli altri in modo tale che la particolare condizione della donna nella società afghana venga affrontata adeguatamente e trovi risposte legislative mirate. Ha anche organizzato seminari sulla Costituzione, avvalendosi della collaborazione delle ONG e dell'Università e costituito una commissione che, dopo aver studiato le varie Costituzioni su cui si reggono i Paesi democratici nel mondo, scriverà il testo di una nuova Costituzione per l'Afghanistan, in cui verrà ribadito che i diritti delle donne sono diritti umani inviolabili.
Habiba segnala i passi fatti dal suo Ministero sino ad oggi:
° si è istituito un comitato che controlla l'arrivo e organizza la distribuzione degli aiuti nelle diverse aree di settore (sanità, istruzione, artigianato, ecc.); la maggior parte degli aiuti però è devoluta alle ONG e questo comporta il rischio che lo Stato venga assorbito dalle stesse ONG;
° la politica verso le donne sta cambiando: il diritto all'istruzione consente anche alle bambine di frequentare la scuola pubblica, il diritto al lavoro fa sì che anche le donne possano cercare un impiego, adesso molte donne possono uscire da sole, mentre all'epoca dei taleban questo non era permesso, molte donne cominciano a partecipare ad iniziative pubbliche, rompendo il muro dell'invisibilità che le separava dagli altri e dal mondo. Alla celebrazione dell'8 marzo 2002, organizzata dal Ministero degli Affari Femminili, erano presenti molte donne che però si nascondevano ancora sotto il burqa, alla stessa celebrazione del 2003 c'erano due mila donne e nessuna portava il burqa.
La situazione comunque non è ideale, ci sono molte difficoltà soprattutto nelle province dove i fondamentalisti religiosi, nemici giurati delle donne, hanno bruciato varie scuole femminili nel tentativo di fermare il processo di democratizzazione in atto.
Le donne sono ancora in pericolo, perché:
° il problema della sicurezza non è stato risolto; i signori della guerra infatti possono fare tutto quello che vogliono, soprattutto nelle province e il governo è ancora troppo debole ("quando il governo è debole, i signori della guerra sono potenti");
° la cultura tradizionale è molto radicata in un sistema sociale ancora tribale, come quello afghano, che tende a seguire le proprie leggi e rimane refrattario al cambiamento di abitudini e stili di vita che hanno sempre negato e marginalizzato la donna.

4. RAWA: COMBATTERE IL FONDAMENTALISMO, INSEGNANDO ALLE DONNE IL RISPETTO DI SE' E PROMUOVENDO LA COSCIENZA DEI DIRITTI UMANI
Nella guest-house dove siamo alloggiati, incontriamo Safoura, una donna di Rawa che ci guiderà nel nostro cammino di conoscenza delle attività promosse dall'Associazione. Safoura arriva coperta dal burqa. Ci spiega che hanno molti problemi di sicurezza. A causa dei fondamentalisti al potere sono ancora costrette a vivere in semiclandestinità. Rawa è presa di mira perché non si limita a svolgere un lavoro sociale, ha anche una posizione politica che rivendica la laicità dello Stato, presupposto fondamentale per avviare un vero processo democratico culminante nella nascita di uno Stato di diritto effettivamente rappresentativo e capace di garantire pari dignità alle donne e agli uomini in ogni ambito della loro vita. La situazione di pericolo ha costretto il gruppo dirigente dell'Associazione , che ora è composto di dieci persone, a ridurre il numero dei suoi membri. Oltre a Rawa, che è unica nel suo genere, ci sono gruppi misti di uomini e di donne che condividono la stessa visione laica, ma non riescono ad affermarsi nella società perché non dispongono dei mezzi necessari.
Gli Stati Uniti sostengono il governo di Karzai, che ha al suo interno vari fondamentalisti, e non danno alcun appoggio a queste forze democratiche che vorrebbero svolgere una politica dal basso, vicina alla popolazione e ai suoi bisogni. L'Afghanistan non è pacificato, i taleban sono stati sconfitti militarmente ma non sono spariti, alcuni si sono riciclati nella polizia, altri nelle milizie dei signori della guerra e il "talebanismo", come ideologia fondamentalista che usa la religione per scopi politici, è ancora vivo e presente nei centri del potere e nella società. Se scoppierà la guerra in Iraq, l'Afghanistan rischia di cadere nuovamente nel caos. Parte delle forze dell'ISAF, che attualmente controllano territorio, potrebbero essere spostate in Iraq e questo renderebbe ancora più drammatico il problema della sicurezza, soprattutto nelle province, dove i fondamentalisti potrebbero riprendere il potere senza incontrare ostacoli. I timori di Safoura sulla sicurezza sono presto confermati. Due giorni dopo il nostro arrivo, al gestore della nostra guest-house vengono fatte domande sulla donna col burqa che incontra degli occidentali nella sua casa. La situazione è infatti anomala, perché una donna col burqa di norma non ha rapporti con degli stranieri. Safoura ha dovuto cambiare tattica e aspettarci, nascosta in macchina, a qualche isolato più lontano. Come si vede, ci sono occhi che controllano, occhi cui nulla sfugge. La preoccupazione per l'incolumità delle donne di Rawa appesantisce i nostri cuori. Anche Orzala, responsabile di HAWCA che incontreremo successivamente, non è tranquilla. Pensa che le donne di RAWA si stiano esponendo troppo e stiano rischiando moltissimo. Il clima è davvero pesante. Qualche giorno dopo ci giungerà la notizia che l'Ospedale di Malalai, gestito da RAWA a Rawalpindi in Pakistan, è stato preso d'assalto da un commando di fondamentalisti che ha sparato, colpendo il direttore sanitario e ferendolo in modo grave. Nonostante la situazione di pericolo le donne dell'Associazione continuano a lavorare per costruire una speranza e una possibilità di futuro. Con Safoura abbiamo visitato due scuole di alfabetizzazione e una di taglio e cucito, abbiamo visto come è stato impiegato il microcredito concesso a una vedova e abbiamo incontrato alcune donne che hanno subito violenza.

