DELEGAZIONE IN PAKISTAN ED AFGHANISTAN
RELAZIONE 28 FEBBRAIO - 17 MARZO


Aprile 2006, di Manuela Serrentino



Visita agli orfanotrofi gestiti da RAWA in Pakistan
Gli orfanotrofi visitati dalla Delegazione Italiana sono stati 5, di cui 2 a Rawalpindi e tre a Peshawar
.
Rawalpindi

L’orfanatrofio è una nuova struttura aperta da circa un mese. Si trova in un’area molto povera di Rawalpindi. E’ gestita da una coppia con quattro figli. Qui sono ospitati 36 bambini (16 maschi e 20 femmine) dai 4 ai 14 anni. Vanno tutti a scuola nelle strutture di RAWA. Sono di diverse etnie afgane. Non sono solo orfani, ma anche bambini nella cui famiglia sono presenti gravi problemi (uno dei due genitori morto, o gravemente malato, o con impossibilità economica di mantenerli).
All’inizio ci guardano un po’ stupidi. Non è usuale per loro ricevere una visita da persone straniere, ma basta una foto, un bacio, una carezza per far sciogliere qualsiasi tipo di imbarazzo. Allora diventano curiosi, attenti, cantano, mostrano le loro stanze e i loro quaderni.
La casa che li accoglie è modesta, ma pulita Ci sono, oltre le stanze, la cucina, il bagno, una sala grande per le attività e un’altra sala per mangiare, alcuni uffici per i responsabili dell’orfanatrofio.
La Responsabile organizzativa è Amina, una ragazza di RAWA, di 23 anni. E’ diplomata in informatica. Si è sposata ed ora aspetta un bambino. Quello che sempre colpisce in queste ragazze è il grande senso di appartenenza all’associazione. Lavorano moltissimo, supportano le donne, sono impegnate in attività politiche e sociali e riescono anche a conciliare la loro vita privata con tutti questi impegni, che per loro hanno comunque un carattere di priorità. La loro ferma convinzione è che nulla potrà cambiare nel loro paese, se la condizione di tutte le donne non cambierà e se non si migliorerà il livello di alfabetizzazione e di formazione che in Afganistan è ancora tra i più bassi nel mondo (tra l’80 e il 90%).
La Regione Veneto, tramite la provincia di Belluno, ha deciso di finanziare l’attività di questo orfanotrofio, attraverso un progetto triennale, che prevede un finanziamento per il primo anno di 10.000 euro e per gli anni successivi di quote maggiori. Questi aiuti sono molto importanti, perché il costo di ogni bambino è di circa 50 dollari al mese e comprende le spese per il mantenimento, la scuola, le cure mediche e i costi della gestione (personale composto, oltre che dalla coppia che vive qui, da una cuoca, da una guardia per la sicurezza e da un guidatore per l’accompagnamento dei bambini a scuola). La formula adottata per giustificare i finanziamenti è quella dell’adozione a distanza, per cui per ogni bambino esiste una scheda, all’interno della quale sono registrati tutti i dati anagrafici e la sua storia con gli obiettivi raggiunti nel corso degli anni.
Per la Responsabile non è facile tenere tutta la documentazione, perché in questi Paesi anche il rilascio di una ricevuta può essere un problema. La nostra testimonianza diretta però ci rende sicuri della serenità che vive all’interno dell’orfanatrofio. I bambini all’inizio chiedono dei loro genitori, ma poi, pur mantenendo sempre un contatto con loro se sono ancora viventi, si integrano perfettamente nella nuova realtà. Sono bambini sorridenti, festosi e sicuramente godono di opportunità superiori a quelle che avrebbero avuto nel loro villaggio di origine.
Il secondo orfanotrofio è già conosciuto, anche se ha cambiato sede, trovandone una più grande e adeguata alle esigenze. Qui l’atmosfera è subito festosa. Ritroviamo con piacere la coppia che lo dirige con i loro figli. Il più piccolo che l’anno scorso aveva grossi problemi di deambulazione per una malattia muscolare, ora sta in piedi e , sostenuto, riesce anche a camminare. Tamana, la figlia più grande di 16 anni continua a studiare e sembra ancora più matura e responsabile. Anche qui i bambini fanno a gara a mostrarci le loro camere, ci dicono i luoghi da dove provengono, hanno preparato per noi addirittura dei piccoli regali che ci consegnano personalmente. Distribuiamo delle caramelle e loro si mettono tutti in fila, ordinatamente aspettando il loro turno e prendendone una per volta per non esagerare. Anche loro vogliono essere fotografati e si emozionano tantissimo a rivedersi nella macchina fotografica.
Questo orfanotrofio ò sostenuto anche da finanziamenti di altri Stati (in particolare il Canada), ma le risorse non sono mai abbastanza.

