AFGHANISTAN A QUATTRO ANNI DAI BOMBARDAMENTI
IN OCCASIONE DELL'8 MARZO ANCHE QUEST'ANNO UNA DELEGAZIONE DEL COORDINAMENTO ITALIANO E' ANDATA A VEDERE COSA ACCADE


Marzo 2006, di Laura Quagliuolo


Che cosa succede in Afghanistan, a quattro anni dai bombardamenti della “coalizione contro il terrorismo” che hanno abbattuto il regime dei talebani e portato la cosiddetta democrazia?
Noi, che dal 1999 seguiamo le vicissitudini di quel paese sostenendo alcune associazioni di donne afghane tra cui RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan; www.rawa.org), non abbiamo buone notizie da riportare dal viaggio dal quale siamo rientrate da pochi giorni.
Le elezioni presidenziali prima e le più recenti elezioni parlamentari (portate avanti a suon di brogli) hanno eletto un governo e un parlamento formato per la maggior parte (85%) da signori della guerra, leader religiosi, narcotrafficanti e talebani; in palamento solo il 15.2% dei deputati è di fede sinceramente democratica, chiede la laicità dello stato, la condanna dei criminali di guerra che occupano tutti i posti di comando e inoltre che si ponga fine alla spaventosa corruzione che impedisce di fatto qualsiasi forma di ricostruzione (anche nella stessa Kabul l’elettricità non è assicurata, senza parlare di accesso ad acqua pulita, scuole, assistenza medica, infrastrutture di qualsiasi tipo).
Malalai Joya (http://www.malalaijoya.com/index1024.htm), una giovane deputata eletta al parlamento nella provincia di Farah e delegata della Loya Jirga (assemblea dei saggi costituzionale) nella stessa provincia, che da anni denuncia instancabilmente la situazione e chiede la condanna dei criminali di guerra quale prima condizione per un cambiamento reale, è stata oggetto di diversi attacchi a lei e alla sua famiglia ed è in serio pericolo di vita.
Kabul è una città militarizzata, soprattutto nella zone delle ambasciate e in quelle più centrali, in cui sorgono come funghi sontuose case private, alberghi da 350 dollari per notte e centri commerciali accanto a mercati polverosi e case di fango senza acqua, fogna ed elettricità.
Le donne, tolta la città di Kabul, sono ancora nella quasi totalità relegate sotto al burqa, prive di diritti, oppresse dalle tradizioni, dalle leggi (soprattutto la recente costituzione, anch’essa sbandierata come un grosso passo in avanti verso la democrazia ma che rimanda continuamente alla sharia, la legge islamica), dalla società patriarcale e dalla totale assenza di strutture (quali per esempio, scuole, ospedali, corsi professionali) che consentirebbero loro di fare dei passi avanti verso l’emancipazione e la presa di coscienza di essere soggetti portatori di diritti.
Tra i luoghi che abbiamo visitato c’è un campo profughi alle porte di Jalalabad, dove 300 famiglie (circa 3.000 persone) sono da più di un anno lasciate sole, senza accesso all’acqua, senza scuole, senza case, senza trasporti né assistenza medica; le donne con cui abbiamo potuto parlare sono disperate e arrabbiate, non vedono futuro non sanno che cosa sarà dei loro bambini, costretti a passare le loro giornate ad azzuffarsi nella polvere. I loro mariti, privi di lavoro, camminano ogni giorno per chilometri per raggiungere la città in cerca di qualche lavoretto. Il governo, inoltre, ha comunicato loro che presto verranno trasferiti in una zona ancora più remota, e comunque priva di accesso all’acqua e a qualsiasi servizio di base. Di un caso analogo siamo state testimoni a Bamyian, zona a prevalenza hazara, una delle etnie più reiette del paese, dove la notizia che Manuela Serrentino, una dottoressa che era con noi, stava facendo delle visite, ha attirato decine di persone che hanno fatto chilometri a dorso d’asino nella neve pur di avere un po’ di conforto.
Queste persone non hanno nemmeno più lo status di rifugiati, visto che sono state costrette a rientrare nel paese. Che ne sarà di loro? E che cosa fa il governo Karzai per assicurare loro una vita decente?
In questo panorama drammatico non stupisce la condanna a morte di Abdul Rahman, di 40 anni, accusato da un tribunale di Kabul di aver abbandonato l’Islam per convertirsi al Cristianesimo. Abdul, emigrato in Germania per nove anni e collaboratore di una associazione umanitaria cristiana, è rientrato nel paese nel 2002, dopo la caduta dei talebani, e da allora ha cercato di riottenere l’affido delle figlie dal suocero, che lo ha denunciato per aver rinnegato l’Islam.
E non ci ha stupite nemmeno la triste scoperta che abbiamo fatto sulla strada del ritorno: la lapide che ricorda l’omicidio, nel 2001, di quattro giornalisti, tra cui l’inviata del "Corriere della Sera" Maria Grazia Cutuli, apposta sull’hotel Spinghar di Jalalabad, ultimo luogo di sosta prima dell’assassinio, è ora stata imbrattata e coperta di volantini con scritte fondamentaliste. Le nostre proteste con l’arrogante gestore dell’albergo, che non ci ha certo riservato un trattamento di favore, sono servite a ben poco. Ci auguriamo che la nostra Ambasciata, che abbiamo immediatamente informato del fatto, riesca a ottenere il ripristino della targa.