a) Scuole di alfabetizzazione.
Alla periferia di Kabul, tra casermoni fatiscenti costruiti dai sovietici, molti bambini giocano in un grande cortile polveroso, alcuni si dondolano su una vecchia altalena sospesa su un rigagnolo putrescente, qualche bambina, con uno scopino, cerca di fare pulizia vicino al locale della scuola. Ci viene incontro l'insegnante, una donna forte, con uno sguardo fiero, autorevole, molto materna ma anche decisa . E' una militante di Rawa. Questa appartenenza le ha dato la forza di impegnarsi in questo lavoro di alfabetizzazione e di non interromperlo, nemmeno quando i taleban hanno fatto irruzione nel locale di casa sua in cui teneva i corsi, minacciandola e rompendo la lavagna. Lei è riuscita a convincerli che stava facendo una lezione di taglio e cucito e quindi l'hanno lasciata in pace. Il corso che tiene attualmente è misto, ci sono bambine, ragazze e donne adulte. Molte hanno perso degli anni e quindi fanno corsi intensivi. Mettendosi alla pari, le più giovani potranno poi frequentare la classe corrispondente nella scuola pubblica. Il corso di alfabetizzazione prevede due ore giornaliere di lezione, per le ragazze più grandi c'è anche un corso di cucito. Il lavoro più difficile è quello di convincere i genitori a mandare le figlie a scuola. Molti hanno timore a mandarle nella scuola pubblica, però permettono loro di frequentare la scuola di Rawa, perché conoscono l'insegnante. La scuola è un piccolo locale, luminoso, pulito, le studentesse siedono sui banchi disposti lungo le pareti. Sono tante, una trentina, molto attente e partecipi. Assistiamo ad una lezione. E' un dettato. L'insegnante scandisce le parole, tutte ripetono e poi le scrivono sul quaderno. Una giovane donna, che desidera diventare insegnante di inglese, è chiamato alla lavagna e scrive sotto dettatura, mentre la classe continua a ripetere a voce alta. Presto la lavagna si riempie dei segni, per noi misteriosi, della lingua dari, segni che sembrano disegnare un movimento di danza. L'insegnante è molto contenta dei successi delle sue allieve ed esprime la sua gioia, gratificandole e incoraggiandole, mentre i suoi occhi si illuminano. Dice che l'accesso delle donne all'istruzione è già una grande conquista, perché è l'affermazione tangibile di un diritto fondamentale. Lei non si limita però ad insegnare a leggere e a scrivere, parla con le ragazze e cerca di far capire loro che hanno dei diritti ai quali non devono assolutamente rinunciare. Far nascere questa coscienza e permettere alle donne di acquisire gli strumenti culturali per saper individuare i soprusi è per lei il modo più efficace per combattere il fondamentalismo. Anche l'insegnante, che incontreremo nella seconda scuola, sottolinea la portata rivoluzionaria di un progetto educativo rivolto alle bambine e alle donne, convinta che solo la cultura e la conoscenza potranno costituire un argine sicuro contro l'oscurantismo che pretende di cancellare la donna dalla società e dalla storia. Il suo entusiasmo è contagioso e ci apre il cuore alla speranza.

b) Microcredito: una vedova può mantenere i propri figli.
Rawa ha concesso un microcredito ad una vedova con cinque figli di età compresa tra i quattro e di diciassette anni. Il marito e il fratello sono stati uccisi da Golbuddin Hechmatiar, un sanguinario signore della guerra. Prima dell'arrivo dei Taleban avevano l'elettricità, poi i pali e i fili della luce sono stati smantellati e il rame, di cui era composto l'impianto elettrico, è stato venduto all'estero dai taleban. Per sfuggire alla loro brutalità, vivevano nascosti tra le montagne con i soli vestiti addosso. Ora la donna ha un nutrito allevamento di polli, che lei cura in prima persona, mentre il figlio maschio porta le uova al mercato per venderle. Nel suo sguardo c'è la profondità del dolore, ma anche l'orgoglio di chi, col suo lavoro, è riuscito ad assicurare una vita dignitosa a sé e ai suoi figli. Ci accoglie nella sua casa, ci offre the e biscotti e ci racconta la sua grande fatica per sopravvivere, senza commiserarsi. Ora è più serena perché lei e la sua famiglia possono sperare nel futuro e affrontare la vita con più sicurezza. Il microcredito, erogato per produrre reddito, è dunque un altro modo per affermare concretamente il diritto della donna al lavoro e all'autonomia economica.