Peshawar

E’ prevista la visita a tre orfanotrofi. Il primo è conosciuto; è quello fondato dalla francese Carole Man che fa parte dell’associazione Aid femme e che ha deciso di finanziare solo questo progetto che è operativo da circa 8 anni. Anche questo è gestito da una coppia con due figli. Sono ospitati dai 35 ai 50 bambini. Ci riconoscono immediatamente,ci riempiono di fiori e parlano subito con noi senza imbarazzo, tra l’altro in un perfetto inglese. Vanno tutti a scuola, ci mostrano i loro quaderni, cantano per noi il loro inno nazionale afgano. Parlano delle loro famiglie, che in genere vedono durante il periodo estivo quando chiude la scuola. Desiderano tornare in Afganistan, ma prima devono studiare. Tra le bambine molte vogliono fare la dottoressa, l’avvocato, l’insegnante. Sembrano avere già le idee molto chiare e soprattutto sono molto consapevoli di come sia importante per loro l’istruzione. Come tutti i bambini dicono che alcune lezioni sono noiose, che hanno tanti compiti, che alcune insegnanti sono antipatiche, ma questo non diventa mai un alibi per non studiare.
Da poco è arrivata all’orfanatrofio una giovane ragazza, Najia, dalla regione di Bamiyan. Racconta la sua storia. Abitava nel villaggio di Yakawelank. All’età di 11 anni si è sposata e poco dopo ha avuto il primo figlio. A distanza di alcuni anni è nata la seconda bambina. Durante l’occupazione dei taleban, il marito è stato ucciso (aveva 25 anni) insieme a tutti gli uomini del villaggio. E’ stato un vero massacro. I corpi sono stati resi irriconoscibili e per lei è stato difficile riconoscere quello del marito. Il villaggio è stato bruciato e alle donne rubato tutto, anche i fiammiferi, per cui non avevano nulla per affrontare la stagione invernale. Sono scappate, quasi tutte donne con bambini, affrontando il freddo e il lungo cammino verso il Pakistan . Molte sono morte. Lei è riuscita ad arrivare e per sua fortuna è entrata in contatto con RAWA che l’ha aiutata. Ha potuto prendersi cura dei suoi bambini, ha preso consapevolezza di quanto successo, si è resa conto di avere dei diritti e ha trovato la solidarietà di molte altre donne. Il suo dramma è ancora vivo e mentre racconta ha le lacrime agli occhi. Gli altri bambini, che sanno tutto di lei, le stanno vicino, le dicono che non deve essere più triste perché ora è al sicuro.
Dobbiamo andare perché ci aspettano e in entrambe le strutture che dobbiamo raggiungere hanno preparato qualcosa per noi. Per loro è sempre un evento straordinario quando qualche delegazione li va a trovare.
Anche nel secondo orfanotrofio i bambini ci accolgono tirando petali di rosa. Sanno che potremo stare poco tempo e ci mostrano subito la loro attività più importante. Hanno un piccolo laboratorio di falegnameria e costruiscono modelli di mobili. Ci mostrano sedie, armadi, librerie, tavoli con grande orgoglio.
Nell’ultimo orfanotrofio hanno già predisposto tutto per l’invito a cena. Nell’attesa i bambini si esibiscono con il loro repertorio di canzoni.
Durante la cena abbiamo l’occasione di parlare con Maryam sull’organizzazione di queste attività, visto che il loro nome non può comparire pubblicamente per motivi di sicurezza. Non hanno finora avuto grossi problemi perché sia le scuole che gli orfanotrofi hanno un nome generico. Le scuole si chiamano Scuole afgane e gli orfanotrofi figurano come enti che si occupano di adozioni a distanza.
E’ un’occasione per approfondire la situazione sull’istruzione in Pakistan. Esiste una scuola pubblica gratuita, ma il cui livello è bassissimo. Sono sorte invece moltissime scuole private, la cui apertura non richiede procedure complicate. Queste sono a pagamento e la retta varia da pochi dollari al mese fino a cifre molto più elevate e che si possono permettere solo i più ricchi. Sono dei veri e propri college. Le scuole di Rawa funzionano come scuole private e lì vengono mandati quasi tutti i bambini dell’orfanotrofio, almeno fino ad un livello base. Poi frequentano le altre scuole. Ciò che differenzia è l’introduzione di alcune materie che altrimenti i bambini non studierebbero. E’ limitato l’insegnamento della religione, che Maryam dice essere già sufficientemente curato all’interno della famiglia, mentre vengono privilegiate la storia e l’educazione civica, che diventa anche il loro modo per diffondere la consapevolezza dei diritti delle persone. Se avessero la possibilità di essere “partito” la loro sarebbe una vera scuola quadri.

Campo profughi di Keiwa (vecchio campo Jalozai)


