ZOYA LA MIA STORIA
UNA
NUOVA RECENSIONE DELL'AUTOBIOGRAFIA DI ZOYA, A CURA DI JOHN FOLLAIN
E RITA CRISTOFORI, SPERLING & KUPFER, MILANO 2002
Dietro lo pseudonimo Zoya, assunto per motivi di sicurezza personale e per proteggere amici, parenti e conoscenti dalle ritorsioni degli integralisti islamici, si cela una giovane ventiseienne, dal corpo minuto, lo sguardo fiero e indagatore, e con un notevole senso dell'umorismo. Questo libro è la trascrizione del racconto della sua vita, reso ai curatori, a condizione che si parlasse di tutte le donne afgane, delle loro sofferenze che di regime in regime non hanno mai visto fine ma solo altro dolore.
Il racconto comincia col ritorno di Zoya a Kabul, dopo cinque anni di esilio in Pakistan. Al terrore di commettere gesti che possano insospettire le guardie talebane dallo sguardo spiritato si accompagna l'amarezza di ritrovare un paese devastato: «Kabul era un cimitero». Le finestre delle case sono coperte da tende nere, come ha ordinato il nuovo regime. Nemmeno le montagne, aride e polverose, quelle che da bambina le avevano sempre dato un senso di pace e che alla partenza aveva salutato commossa promettendo loro un rapido ritorno, riescono a rincuorarla. «La cosa più triste in assoluto fu comunque che non c'era più un solo aquilone in cielo». E' così che il ricordo di Zoya torna alla Kabul della sua infanzia, a quando aveva quattro anni e in città c'erano la neve e l'esercito sovietico. A emergere è la sua solitudine, lenita dalla presenza di quella che chiama e considera sua nonna. Una donna che le racconta la sua storia, fatta di percosse, e tuttavia di amore e rispetto per il marito morto che aveva sposato senza vederlo in volto. Una donna che la educa giorno per giorno al rispetto di sé e alle verità del Corano che non sono quelle dei Talebani . Una donna che prega e che nello stesso tempo sa che qui, comunque, occorre tirarsi su le maniche: studiare, capire, agire con coerenza. Come la madre di Zoya, figura fugace (sarà uccisa dai mujaheddin) e intensissima, fragile e resistente, che sotto il burqa consola e organizza le donne contro ogni forma di soggezione che le offenda. Ella, del resto, la sua libertà se l'era conquistata, contro la tradizione che vuole dispendiosi matrimoni, più mogli e che non lavorino fuori casa. Così, dopo il matrimonio, aveva potuto continuare gli studi universitari. Assieme alla madre la piccola Zoya a volte esce portando nello zainetto la stampa clandestina di denuncia di RAWA, l'associazione rivoluzionaria delle donne afgane. Lei è piccola e non dà nell'occhio. Il resto dei giorni lo passa in casa, a studiare con maestre private e il padre, perché è pericoloso per una bambina frequentare le scuole pubbliche. Dopo il ritiro dei sovietici, scoppia la guerra civile, il padre e la madre scompaiono uccisi dai mujaheddin: «Sentii che avevo perso tutto. Potevo ancora vedere di fronte a me i sorrisi dei volti dei miei genitori, il modo in cui loro mi guardavano con tenerezza e amore. Desideravo di aver speso più tempo, molto più tempo a guardare nei loro occhi l'ultima volta che li avevo visti Una delle prime notti dopo la loro scomparsa, giurai che li avrei vendicati, non solo i miei genitori ma tutti quelli che erano stati uccisi senza che nessuno sapesse dove, come e perché erano morti. Non li avrei vendicati con un Kalashnikov ma battendomi per la stessa causa per cui mia madre aveva combattuto». I corpi dei genitori non verranno mai ritrovati. Forse è per questo che Zoya oggi rifiuta di veder morire e di partecipare alla vestizione del morto. Nel 1992, all'età di quattordici anni, si rifugia in Pakistan. E' stata la nonna a prendere questa decisione con l'aiuto di RAWA. Viaggiano in auto per due giorni e due notti, annichilite dalla paura, quella stessa con cui oggi Zoya ha imparato a convivere fino a non sentirla più. Nella scuola di Quetta che frequenta fino ai sedici anni matura la convinzione che non sarà mai la serva di un uomo e che seguirà l'esempio dei suoi genitori. Senza la nonna, che le vive vicino, ma non accanto, impara a stare con le altre nel rispetto e nella reciproca solidarietà, finchè le viene offerta la possibilità di entrare in RAWA e di compiere la sua prima missione a Kabul: fotografare i delitti dei Talebani.
Il racconto torna quindi là da dove ha preso le mosse, in quel teatro degli orrori che è la città. Assiste al pubblico sgozzamento di un uomo e cade svenuta a terra in mezzo alla folla pietrificata e ai bimbi che battono le mani. Tra un viaggio e l'altro, lavora in un campo profughi nei pressi di Peshawar. Deve far fronte al disordine iniziale, all'assalto alle coperte, alle resistenze degli uomini che non vogliono che mogli e figlie vadano a scuola, che le prime usino contraccettivi. Ascolta e condivide il dolore e la paura delle donne cui hanno massacrato i figli, delle vedove soprattutto, e la tristezza dei quindici orfani: quattordici ragazzine e un bimbo di cinque anni della tribù hazara che non sa che i suoi genitori sono morti e non chiede mai di loro ma piange lo stesso. Con gli orfani Zoya capisce che l'Afghanistan non può permettersi di perdere una generazione, che quei bimbi non devono essere dati in adozione se non a distanza, che non è importante per lei diventare madre. «Io non voglio fare figli. Se c'è una cosa che ho imparato dalla mia vita e dal campo profughi è che puoi amare un bambino anche se non l'hai tenuto dentro di te per nove mesi. Non è importante essere dello stesso sangue: quello che conta è crescerlo bene e amarlo».
Zoya, la mia storia, vincitore del premio speciale «Versilia-Viareggio», si chiude con un sogno: una giovane donna libera di camminare per le strade devastate di Kabul, col sole che le scalda il viso, finalmente privo della maschera del burqa, assieme al piccolo orfano e al suo aquilone. E chissà anche alla nonna che oggi ha settandue anni e vive al campo.
«Se ci sarà di nuovo pace tornerò, e camminerò lungo le strade devastate di Kabul, sentendo il calore del sole non sotto il burqa, ma sul viso. Penserò al futuro, non al passato.» Così recita anche una poesia di Meena, la fondatrice di RAWA
Mai più tornerò sui miei passiSono una donna che si è destata
Mi sono alzata e sono diventata una tempesta
che soffia sulle ceneri
dei miei bambini bruciati
Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata
L'ira della mia nazione me ne ha dato la forza
I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,
Sono una donna che si è destata,
La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.
Le porte chiuse dell'ignoranza ho aperto
Addio ho detto a tutti i bracciali d'oro
Oh compatriota, io non sono ciò che ero.
Sono una donna che si è destata.
La mia via ho trovato e più non tornerò più indietro.
Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa
Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto
Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà
nel loro insaziabile stomaco
Sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio
La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,
nei flutti di sangue e nella vittoria
Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace
Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.
La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate
I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti
Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,
Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,
Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero
sono una donna che si è destata
Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.