c) Scuola di taglio e cucito
E' un piccolo locale, vicino ad un'altra scuola di alfabetizzazione. Per terra ci sono tre vecchie macchine da cucire, scampoli di stoffa e quanto occorre per tagliare e confezionare abiti. La maestra invita le donne, che sono molto giovani, a darci una dimostrazione sulle abilità acquisite nel taglio e nel cucito. Timidamente azionano le macchine da cucire, che funzionano benissimo e ci mostrano come si mettono insieme le parti di un vestito, che la maestra ha tagliato dopo aver segnato la stoffa con un gessetto. Nella scuola le ragazze producono vestiti per sé ed intanto imparano un lavoro. Anche questa attività mette le donne nella condizione di sentirsi capaci e valorizzate. Indosseranno un vestito che hanno creato loro stesse, con le loro mani e la loro intelligenza. Anche questo è un modo per acquisire fiducia e imparare a credere in se stesse.

d) Incontro con donne che hanno subito violenza.
E' stata un'esperienza di grande impatto emotivo incontrare quattro giovani donne disposte a raccontare la loro tragedia personale. Le loro sono storie tremende, storie di esistenze violate, spezzate dal dolore, sospese nell'impotenza, storie di corpi illividiti dalle percosse, feriti, storie intrise di una disperazione che getta nello sconforto e fa precipitare la mente nell'abisso della depressione che ingoia la voglia di vivere e fa pensare al suicidio come estremo gesto di liberazione.
Nazira (23 anni): "Mio marito mi mordeva e mi picchiava con una tale violenza da farmi pensare che avesse dei problemi di salute mentale. La sua furia era incontenibile. Ho chiesto aiuto a mio padre che ha cercato di parlare con lui, senza alcun risultato. Mio marito prometteva di smettere, ma riprendeva subito a picchiarmi selvaggiamente. Vivevo come rifugiata in Pakistan. Con l'aiuto di mio zio, che era in contatto con Rawa, sono fuggita e sono arrivata a Kabul. Ero incinta del mio terzo figlio. Ho lasciato gli altri due con mio marito che, per fortuna, non li picchia e li ama. A Kabul le donne di Rawa mi hanno accolto e nascosto in una delle loro case. Adesso vivo più serenamente con il mio bambino che è nato diciotto mesi fa. (Lo tiene in braccio, lo culla, lo allatta; è un bambino sveglio, sano, vivace, sorridente, curioso). Il grande problema è che spesso i matrimoni sono decisi dalle famiglie e le donne non hanno quasi mai la forza di ribellarsi, perché sono state abituate ad accettare questa assurda condizione come un destino. Ci sono anche famiglie che cercano di proteggere le figlie e le appoggiano nel loro diritto di scegliersi il marito, ma sono poche. Fa bene Rawa a puntare sull'istruzione, è l'unico modo per liberare le donne e anche gli uomini da una secolare ignoranza che non permette alle prime di conoscere i propri diritti e di farli valere e ai secondi di rendersi conto che schiavizzare e calpestare una donna è solo un comportamento brutale e disumano".
Sharifa (22 anni): "Sono rimasta vedova a vent'anni, dopo tre anni di matrimonio. Secondo il costume tradizionale avrei dovuto sposare il fratello di mio marito, che però era già sposato e aveva dei figli. Se mio cognato fosse stato molto più giovane di me, avrei dovuto aspettare che diventasse adulto. Questa è la tradizione. Io mi sono opposta e lui mi ha picchiato più volte. L'intera famiglia di mio marito mi ha impedito di tornare da mio padre, perché mi considerava una sua proprietà. Dovevo rimanere lì a fare la serva di tutti, senza fiatare. Quando uscivano, mi chiudevano in casa, non potevo parlare con nessuno, non potevo vedere i miei fratelli, non potevo fare nulla. Un giorno, disperata, ho raccontato la mia storia ad un'insegnante che veniva a prendere l'acqua nella casa dove io vivevo, prigioniera. Qualche tempo dopo mi ha portato una rivista di Rawa dove si parlava dei diritti delle donne. Questo ha risvegliato in me il coraggio e la volontà di salvarmi, così ho progettato la mia fuga, aiutata da Rawa. Un giorno sono rimasta sola in casa con i bambini, ho dato loro da mangiare, poi ho indossato un burqa e sono uscita, chiudendo la porta a chiave. Mi sono recata all'appuntamento nel luogo convenuto, dove c'era una macchina dell'Associazione ad aspettarmi e così sono scappata. Ora mi sembra di rivivere."