E’ stato il primo campo ad accogliere profughi che hanno cominciato ad arrivare in Pakistan dall’occupazione sovietica. I primi ad arrivare non hanno trovato niente, né acqua, né elettricità. Vivevano sotto tettoie improvvisate di plastica e paglia. Molti sono stati i morti, soprattutto bambini. Vista la grandezza del campo, era diviso in settori a capo dei quali c’era un responsabile. Uno di questi ha consentito l’intervento di Rawa. Si tratta del Keiwa Camp, che sembra essere un’oasi rispetto al resto. Qui c’è luce, acqua, scuole e nell’ultimo anno è stata trasferita la Malalai Clinic. Il luogo è a circa un’ora dalla città e vi si arriva passando attraverso il regno delle fornaci di mattoni. Qui lavorano 24 ore su 24 uomini, donne e bambini per una paga giornaliera di 2 euro, in condizioni estreme. E’ l’unico lavoro che i profughi possono fare.
La Responsabile Rawa del campo è Sharara, una donna di 33 anni con due figli, uno di 4 anni e l’altro di 16 mesi che vivono qui con lei.
Come sempre riceviamo una calorosa accoglienza a base di thé, come loro consuetudine e, visto che è il momento dell’intervallo nelle scuole, ci accompagna a visitare le aule. Sono molto modeste, qualche sedia e una lavagna e molti cartelli appesi alle pareti.
Nella bacheca, che è il giornalino degli studenti, c’è un disegno molto emblematico: il mostro America che divora il resto del mondo.
Visitiamo il laboratorio, attrezzato con il minimo indispensabile. Qui ci sono diversi livelli, dalle prime classi fino all’ultima, dove i ragazzi e le ragazze che vogliono andare all’Università, sono aiutati a sostenere l’esame di ammissione. Per molti di loro questo coincide con il ritorno in Afghanistan anche se la percezione è che, nonostante tutto, se non ci sarà un obbligo al rientro da parte del Governo pakistano, la maggior parte degli abitanti deciderà di rimanere, avendo trovato qui una proprio dignità e delle opportunità che sicuramente perderebbero tornando nella loro patria (almeno al momento attuale).
Dalla scuola andiamo alla Malalai Clinic. Qui lavorano Sharara che è ostetrica, un’altra ostetrica, un ginecologo una volta la settimana, un oculista una volta la settimana, un pediatra tre volte la settimana. Ci sono poi delle aiutanti che svolgono il ruolo di infermiere. Organizzano dei corsi per l’educazione alla salute dove vengono insegnate le principali norme per prevenire le malattie, soprattutto dei bambini. Questo è importantissimo perché le possibilità di cura o di ricovero in ospedale sono molto limitate. Le malattie più diffuse sono quelle dell’apparato respiratorio durante l’inverno, quelle dell’apparato digerente durante l’estate e la malaria durante tutto l’anno. Nei corsi si organizzano anche lezioni dedicate al controllo delle nascite e Sharara ci dice che le più divertenti sono quelle nelle quali si parla dell’uso del preservativo. La pillola viene poco utilizzata perché dà molti effetti collaterali.
C’è anche un grande manifesto per la prevenzione dell’AIDS e le informazioni fornite sono corrette e complete (meglio di alcune campagne italiane nella loro semplicità e immediatezza).
I parti avvengono tutti qui, anche perché per tradizione le donne partoriscono a casa e chiedono l’intervento dell’ostetrica solo in caso di complicazioni. Nel campo sono quasi del tutto assenti le morti per parto, in contrapposizione alla ancora alta percentuale del paese.
Hanno il minimo indispensabile, ma il livello di assistenza che riescono a garantire è qualitativamente alto, visto che molte persone dall’esterno decidono di venire qui a farsi curare. Constatiamo con piacere che le attrezzature fornite dalla nostra delegazione nei precedenti viaggi vengono adeguatamente utilizzate.
Veniamo accompagnate in una casa privata ad intervistare alcune donne che vivono qui ormai da moltissimi anni: Malalai di 36 anni e Parwin, che non è in grado di dirci precisamente la sua età. I mariti erano fratelli e sono stati entrambe uccisi dai taleban. Anche loro, con i figli piccoli sono scappate e sono state ospitate nel campo profughi. Non hanno avuto nessun aiuto dal Governo come vedove. Ora entrambe riescono ad avere un po’ di autonomia perché lavorano all’interno del campo, Malalai come insegnante e Parwin come aiutante nella clinica. Parwin ha anche adottato un bambino poiché la madre era morta durante il parto. Nel primo periodo Malalai, per mantenere lei e la sua bambina, è stata costretta ad andare a lavorare nella fabbrica di mattoni, solo di notte, quando gli uomini non potevano vederla.
Non desiderano tornare in Afghanistan perché al momento attuale perderebbero tutto quello che hanno conquistato qui. Non avrebbero una casa, un lavoro, i figli e le figlie non potrebbero continuare a studiare e rischierebbero di finire in un altro campo profughi, in condizioni peggiori.
Qui soprattutto le donne hanno conquistato un po’ di libertà, possono uscire di casa, lavorare, socializzare e avere anche un aiuto economico da parte della comunità. Infatti le spese di gestione e manutenzione del campo sono collettive, c’è una grande solidarietà e aiuto reciproco.
Altre donne rimaste sole e che non lavorano all’interno fanno tappeti o cuciono per l’esterno. Visitiamo una casa che è stata attrezzata con un grande telaio a mano dove sono occupate in contemporanea tre persone. E’ un lavoro lungo e di precisione, ma i risultati sono pregevoli..
Si avvicina il momento del pranzo. E’ il momento della cottura del pane e assistiamo alla sua preparazione che avviene in un forno di terracotta scavato nella terra, sulle cui pareti calde viene fatta cuocere la pasta.
Torniamo nella sala d’accoglienza dove Sharara ci annuncia che tra un mese potrebbe tornare in Afghanistan con tutta la famiglia. Andrà a Herat. Non hanno ancora la certezza di trovare un lavoro, anche se lei come ostetrica e il marito con competenze di informatica non dovrebbero avere difficoltà. E’ una scelta difficile, con tante incognite, ma il richiamo del proprio paese di origine è sempre molto forte in queste persone e appena si creano le più piccole condizioni vogliono ritornare.

8 marzo 2006 – Giornata della donna a Kabul

Arriviamo in una sala già gremita di persone. Si ha l’impressione che quest’anno ci sia molta più gente dello scorso anno e questo riempie di gioia sia noi che le nostre amiche di Rawa, perché vuol dire che la consapevolezza e il loro lavoro comincia a dare alcuni risultati. Alla fine della giornata la stima ufficiale è di più di 2500 partecipanti, soprattutto donne, ma anche uomini.
All’ingresso viene diffuso un volantino “Unite e risolute per la liberazione e contro il fondamentalismo”.
E’ una denuncia contro il Governo attuale di Karzai. Nulla è cambiato con le ultime elezioni. Ancora i criminali di guerra occupano posti molto importanti.
Uccisioni, corruzione, rapimenti di donne e bambini sono all’ordine del giorno. Ancora c’è un’alta percentuale di donne che si suicidano, i disoccupati e i senza casa aumentano, mentre si costruiscono grandi alberghi in un paese dove il reddito pro capite annuo è uno dei più bassi al mondo. Il mercato dell’oppio è sempre più fiorente e il paese è nel caos, come se il Governo non esistesse.
E’ chiaro che in queste circostanze l’importo di 10 milioni di dollari promessi durante la conferenza di Londra non saranno utilizzate per il popolo.
Ribadiscono al mondo “Guardate l’Afghanistan, le donne non hanno raggiunto nessuna libertà, ma non siamo sole nella nostra difficile lotta. Donne dell’Iran, del Kurdistan, della Palestina, della Turchia e dell’America Latina stanno combattendo per la democrazia e contro la piaga del fondamentalismo e della guerra. Noi simpatizziamo con loro e siamo attente al movimento delle donne nel resto del mondo per intensificare la nostra decisiva lotta contro i nemici dell’Afghanistan e dei diritti umani. Teniamo alta la bandiera di Rawa e di tutte le organizzazioni e persone che sostengono la democrazia, contro i criminali.”
Si susseguono una serie di interventi, tutti su questo tono, interrotti da pause musicali. Ci sono molti applausi e attenzione. Viene introdotta anche la delegazione italiana. Siamo orgogliose di annunciare che, poco prima dell’inizio della conferenza, abbiamo ricevuto una telefonata dalla Segreteria della Provincia di Belluno, che ci comunica che si è conclusa una raccolta di fondi all’interno dell’Amministrazione Provinciale (Presidente, Assessori, Consiglieri e Personale vario) ed il ricavato è stato devoluto a favore di Rawa per le sue attività.
Segue la lettura del nostro comunicato e, come riconoscimento della nostra partecipazione in un momento così difficile, Danish - che l’anno scorso ci aveva fatto da accompagnatrice per tutto il viaggio - parlando in italiano, chiama sul palco un’anziana donna afgana che ci consegna un “premio”, un piatto d’argento con la loro sigla. La sorpresa e la commozione è grande. Ci viene spiegato poi che l’anziana donna non è stata scelta casualmente… tutta la sua famiglia è stata uccisa da un bombardamento americano.
Un altro riconoscimento viene consegnato ad un uomo molto anziano. Alla sua presentazione tutte le persone si alzano in piedi. Deve essere una persona importante e infatti veniamo a sapere che si tratta del custode del Museo di Kabul, che durante il periodo dei taleban è riuscito a nascondere molte delle opere lì conservate, mettendo in pericolo la propria vita. Adesso le sta lentamente riportando alla luce. Tutto il merito era andato al Direttore, ma le Rawa hanno voluto restituire al vero protagonista il ringraziamento e il rispetto che gli era dovuto.
La giornata vede come atto conclusivo l’esibizione di un gruppo pop rock afgano che sostiene il movimento delle donne. In questo contesto è un evento abbastanza rivoluzionario, se pensiamo che per un lungo periodo di tempo la musica e i concerti erano stati proibiti. Sfortunatamente si verifica un problema dell’impianto elettrico e non possiamo sentirli., ma anche questo forse, è un piccolo segnale di qualcosa che sta crescendo nella coscienza delle persone.