Zara (25 anni): "A diciassette anni ho perso il padre e mio fratello voleva darmi in moglie ad un uomo ricco, di vent'anni più vecchio, con già due mogli e dieci figli. Io mi rifiutavo; anche mia madre e mia cognata non approvavano questo matrimonio. Ero disperata e pronta ad uccidermi. Frequentavo un corso di alfabetizzazione senza sapere che era gestito da Rawa. Ho parlato con l'insegnante, che mi ha ascoltato con grande attenzione, mi ha fatto riflettere sul valore della vita, mi ha detto che non dovevo permettere a nessuno di strapparmela e ha promesso di aiutarmi. Il matrimonio era ormai alle porte, ma io avevo preso accordi per organizzare la mia fuga. Con la scusa di andare al bazar, sono uscita, poco lontano c'era una macchina di Rawa che mi ha prelevato. Sono stata accolta in una casa dell'Associazione e sono stata aiutata a prendere coscienza dei miei diritti. Adesso sto bene, sono contenta, voglio vivere, ma temo per mia sorella. Non so se mio fratello mi ha cercato. Attraverso Rawa ho fatto sapere a mia madre che sono al sicuro."
Soyma (25 anni): "Ho tre figli che sono riuscita a portare con me (una figlia è seduta vicino a lei e la guarda con grande tenerezza). Mio marito mi faceva violenza quotidianamente e io non ce la facevo più a sopportare le sue aggressioni. Grazie a mia sorella, che insegnava nelle scuole di Rawa, ho saputo che l'Associazione tutelava i diritti delle donne e accoglieva e proteggeva le donne maltrattate. Ho preso contatto e sono riuscita a fuggire.
Nazira, Sharifa, Zara, Soyma stanno cercando di rifarsi una vita, sono giovanissime e stanno pagando un prezzo altissimo. Sono costrette a nascondersi per non destare sospetti, a rinunciare a vedere il padre e la madre, a volte a perdere anche i propri figli. La scoperta di avere il diritto di vivere come persone e non come schiave ha dato loro il coraggio di rompere con la cultura tradizionale, con una realtà di negazione che fa precipitare l'esistenza nella disperazione. Personalmente sono stata colpita al cuore dal loro dolore e dal loro coraggio e non potrò dimenticarle mai. Custodirò le loro storie con grande rispetto e in silenzio continuerò a ringraziarle per avermi permesso di condividere, attraverso il loro racconto, il momento più drammatico della loro esistenza insieme al momento più significativo del loro riscatto che le ha fatte nascere come donne finalmente libere dalla paura e dalla rassegnazione.

Safoura ci dà alcune informazioni sul modo in cui è organizzata la vita delle donne maltrattate. Non vivono tutte insieme, in una casa sono in due o tre al massimo per non destare sospetti. I mariti in genere non le cercano, è capitato una volta perché una donna voleva divorziare e allora bisognava informare il marito e il governo, per aprire la pratica di divorzio. Il marito, rintracciato, si è irritato moltissimo e voleva sapere dov'era la moglie. Naturalmente non ha avuto soddisfazione. Se le donne non sono alfabetizzate, frequentano la scuola, poi fanno un corso di taglio e cucito e lavorano in attività artigianali, ricevendo un compenso. Nella prima fase del loro accoglimento sono mantenute dall'Associazione. Prima di aiutarle a fuggire, Rawa cerca di risolvere il problema all'interno della famiglia, soprattutto se ci sono figli. Se le violenze continuano, allora predispone l'uscita dalla famiglia e le ospita insieme ai loro figli. Le donne maltrattate hanno parecchi problemi psicologici e soffrono in genere di disturbi depressivi, a volte anche molto gravi, accompagnati da un'insonnia feroce che le consuma. Sono come svuotate, il terrore le paralizza, l'autostima scompare, lasciando il posto all'insicurezza che genera ansia e angoscia. Il primo intervento consiste nel cercare di attenuare i sintomi, che nella fase acuta sono molto pesanti, poi si cerca di avviare il processo di ricostruzione dell'autostima, attraverso una serie di attività che permetteranno alle donne di scoprire e di sperimentare le loro possibilità e le loro capacità nel campo relazionale, nel campo dello studio e del lavoro. Le donne in gravi condizioni vengono portate in Pakistan, dove saranno visitate da medici specialisti e potranno seguire una terapia mirata con farmaci adeguati. Quelle che hanno forme più lievi vengono aiutate a comprendere il loro disagio, mostrando loro libri e film che affrontano il problema della depressione e ne spiegano le dinamiche, vengono inoltre stimolate a svolgere piccoli compiti per mantenerle attive. La conoscenza delle dinamiche depressive, il fatto di poterne parlare con altre donne, il non rimanere passive consente spesso di scoprire che questo disturbo non è né una malattia inguaribile, né un destino, ma la conseguenza di un prolungato stato di frustrazione e di sofferenza che erode le basi dell'autostima e getta l'esistenza nell'insignificanza. Contestualizzata e storicizzata, la depressione di tipo reattivo, che si innesta cioè in persone che hanno subito gravi traumi, come nel caso delle nostre donne, fa meno paura e questo è un primo importante passo per riuscire a tenerla sotto controllo. Anche le donne con forme più gravi, superata la fase acuta, seguiranno lo stesso percorso. Il passo successivo per tutte consisterà nell'aiutarle a prendere coscienza dei loro diritti di donne e di persone, mettendole nella condizione di scoprire e di sperimentare le loro capacità intellettive, manuali, organizzative. Rawa le avvierà ai corsi di alfabetizzazione e di taglio e cucito tenute da insegnanti capaci ascolto, pronte a confermarle e a gioire con loro per i loro successi, impegnate a sostenerle nelle difficoltà senza mai pronunciare giudizi di valore. Acquisite le competenze necessarie, potranno poi insegnare a loro volta e lavorare. La loro prestazione verrà pagata e ciò contribuirà a farle sentire adulte, autonome, capaci e responsabili. Lo stile dell'Associazione nell'accoglimento e nel recupero delle donne maltrattate che cadono in depressione, rivela una grande finezza psicologica e una grande capacità terapeutica, intendendo per terapeutico ogni intervento che è capace di portare benessere alla persona in difficoltà. Mentre si accoglie la parte sofferente, si opera nel contempo per rinforzare l'io, riimanendo ancorati al principio di realtà e mettendo le donne in crisi nella condizione di fare a loro volta un cammino nella realtà del possibile . Attraverso la pratica dello studio e del lavoro insieme ad altre donne con storie e vissuti simili, tale cammino sfocerà nella scoperta di sé come soggetti affidabili e capaci, cui viene riconosciuto il diritto a vivere un'esistenza dignitosa e questo rafforzerà l'autostima e la fiducia nell'altro, condizione indispensabile per "guarire" dal dolore che colpisce l'anima. Alla solitudine subentra il senso di solidarietà, all'impotenza la concreta sperimentazione che anche le donne sono esseri umani che hanno diritto alla salute, all'istruzione, all'esercizio di una professione . Questo sapere avrà un carattere diffusivo, perché nessuna donna potrà tenerlo per sé, passerà da madre a figlia e scuoterà anche gli uomini. Mi viene in mente la riflessione di Safoura sul significato della parola "revolutionary" che contraddistingue l'associazione delle donne di Rawa: "in un paese come l'Afghanistan, dove la donna è meno di un animale, ogni piccolo cambiamento è una rivoluzione".

5. HAWCA: UNA BATTAGLIA DI CIVILTA', LOTTA ALL'ANALFABETISMO.
Hawca è una ONG che si occupa in particolare dell'assistenza alle donne e ai bambini, le persone più indifese e le prime vittime della povertà, della violenza e della guerra. Il suo stato giuridico consente ai suoi membri di muoversi con più facilità, di poter accedere con minor fatica agli aiuti e di riuscire a dare risposte più immediate ai bisogni primari. Si distingue però dalle ONG tradizionali perché, investendo molto nell'educazione, cerca di attivare progetti a lungo termine con l'obiettivo di aprire il maggior numero possibile di scuole. Sono informazioni che ci dà Orzala, mentre ci accompagna a visitare una scuola di alfabetizzazione gestita dalla sua associazione. Percorriamo un lungo vicolo polveroso, stretto tra mura di fango che proteggono povere case. A volte si aprono su piccoli cortili, solcati dai soliti rigagnoli, dove bambini vestiti miseramente cercano di giocare sotto lo sguardo delle madri che quasi sempre portano il burqa, lasciando il viso scoperto. Entriamo nel cortile della scuola e vediamo tante bambine e tante ragazze, sedute ordinatamente per terra, con in mano mazzi di fiori di stoffa coloratissimi. Stanno per celebrare la fine dell'anno scolastico e il Newroz, il capodanno che cade il 21 marzo, inizio della primavera. Le maestre ci accolgono con grandi abbracci e ci fanno accomodare nei locali della scuola, dove c'è una tavola imbandita con dolci fatti in casa, uvetta e frutta secca. Dalle finestre le bambine ci guardano con curiosità. Molte sono vestite a festa, portano abiti o foulard colorati, qualche adolescente di religione sciita porta il chador. Inizia la cerimonia col discorso della direttrice, seguito dalla preghiera intonata da una maestra meno giovane. Molte delle alunne presenti, dalle più piccole alle più grandi, hanno preparato e scritto un loro testo