Bamiyan – Incontro con la Governatrice Habiba Sorabi

Bamiyan è la capitale della Provincia che porta il suo stesso nome. E’ stata scelta come la meta del viaggio di quest’anno perché è l’unica area dell’Afghanistan dove una donna Habiba Sorabi, è stata nominata Governatrice.
La popolazione della Provincia è dell’etnia Hazara (quella più perseguitata dai taleban), circa 500.000 persone, anche se quelle regolarmente registrate sono 370.000. Gli abitanti di Bamiyan città sono circa 10.000, mentre 40.000 vivono nell’area.
Tutta la provincia è divisa in sei distretti che comprendono un numero variabile di villaggi e a capo dei quali c’è un subgovernatore che viene nominato direttamente da Habiba. Anche i componenti dello Staff (paragonabili ai nostri assessori) sono scelti da lei. La lista con tutti i nominativi viene poi inviata al Governo centrale che ha la facoltà di avvallare o di imporre dei cambiamenti. Tutti i collaboratori sono uomini e Habiba è molto dispiaciuta di questo, ma è stato impossibile trovare una donna che avesse i requisiti per ricoprire qualche carica. La sua stessa segretaria ha dovuto lasciare a Kabul la propria famiglia per seguire la Governatrice.
Habiba incontra i subgovernatori ogni tre mesi, mentre lo staff settimanalmente e con loro affronta le problematiche più complesse.
La Provincia riceve un budget dal Governo centrale, ma l’entità dello stesso non è subordinato a nessun criterio (numero degli abitanti, problemi esistenti, priorità), se non quello delle lobbies. Più conoscenze e appoggi uno ha all’interno del Governo, più soldi riesce ad ottenere e non c’è nessun controllo su come questi siano utilizzati. Il resto del bilancio si ottiene attraverso tasse locali, anche se il peso di queste entrate deve essere molto esiguo visto la grande povertà nella quale si trova il paese.
Habiba Sorabi, prima di diventare Governatrice era stata Ministra per la condizione femminile. Aveva trovato appoggio da parte di Karzai nel Governo di transizione, ma al cambiamento della composizione governativa decise di lasciare il posto. Le era stato offerto un ruolo di ambasciatrice all’estero, ma lei ha rifiutato perché il suo obiettivo era ed è quello di riuscire a fare qualcosa di positivo per il suo Paese. Così è stata proposta come Governatrice della Provincia di Bamiyan, trovando l’ostilità di molti uomini di Governo. E’ stato molto difficile per lei trovare un riconoscimento. Nell’incontro con Habiba, infatti, emerge che il grosso problema è quello dell’istruzione. Quando lei è arrivata, circa il 90% della popolazione era analfabeta, soprattutto le donne. Il suo sforzo è stato quello di incrementare il numero di scuole, anche se non è stato facile soprattutto per la carenza di insegnanti. Attualmente ci sono segnali di miglioramento. Ci sono 85.000 studenti per 255 scuole di cui il 35% sono femminili. Gli insegnanti sono 1700 e 400 sono donne.
Habiba è riuscita a convincere le famiglie a far studiare soprattutto le bambine, perché l’obiezione era che non ci sarebbe stato nessun tipo di vantaggio nel mandarle a scuola. Molto ha pesato il fatto che lei, Governatrice, fosse una donna, perché in queste situazioni vale molto di più l’esempio che non le parole.
Anche se l’educazione culturale è molto importante, da sola non è una garanzia, perché ci sono molte persone istruite, ma questo fatto non le rende più sensibili al riconoscimento dei diritti umani. Non si esprime su altri Governatori dell’Afganistan, ma ammette che ogni provincia risente del modo di gestire il potere, soprattutto perché non esiste controllo dal Governo centrale. La sua strategia in questa difficile terra, dove il partito predominante è quello fondamentalista di Hezb-e-Wadat, il cui leader era Hazarì (sciita) è quella di cercare alleanze, in particolare con il mullah, perché il rappresentante religioso ha molto credito tra la gente. Si tratta di una mediazione, ma necessaria per cominciare almeno a lavorare e a cominciare ad acquistare una credibilità.
Alcuni del suo staff infatti temono che il Governo stia solo augurandosi un insuccesso della Governatrice per dimostrare che le donne non sono in grado di governare.
Ci rendiamo conto che la sua è una posizione veramente difficile, anche se l’impressione è che Habiba abbia le caratteristiche della “politica” nel senso classico del termine, mai intransigente, disposta alla mediazione e ai compromessi. Nella corruzione generale questo è già un parziale successo.
Anche per quanto riguarda la difesa dei diritti, soprattutto quelli delle donne, c’è ancora una grande differenza tra ciò che viene affermato nella Costituzione che riconosce l’uguaglianza tra uomini e donne e quella che è la tradizione. In effetti ogni capitoletto della Costituzione richiama la sharia, (nessuna legge può essere contraria al credo e alle disposizioni ella sacra religione dell’Islam), per cui i tempi della modificazione sono lunghissimi. Le donne sono ancora discriminate, ancora sono oggetto di violenza e spesso vengono usate per dirimere conflitti tra famiglie. I matrimoni legalmente non potrebbero avvenire ad un’età inferiore ai 16 anni, ma è consuetudine che bambine vengano “vendute” senza nessuna possibilità di sottrarsi a queste decisioni.. Per quanto riguarda la giustizia ci sono tre livelli, anche se, in prima battuta, qualsiasi tipo di controversia viene affrontata a livello familiare. Se non si raggiunge un accordo, c’è un primo processo e poi un secondo, sempre a livello provinciale. Infine c’è la possibilità di ricorrere ad un terzo livello, governativo. C’è la possibilità di avvalersi di un avvocato, ma non tutti ne possono usufruire e comunque per le donne non è una garanzia. Il ministro della giustizia è Mullah Shenwari, ha 80 anni e questo la dice lunga sulla volontà di cambiamento. Habiba sta cercando di far applicare la legge diversamente, puntando maggiormente sulla parte della Costituzione più innovativa, ma le difficoltà che incontra sono ancora molte.

Altro grosso problema è quello della salute. In tutta la provincia ci sono 41 ambulatori, dove però il medico non va quasi mai e sono gestiti da un infermiere per le visite agli uomini e un’infermiera per le visite alle donne. Ne abbiamo visitato uno a 40 km. di distanza nel villaggio di Qarghanato (tre ore di macchina). Lungo la strada per arrivarci si possono ancora vedere i risultati della distruzione lasciata dalle varie occupazioni: cimiteri con le bandiere verdi dei martiri, macerie di ciò che un tempo erano case, resti di vecchi carriarmati. Passiamo per un piccolo villaggio dove i taleban hanno compiuti una vera strage. Tutti gli uomini che erano presenti sono stati uccisi. Si vede ancora il cimitero con 300 tombe. Solo da poco è stato fornito ad ogni famiglia il materiale per costruire due stanze, travi di legno, porte e finestre.
L’ambulatorio medico che raggiungiamo è modestissimo: una stufa, una scrivania, un lettino, uno sfigmomanometro e un apparecchio per auscultare. In questa unica stanza avviene la registrazione, la visita e la prescrizione di terapia . I farmaci a disposizione sono pochissimi: qualche antibiotico, antidolorifici, espettoranti, disinfettanti intestinali, vitamine, antipertensivi. Non c’è possibilità di fare alcun accertamento. In compenso è aperto tutti i giorni dalle 8.00 alle 16.00.Viene fatta educazione al controllo delle nascite e vengono distribuiti diversi tipi di anticoncezionali (preservativi, pillola, qualche volta la spirale).I villaggi di cui è riferimento sono 11, per un totale di 3631 abitanti che possono diventare anche di più. E’ raggiunto a piedi o a dorso di un asino. Qui l’altitudine è alta e per molti mesi all’anno c’è la neve.