personale di ringraziamento ­ come ci spiega Orzala ­ e si avvicendano al tavolo, leggendolo con sicurezza. Terminato il momento ufficiale della cerimonia, entrano nell'aula e ci donano due, tre mazzi di fiori. Le maestre ci offrono the e ci invitano a mangiare quanto avevano preparato. E' un momento di serenità e di vera gioia. Grande è il senso di ospitalità delle donne afghane, ti danno tutto il meglio di quello che hanno. Chiediamo alle maestre informazioni sul funzionamento della scuola. La scuola dispone di tre aule, è frequentata da duecento trenta alunne di età compresa tra i 6 e i 42 anni. Tre sono le classi, che corrispondono ai primi tre livelli della scuola elementare e si fanno tre turni giornalieri. Molti sono i problemi che devono affrontare. Nonostante il diritto allo studio sia stato affermato anche per le donne, molti genitori, che hanno la mentalità di al Qaeda, non vogliono mandare le figlie a scuola. Tante bambine frequentano di nascosto. I genitori più disponibili preferiscono il Centro di Hawca alla scuola pubblica perché le insegnanti sono tutte donne. Le famiglie sono povere e spesso non hanno il necessario per vivere. Per incoraggiarle a mandare a scuola le bambine e le ragazze, Hawca distribuisce cibo, vestiti e anche materiale di cancelleria. Ecco la sentenza di Orzala:" Quando hai fame, sei grato a chi ti dà il cibo e non guardi in faccia chi te lo dà, ti basta poter mangiare." L'istruzione è un obiettivo irrinunciabile per un paese che ha il novanta per cento di analfabeti e tutti i mezzi leciti sono buoni pur di realizzarlo. Hawca è seriamente impegnata in questa battaglia di civiltà e ha continuamente bisogno di fondi. Orzala ci dà qualche dato economico. Le spese di gestione di una scuola con 230 alunne e sei insegnanti si aggira attorno ai dieci mila dollari. Riprendiamo il discorso sull'insegnamento. Le maestre dicono che ci sono molte bambine e molte donne fortemente traumatizzate dal livello di violenza che in questi anni ha colpito il loro paese e seminato tanti lutti nelle famiglie. Per questa ragione hanno gravi problemi psicologici e molte difficoltà sul piano dell'apprendimento. Sono bloccate, non riescono a concentrarsi, hanno una memoria labilissima, un basso livello di comprensione. Ad esempio, una ragazza di sedici anni, che ha un forte desiderio di imparare a leggere e a scrivere, non ci riesce e questo le provoca un'immensa frustrazione. Le maestre la seguono molto da vicino, per impedirle di buttare la spugna e di abbandonare la scuola.
Gli obiettivi, su cui stanno lavorando, sono i seguenti:
° fare corsi intensivi per permettere alle bambine che hanno perso degli anni di recuperare il tempo perduto così da avviarle alla scuola pubblica, dove potranno concludere regolarmente il loro ciclo di studi;
° attivare il più possibile corsi di alfabetizzazione per le ragazze che, avendo superato i quattordici anni d'età, non possono più accedere alla scuola pubblica, insieme a corsi di taglio e cucito per avviarle al lavoro.
Come si vede, dal punto di vista metodologico e didattico le scuole di Hawca e di Rawa sono simili.
Identiche sono anche le difficoltà incontrate nel convincere le famiglie a mandare le figlie a scuola, ugualmente forte l'impegno per cercare di realizzare il diritto allo studio in un paese dove la stragrande maggioranza della popolazione, non sapendo né leggere né scrivere, rimane sepolta in una cultura tradizionalista ed è facile preda degli avvoltoi di turno che usano la religione per fini politici disumani.

6. UN ORFANOTROFIO STATALE: DEGRADO E ABBANDONO.
Con Simona del GVC (Gruppo volontariato civile) visitiamo un orfanotrofio statale che ospita 850 bambini, maschi e femmine, molti dei quali hanno qualche parente che però versa in gravi condizioni economiche e non può tenerli con sé. Varcando il cancello, si vede un grande cortile disordinato e polveroso e una serie di grandi casermoni fatiscenti. Molti bambini, sporchi e vestiti miseramente, ci vengono incontro, alcuni ci danno la mano. C'è chi piange perché non può andare a casa a festeggiare il Newroz, chi zappa la terra per fare un'aiuola, chi litiga, chi gioca, chi è seduto immobile con lo sguardo fisso nel vuoto. Non c'è nessun adulto con loro, nessuno che possa intrattenerli in qualche attività e fare loro compagnia. Ci sono solo i guardiani al cancello che minacciano con un frustino chi vuole uscire o si avvicina troppo. Le cucine, dove si preparano i pasti, sono una specie di antro buio, debolmente illuminato dal fuoco acceso, non c'è nemmeno l'idea dell'igiene. Poco lontano intravediamo i servizi e lo stomaco ci si rivolta. Entriamo nell'edificio dove si trova il dormitorio femminile, piccole stanze sovraffollate, umide e buie, con letti a castello di metallo arrugginito. Le bambine sono sedute per terra, qualcuna si avvicina con l'uncinetto in mano, sperando forse di ricevere una carezza, un complimento. E' uno spettacolo straziante. L'uomo, che ci accompagna, si mostra molto gentile con le bambine, sembra paterno e affettuoso, accarezza e consola chi piange, eppure non si nota nessuna corrispondenza emotiva tra lui e loro. Tutto sembra falso, una sceneggiata per fare bella figura davanti ai visitatori. Ci dice che l'orfanotrofio è stato costruito 12 anni fa durante il governo di Najibullah. Ci sono laboratori femminili dove si impara a lavorare a maglia, con l'uncinetto, a fare tappeti e ricami sotto la guida di sole donne e laboratori maschili condotti da soli uomini. La scuola è interna all'orfanotrofio. Da quest'anno l'insegnamento arriva fino al settimo livello, mentre l'anno scorso si fermava al quinto. Si comincia a studiare a sei anni, i livelli di scolarità sono dodici, poi ci sarebbe l'università. La scuola interna dipende dal Ministero dell'istruzione, mentre l'orfanotrofio dipende dal Ministero degli affari sociali. Il governo passa la mensa, la scuola, i letti e nient'altro, vale a dire il minimo indispensabile per farlo funzionare. All'epoca dei taleban c'erano solo maschi, 450; la scuola era stata chiusa e sostituita con la madrasa, la scuola coranica che non forniva alcuna istruzione; i libri erano spariti e sostituiti con testi islamici. Durante la guerra civile tra mujiahidin (1992-1996) l'orfanotrofio ha smesso di funzionare. L'Arabia Saudita voleva prelevare i bambini per formarli nelle madrase saudite. Usciamo dall'edificio seguite da una frotta di bambine e di bambini bisognosi di contatto, di carezze, di tenerezza. Una bambina, che avevo cercato di consolare, mi vuole donare una caramella, è la stessa che ha ricevuto da noi. Il suo gesto mi fa venire un nodo alla gola. Intuisco tutta l'assurdità di queste istituzioni totalizzanti che spersonalizzano i rapporti, rendendoli impossibili; luoghi anonimi, senz'anima, che gettano i bambini in un desolato vuoto affettivo, che raggelerà il loro cuore e li farà sentire quasi sempre inadeguati, quasi sempre soli, in preda alle loro paure o alla loro rabbia.
Non vedo l'ora di uscire, la pena è davvero troppa.

7. LE MINE: PREVENIRE, RIABILITARE.
L'Afghanistan è un paese dove si continua a morire e a rimanere orribilmente feriti da ordigni di fuoco, anche quando le guerre si dicono concluse. Venticinque anni di massacri hanno lasciato sul territorio quaranta due diversi tipi di mine per un totale di 5 - 7 milioni . Omar International è una ONG impegnata nel duro lavoro di sminamento , che dovrebbe concludersi entro dieci anni, se le condizioni politiche lo permetteranno. Un altro obiettivo molto importante è quello di insegnare, soprattutto ai bambini, a riconoscere le mine e a non toccarle. A tal fine viene distribuito materiale illustrativo nelle scuole e nei campi di raccolta profughi, dove si trova anche un team di donne e uomini, appositamente addestrato, che accoglie coloro che rientrano e dà loro tutte le informazioni per prevenire gli infortuni. Si sta realizzando anche un "museo" di raccolta dei diversi tipi di mine, dove si terranno i corsi di formazione per sminatori e per altre figure professionali, come i rappresentanti delle ONG, che devono potersi muovere sul territorio senza correre rischi. Il direttore di Omar è una persona molto schietta e senza mezzi termini ci dice cosa pensa di chi posa le mine.
"Terrorista è chi uccide senza guardare in faccia chi uccide. Terrorista è chi posa le mine".
Se Omar cerca di eliminare il pericolo e di rendere nuovamente vivibile il territorio dell'Afghanistan, l'ICRC ORTHOPAEDIC PROJECT di Alberto Cairo, dal 1988, si prende cura delle persone che sono già saltate sulle mine e hanno perso gli arti, per aiutarle a condurre una vita il più possibile normale. Il suo Centro svolge un'attività riabilitativa, una produttiva e offre una serie di altri servizi che cercano di coprire i bisogni di chi vi si rivolge. Si producono protesi, ma si offrono anche ore di scuola ai bambini, istruzione e corsi professionali agli adolescenti, microprestiti agli adulti che vogliono avviare una attività per produrre reddito. Sono 160 le persone con contratto che lavorano al Centro, 140 sono portatori di handicap. Dimostrare che si può vivere e lavorare anche in condizioni di svantaggio è sicuramente il modo più efficace per motivare le persone a non lasciarsi andare.