Alcuni dati

Nati 167 4,5%
Sotto i cinque anni 835 22,9%
Donne in gravidanza 192 5,28%
Donne non gravide 835 22,9%
Altri 1602 44,12%
Totale 3631 100,00%
Controllo nascite
Preservativo 156
Spirale 1
Pillola 182
Iniezione (estrogeni) 37
Prestazioni
Nascite 12
Infertilità 25
Visite donne incinte 98
Visite dopo parto 185
Test di gravidanza 35
Check up medico 3583
Visite pediatriche 1099
Infezioni sessuali 49
Emergenze 122
Ci sono anche due ospedali distrettuali e uno provinciale a Bamiyan, che è l’Aga Khan Hospital, chiamato così perché costruito con le sovvenzioni dell’Aga Khan. Fa riferimento ad un’associazione di impronta religiosa, anche se , sembra, non rigida. C’è anche un’altra ong afgana molto grande che si chiama Ibin Sena che promuove interventi di tipo sanitario e culturale. Habiba sostiene che se non ci fossero questi interventi delle ong la maggior parte delle strutture non sarebbero state costruite perché il Governo è assente. La qualità dei servizi pubblici è bassissima. Tutti i lavoratori governativi (siano essi medici, insegnanti, ingegneri, impiegati, avvocati etc.) prendono uno stipendio di 50 dollari al mese senza nessuna possibilità di incremento. L’unica condizione per migliorare le condizioni di vita è che lavorino più membri della stessa famiglia. Gli stipendi aumentano solo quando si arriva ai livelli governativi; le cifre possono attestarsi sui 200 dollari e solo quando si diventa ministri lo stipendio è di 1500 dollari al mese. Invece, coloro che lavorano per le ong, pur facendo lo stesso lavoro, guadagnano anche 10 volte di più. Questo crea sempre più forti discriminazioni, scarsa professionalità e livelli di corruzione altissimi.
Le malattie e le cause di morte ancora più diffuse sono la polmonite, quelle legate all’apparato digerente e per le donne il parto. Il problema più grosso è la distanza dall’ospedale che non è raggiungibile in breve tempo a causa dello stato delle strade. Il problema delle mine è presente, ma pare che gli abitanti abbiano segnalato i luoghi ancora pericolosi e quindi non ci sono più molti incidenti.
Il clima è molto ostile, perché la temperatura è rigida per circa 10 mesi l’anno e non consente grandi coltivazioni (d’inverno la temperatura scende a meno 25 gradi). Paradossalmente l’unica coltura che sarebbe florida è quella del papavero d’oppio, ma in questa regione i contadini si sono sempre rifiutati di produrlo e quindi adesso non possono neppure ricevere i finanziamenti concessi per la riconversione con la giustificazione che solo chi smette può avere gli aiuti e non chi non ha mai coltivato.
Tra i progetti di Habiba c’è quello di favorire la costruzione di serre, che darebbero lavoro e consentirebbero alla città di avere una maggiore autonomia, in quanto tutto quello che ora si trova viene importato dal Pakistan (questo è un problema che non riguarda solo Bamiyan, ma in genere tutto l’Afganistan).

La valle dei Buddha

Il giorno del nostro arrivo coincideva con l’anniversario della distruzione dei Buddha da parte dei taleban. Sono passati cinque anni da quando furono fatti saltare in più riprese. Dagli afgani la celebrazione viene chiamata “l’incontro di condanna”, perché ricorda una vicenda molto dolorosa ed esecrabile. I Buddha erano il simbolo di questa città. Avevano circa 1200 anni. La loro distruzione in realtà era cominciata già con la prima islamizzazione. Progressivamente tutti gli affreschi interni e le decorazioni erano scomparse o erano state oggetto di scempio. Pare che uno dei Buddha avesse la testa completamente coperta d’oro, che gli occhi fossero delle pietre preziose che risplendevano al sorgere del sole, che le braccia erano di legno, coperte di seta e manovrate da un meccanismo che le faceva alzare e abbassare come segnale di accoglienza..
I taleban hanno dato il colpo finale. Nelle grotte interne tutto è stato bruciato e in segno di spregio ci sono scritte e impronte di scarpe lanciate sui muri anneriti. Non sembra ci sia la volontà di ricostruire nulla anche se sono arrivati dei finanziamenti. La giustificazione data è che non sono stati raccolti pezzi sufficienti. Abbiamo avuto occasione di parlare con uno scultore locale, Abbas Allahdar, che ha imparato l’arte dal fratello ucciso durante l’occupazione. Lui è riuscito a scappare in Iran è lì ha frequentato una scuola dove ha migliorato la tecnica. Lui si è offerto insieme ad altri scultori di ricostruire il Buddha, ma Karzai non ha voluto prendere i considerazione questa proposta perché non ha fiducia nella capacità degli Afgani e forse, ma questa è una mia considerazione, perché non ha nessun interesse a riappropriarsi di una storia che appartiene ai tempi precedenti l’islamizzazione.
Alla celebrazione c’è moltissima gente. Gli uomini sono tutti accomodati sulle sedie e le donne, la maggior parte con il burqua, sono invece ai margini. C’è anche una folta delegazione. Gli interventi più significativi sono quelli della Governatrice, di uno studioso di Bamiyan che sta cercando di recuperare tutti i documenti e le testimonianze relativi a questa area per farne una pubblicazione e ricorda a tutti con le sue parole il passato e la ricchezza della città.
C’è un funzionario dell’ambiente della provincia che espone le infinite possibilità che la città offre soprattutto dal punto di vista turistico, sia per quello che storicamente ha significato, sia per le bellezze naturali che si prestano a trekking, percorsi ciclabili, gite a cavallo. Si susseguono cantanti e poeti locati, altre testimonianze esprimono solidarietà, altre ancora sono di denuncia.
Un anziano abitante sostiene che la salvezza per questo paese è quella di non farsi travolgere da altre culture a scapito della propria e cita già alcuni esempi di come parole pakistane e iraniane hanno sostituito termini afgani. Probabilmente denuncia questo con una forte ironia perché il pubblico appare divertito.
La cerimonia si conclude con la consegna ad Habiba di una scultura che rappresenta le chiavi della città. La chiave è spesso il simbolo del desiderio del ritorno o della difesa della propria identità nazionale.

Incontro con la TV e la radio di Bamiyan

Durante la cerimonia dei Buddha, erano presenti anche alcuni operatori della Televione e radio di Bamiyan, che venuti a sapere della presenza della nostra delegazione , si sono dimostrati subito curiosi di conoscerci meglio e anche di farci conoscere meglio la realtà di questa area.
Ci hanno quindi invitato presso i loro studi, se così si possono chiamare. Infatti la loro postazione è una stanza data in affitto dalla Guest House locale. Sono un’emittente governativa, fondata sei mesi fa. La loro strumentazione è composta di quattro computers e tre telecamere (poco più delle apparecchiature di un amatore), il cui acquisto è stato finanziato da un’organizzazione tedesca. Ci lavorano dieci persone di cui due donne.
Grazie ad un finanziamento da parte dell’India dovrebbero a breve installare un trasmettitore che permetterà di mandare direttamente in visione i loro programmi. Attualmente inviano via internet a Kabul tutto quello che producono, la sede della capitale fa una selezione e trasmette attraverso la rete nazionale i programmi. Finora non hanno avuto censure, anche perché i loro programmi sono soprattutto documentari su Bamiyan, alcuni a sfondo sociale, altri informativi, ma nel complesso abbastanza neutrali..
Lavorano dalle otto del mattino fino a mezzanotte e la mattina successiva inviano i programmi a Kabul. In genere ci mettono circa dieci ore per trasmettere tutto. Il loro scopo è quello di far conoscere la realtà di Bamiyan nel resto del Paese.
Per farci capire meglio in cosa consiste il loro lavoro, ci mostrano alcuni video clips, brevi ma significativi: “La nostra città”, “Inverno a Bandiamir” “Problemi dell’acqua a Bamiyan”. Sono solo immagini, accompagnati da un sottofondo musicale, ma di buona tecnica.
Uno in particolare è significativo, perché mette in luce molto bene il problema dell’acqua. In questa città, ma nella provincia in generale, la maggior parte delle persone non ha l’acqua. Generalmente sono le donne o le bambine (che quindi non vanno a scuola) che si fanno carico del reperimento dell’acqua o al ruscello o alla pompa più vicina. Fanno il percorso tre volte al giorno, coprendo diverse distanze e caricando le taniche a dorso dell’asino. L’acqua che prendono non è potabile, a volte neppure quella della pompa che arriva fino a 50 metri di profondità. Per avere più sicurezza bisognerebbe arrivare almeno a 80 metri. D’inverno il problema diventa più grave perché gela tutto e quindi la fatica e la difficoltà per avere una riserva aumenta.
Ci sono delle pompe, ma non sono assolutamente sufficienti. Ci informiamo sul costo che indicativamente potrebbe essere di circa 1000 dollari per ogni pompa ma l’importo potrebbe variare a seconda della profondità della trivellazione. Parlando con Habiba di questo problema, ci conferma la grossa difficoltà a soddisfare le esigenze di tutti i villaggi. Le pompe sono solo una parziale soluzione e il suo progetto che sta cercando di attivare, è quello di riuscire a costruire un impianto di canalizzazione che sfrutti una sorgente e possa rifornire direttamente le abitazioni. Ha già chiesto delle consulenze, anche se è consapevole che questo intervento risolverebbe il problema solo a Bamiyan città. Le pompe quindi rimangono ancora una soluzione per tutti gli altri villaggi.
La visita alla sede della televisione si conclude con la visione di un breve film che dovrebbe partecipare ad un festival del cinema indonesiano. Si intitola “Nonna”. Ci chiedono se è possibile trovare un canale per farlo circolare anche in Italia. Sarebbe interessante anche perché il regista, Mohammad Haidari, ha studiato all’accademia in Iran, nel periodo in cui era scappato dall’Afghanistan, e se riesce ad ottenere un prodotto così buono con la poca attrezzatura a disposizione, probabilmente potrebbe ambire anche ad un riconoscimento al di fuori del suo Paese.

Bamiyan meta turistica

L’area di Bamiyan si presta sicuramente anche ad essere una meta per il turismo perché le bellezze naturali che vi si trovano sono uniche. Non è un caso che molti dei progetti a cui si pensa sono focalizzati su questo obiettivo. Noi abbiamo potuto avere solo un piccolo assaggio, perché questa non è la stagione ideale per girare. Fa freddo, la natura non si è ancora risvegliata, le strade non sono percorribili. Tutti ci dicono che il luogo più bello è quello dei laghi (Bandiamir), ma non è possibile raggiungerli, anche se dai filmati visti alle sede della televisione ce ne siamo fatti un’idea.
Le nostre mete sono quindi tutte nell’area circostante alla città. Un militare ci fa da scorta perché c’è il pericolo mine.
La prima meta è Ghulghula city. E’ una vecchia città in cima ad un colle che è stata completamente distrutta dai mongoli. Inizialmente gli abitanti avevano cercato di resistere, ma poi, rendendosi conto della sproporzione delle forze in campo, avevano accettato la resa. Mentre si recavano verso il nemico, qualcuno fece partire un colpo e così furono sterminati tutti. Della città resta pochissimo,ma la cosa più bella è la vista che spazia su tutta la valle. E’ un susseguirsi di catene montuose coperte di neve, colori delle pietre che cambiano con la diversa proiezione del sole, vista sulla valle dei Buddha.
Da qui ci spostiamo verso Zohak city. Anche questa è una vecchia città ricavata nella montagna. Ci inerpichiamo su un sentiero un po’ scivoloso e pericoloso perché ai lati è un susseguirsi di pietre colorate di rosso che indicano la presenza di mine, anche se noi, forse un po’ incoscienti, ci sentiamo comunque tranquille con i nostri accompagnatori che si divertono anche a prenderci in giro. Qui il panorama è ancora più suggestivo. Si possono veder ancora i resti delle case distrutte, che mettono in risalto una fine architettura. Anche questa città fu distrutta dai Mongoli. La roccia è prevalentemente rossa, ma cambia continuamente colore a seconda della luce. Se penso a come doveva essere prima che tutto fosse distrutto capisco ancora di più il dolore delle persone che vivono qui e il desiderio di ricostruire il loro paese e il legame forte con la loro terra.
L’ultimo “privilegio” che ci spetta è la visita all’interno del Piccolo Buddha che normalmente è chiuso per i lavori di consolidamento.
Uno, dieci, cento, mille progetti….