8. OPINIONI SUL PRESENTE E SUL FUTURO.
Chiediamo al direttore di OMAR International di dirci la sua opinione sulla situazione politica in Afghanistan. Secondo lui, il problema più grave è rappresentato dall'estrema debolezza del governo Karzai, osteggiato dai signori della guerra che controllano i ministeri più importanti e non hanno alcuna intenzione di farli funzionare, perché ciò andrebbe contro i loro interessi. Non c'è una vera classe politica con una cultura di governo, i governanti di ieri sono, all'80%, i governanti di oggi, taleban compresi, tutti uomini che non hanno alcuna competenza, né alcuna idea della legalità. Anarchia, corruzione, clientelismo ostacolano ogni tentativo di riforma, Karzai firma un sacco di ordinanze che nessuno esegue. Nella sua provincia, che confina con quella di Kabul, tutti gli amministratori sono assassini, ladri e trafficanti di droga. Saccheggiano le case, si impossessano di oggetti artistici e archeologici e li smerciano in Pakistan. Gli addetti alla sicurezza non li arrestano perché spesso sono in combutta con loro e con loro spartiscono il bottino. Il popolo afghano vorrebbe che i signori della guerra e gli uomini delle loro milizie venissero disarmati. Sperava molto che la Comunità internazionale e gli Stati Uniti riuscissero a garantire un effettivo controllo sul territorio e si adoperassero per ristabilire la democrazia nel paese e per bloccare l'ingerenza del Pakistan che alimenta il fondamentalismo e il traffico di droga. Invece la Comunità internazionale sta sostenendo e dando aiuto a questo governo, che non rappresenta affatto il popolo, ma una minoranza screditata e pericolosa che mantiene il paese nell'instabilità e nella miseria. In Afghanistan la gente è talmente provata, talmente stanca di massacri, talmente impaurita che non riesce più nemmeno ad amare la propria vita, aspetta solo un pezzo di pane e , quando ci sono problemi, le persone si ammazzano tra di loro. Solo il 5% della popolazione ha una vera istruzione e un altro 5% sa leggere e scrivere, il resto vive nell'analfabetismo e ignora i più elementari diritti umani. In passato la monarchia aveva progettato la piena alfabetizzazione entro il 1999. Purtroppo le cose sono andate in ben altra direzione. Secondo il direttore di Omar, uomini e donne sono nella stessa condizione, entrambi non godono di alcun diritto. Soltanto un miglioramento complessivo della società potrà portare benefici anche alla vita delle donne. Per lui insomma non esiste una "questione femminile" da affrontare come problema prioritario; è l'intera società che ha bisogno di cambiamenti radicali e di vere riforme democratiche in tutti i settori. Solo con un governo democratico e forte nello stesso tempo, un governo che sappia interpretare la volontà popolare e rispondere ai tanti bisogni della gente, sarà possibile sconfiggere la mentalità arretrata, garantire sicurezza e stabilità, portare un vero cambiamento nei rapporti sociali. Interessante è anche il parere di un venditore di tappeti, colto e molto disponibile, che ci ha invitato ad entrare nel suo negozio ed è rimasto a parlare con noi per più di un'ora. Quando Debora gli ha chiesto che cosa pensava della condizione femminile in Afghanistan, senza alcuna esitazione ha risposto testualmente: "Noi afghani dobbiamo puntare tutto sulle donne se vogliamo avere un futuro, perché gli uomini hanno perso la testa, sono impazziti".

9. TIMORI
Giovedì 20 marzo 2003 gli Stati Uniti hanno iniziato a bombardare l'Iraq, la guerra tanto temuta è dunque scoppiata. Con Orzala stiamo andando a visitare una scuola di taglio e cucito. Per le strade non si vedono le solite auto delle ONG e non si incontrano occidentali. Orzala telefona alla ministra Habiba per sapere cosa sta succedendo e se è vera l'informazione dataci da Simona, secondo la quale il Governo afghano ha consigliato agli stranieri di non muoversi e di restare in casa per le prossime quarantotto ore. Habiba conferma. Potremmo proseguire a nostro rischio e pericolo, ma non vogliamo creare problemi ad Orzala e quindi torniamo a casa. Salterà anche l'incontro di venerdì con Safoura. La guerra è scoppiata e l'Afghanistan, già da tempo scomparso dalle pagine della cronaca, rischia di essere completamente abbandonato al suo destino o di tornare alla ribalta come il paese dei terroristi di al Qaeda. Ho paura per le donne di Rawa, ho paura per le donne di Hawca, ho paura che lo stato di grande precarietà e di grande insicurezza in cui versa il paese rafforzi ulteriormente i signori della guerra e lasci ancora più spazio al fondamentalismo religioso con conseguenze davvero diastrose.
Per me l'Afghanistan ora non è più un paese anonimo, lì ho conosciuto persone straordinarie che hanno tutte un nome e un volto preciso, persone che terrò nel mio cuore e per quali continuerò a preoccuparmi, a rimanere col fiato sospeso. Questo viaggio è stato duro e di forte impatto emotivo per la tragica realtà che si è spalancata davanti ai miei occhi, ma anche infinitamente ricco sul piano umano. Voglio dire grazie alle donne afghane per la profonda lezione di vita che mi hanno dato e grazie anche a Laura, Debora, Ivana, Libera, Tito, miei compagni d'avventura, che, con la loro sensibilità, il loro coraggio, la loro generosità, la loro lucida intelligenza delle cose, mi hanno permesso di trasformare l'emozione in conoscenza e in progetto di impegno per il futuro.