I giorni passati a Bamiyan sono stati pochi, ma sufficienti per raccogliere mille idee e proposte di progetti, forse non tutti realizzabili, ma abbiamo pensato che fosse importante citarli tutti anche a dimostrazione della grande vivacità e vitalità delle persone del luogo.
Progetto turismo. E’ il più gettonato. Quello che abbiamo in mente noi e anche la Governatrice è quello di riuscire a ristrutturare alcune case e adibirle a piccole Guest House. Sarebbero sufficienti almeno due stanze e un bagno ben attrezzato, alcune indicazioni alle persone che le gestiscono. L’obiettivo è quello di creare un turismo “intelligente”, che possa rappresentare una risorsa per gli abitanti del luogo e non per i gestori delle Guest House che, non avendo nessuna competizione, sparano cifre spropositate in relazione a quello che offrono e hanno come unico scopo quello di arricchirsi personalmente. I costi di questo finanziamento potrebbero essere però abbastanza alti.
Progetto caseario. Da alcuni discorsi è emerso che qui c’è una grande produzione di latte che si presterebbe a essere trasformato in formaggio, ma nessuno è in grado di effettuare questa lavorazione. Ci chiedono se è possibile inviare qualche esperto che si fermi per un po’ di tempo e li aiuti ad avviare questo genere di attività. Potrebbe essere una buona opportunità per questa terra non molto adatta alla coltivazione perché l’inverno è freddo e lungo. Il rischio è che le persone decidano di andarsene e che si crei una forte dipendenza soprattutto dal Pakistan perché quasi tutte le merci sono importate.
Progetto scuola di scultura. Parlando con lo scultore di Bamiyan, emerge il desiderio di aprire una scuola di scultura rivolta soprattutto alle ragazze perché secondo lui hanno una maggiore sensibilità artistica. Ha bisogno di qualcuno che lo supporti.
Progetto serre. La proposta è venuta da Habiba, facendo sempre riferimento alla particolare ostilità del clima. Le serre potrebbero essere una soluzione per facilitare almeno alcune coltivazioni e in più darebbero lavoro alle persone del luogo.
Progetto pompe. Rimane una necessità improrogabile quella di cercare di estendere il più possibile la diffusione delle pompe dell’acqua. Quelle attualmente esistenti sono insufficienti.
Progetto corsi di montaggio cinematografico. Questo progetto è stato proposto dai ragazzi della televisione. Sentono che per loro sarebbe molto utile migliorare la loro tecnica e anche insegnarla ad altre persone, perché il problema di avere capacità di comunicazione più adeguate è molto sentito.
Progetto stampa di un libro storico artistico su Bamiyan. L’unico storico dell’arte di Bamiyan sta raccogliendo molto materiale per la pubblicazione di un libro che avrebbe lo scopo di recuperare le tradizioni, l’arte e il patrimonio artistico di questa zona visto che non esiste niente. Ha già quasi tutto il necessario. Gli mancano i fondi per la pubblicazione.
Alcuni di questi progetti ci entusiasmano, altri ci lasciano delle perplessità non tanto per il contenuto, ma soprattutto perché non abbiamo ancora chiaro politicamente che cosa e chi andremmo a sostenere. In questa riflessione ci è stato di grande aiuto Nuri, uno dei responsabile di Hawca che ci ha accompagnato nel viaggio, perché lui riesce ad essere meno coinvolto di noi emotivamente e coglie alcuni aspetti non facili da percepire senza alcuni elementi fondamentali di conoscenza.
Non è come in altre parti dell’Afghanistan dove lavorano le nostre amiche Rawa di cui possiamo fidarci ciecamente, ma conoscere sempre zone nuove è importante anche per questo.

Saluto all’Afghanistan


E’ un saluto un po’ triste, non per l’esperienza, né per le relazioni ritrovate, ma per la consapevolezza che poco o niente è cambiato e in un Paese come questo il non cambiamento a volte è anche sinonimo di peggioramento. Le nostre amiche, i nostri amici avrebbero diritto a molto di più per il coraggio, la passione e la speranza che sempre ritroviamo in loro.
Purtroppo l’ultima tappa che facciamo a Jalalabad è anche la più brutta. Alla Guest House dove solitamente ci fermiamo , la targa che ricorda la giornalista del Corriere della Sera, Maria Grazia Cutuli, uccisa in questa zona è stata completamente ricoperta e non si legge più niente. Veniamo trattate con molta ostilità. Ce ne andiamo esternando tutto il nostro disgusto, anche se non serve a niente.
Lungo la strada un altro segnale: i manifesti che davano le indicazioni soprattutto ai bambini sul pericolo delle mine sono stati cancellati.
Uno Stato senza Governo… Qui la lotta continuerà, perché le persone amano moltissimo la loro terra e non possono rinunciare alla speranza. I Governi occidentali continueranno a far finta di non vedere che cosa succede qui, dove ormai secondo loro, ha vinto la democrazia?