MA LA CONCLUSIONE SARA' SPLENDIDA
UN INTERVENTO A FAVORE DI LEYLA ZANA IN OCCASIONE DELL'INCONTRO PUBBLICO ORGANIZZATO A MILANO DA PUNTO ROSSO


febbraio 2001, di Silvia Vegetti Finzi

 

E' con "voce di donna" che vorrei intervenire a favore di Leyla Zana.
Leyla è per me il nome di un fiore, una fragile camelia coltivata in Riviera, e un cognome che suona come italiano: Zana.
Ma è soprattutto un corpo, un corpo di donna giovane e bella: lo sguardo dolce e amaro, il volto fiero di chi ha da poco alzato la testa e sa quanto costi dire di no.
Dietro di lei si estende una schiera di donne piegate dal sessismo patriarcale ma non domate, non vinte.
E' anche per loro che Leyla parla, rompendo la plurisecolare ingiunzione al silenzio: per la madre che ha sempre taciuto, per la figlia che deve poter liberamente parlare come un uomo, pur restando fedele al suo sesso.
Di Leyla mi ha sempre incantato la capacità di lottare per l'emancipazione, per l'eguaglianza con i diritti maschili, e al tempo stesso di tener fede ai valori della liberazione femminile.
Il suo insegnamento di vita e di pensiero non è mai neutro: proviene da una donna ed è diretto primariamente, anche se non esclusivamente, alle donne come detentrici di potenzialità forti e inespresse.
Ancora prima della condivisione politica , mi unisce a Leyla il comune possesso di un corpo femminile: un corpo fragile, dalle membra sottili, la pelle sensibile, un corpo destinato alla maternità, fatto per essere amato e per amare. Un corpo regolato dai ritmi della natura, dove i cicli mestruali seguono le fasi lunari, i ritmi delle maree, il gioco delle emozioni, la logica dei sentimenti. Un corpo finalizzato, come sostiene Lou Andrea Salomé, ad essere felice.
Il suo invece è stato violato dalle minacce, dalle percosse, dalle perquisizioni, dalla carcerazione, dalla tortura.
Eppure non si è mai piegata ai compromessi, neppure a quelli che, con sottile opportunismo, definiamo necessari.
Mi chiedo con angoscia, facendo appello alla mia esperienza, che cosa significhi essere detenuta nelle carceri turche durante la prima gravidanza, quando si ha più che mai bisogno di sentersi accolte e protette per poter accogliere e proteggere.
Con Leyla è l'integrità di tutte le donne kurde ad essere infranta ed è il diritto dei loro figli ad essere contenuti, partoriti, allevati ed educati da una madre libera ad essere negato.
Di Leyla ammiro la capacità, tanto difficile per il nostro individualismo piccolo borghese, di pensare in termini di "noi": noi donne sottoposte al dominio patriarcale, noi donne appartenenti a un popolo, quello kurdo, frammentato e disperso, noi donne che siamo la terra-madre della nostra gente, noi donne, semplicemente.
Sento che il suo pensiero mi abbraccia e mi comprende, anche se non ci siamo conosciute e forse non ci incontreremo mai.
Quando Leyla scrive: "Io non sono che una madre tra le tante del mio popolo che lottano per la pace e la libertà" dà voce a un soggetto collettivo nuovo, lo stesso che lotta in Argentina per la verità e la giustizia, contro le tentazioni della negazione e dell'oblio; lo stesso che, rifiutando la necessità della guerra, fa del nero un segno di condanna e di lutto.
Chi, se non una donna dal fondo del carcere in cui è da anni segregata, può abbracciare, nella stessa pietà, il popolo kurdo e quello turco, scorgere, al di là della contrapposizione tra persecutori e perseguitati, la medesima oppressione? E chiedere che si lotti insieme perché, anche se la terra è divisa: "è lo stesso sole che riscalda tutte le donne del mondo".
L'internazionalismo femminile, a differenza di quello maschile, inscritto in un progetto politico di lunga durata, ha l'evidenza e l'immediatezza della comune identità sessuale, di un destino condiviso, di un rapporto con i corpi, gli alimenti, gli elementi che non ha bisogno di mediazioni per riconoscersi simile.
Quando Leyla, eletta in Parlamento, è costretta a giurare fedeltà alla Costituzione che nega i diritti kurdi, dichiara solennemente:
"Sono stata obbligata ad adempiere la formalità richiesta. Io lotto per la fraterna convivenza dei due popoli in un quadro democratico".
Una frase che lei, con creatività d'artista, sottoscrive visivamente, intrecciando tra i capelli tre nastri con i colori della bandiera kurda: giallo, rosso, verde.
Un gesto femminile che rinvia all'identità di un corpo che si fa simbolo per rappresentare tutto ciò che le parole possono lasciar cadere.
Il suo discorso infatti fu liquidato nella trascrizione parlamentare come "incomprensibile". Ma l'immagine fu così forte da suscitare un dibattito politico sull'opportunità di cambiare i colori dei semafori per non ribadire ad ogni crocicchio l'identità nazionale rivendicata da Leyla con tanta efficacia.
Un'identità che, contratta nel tempo, si espande nello spazio. Significativo che il giornale cui Leyla collaborava negli anni '8O si chiamasse "Terra nuova", una metafora plurisecolare congiunge infatti la Terra con la Madre. Ma il termine "nuova" ne contraddice la staticità per aprire al futuro, alla speranza, al desiderio. "Quanto alle relazioni tra i sessi, scrive Leyla, la soluzione dei problemi della donna non può essere avulsa dalle problematiche sociali in generale. Voglio dire che noi cerchiamo di cambiare la società, proprio per poter risolvere in avanti i problemi delle donne".
In questo senso ci avvolge la medesima stoffa di un sogno di pace, di libertà, di uguaglianza, di un pluralismo capace di accogliere e valorizzare le differenze.
Leyla ci aiuta, per usare parole che Ersilia Salvato pronunciò 1O anni fa, nel 1991: "a dar senso, voce, parole a un'ansia, a un desiderio di libertà, al bisogno di pratiche e teorie di quell'inedita grammatica societaria che vogliamo affermare".
Condannata per "alto tradimento", Leyla Zana testimonia, anche per noi, la necessità di costituire un unico corpo, un soggetto sociale femminile capace di affermare che nessuna donna sarà libera finché una sola sia schiava. Mentre condividiamo, per lo meno simbolicamente, la sua cattività, facciamo nostra la sua lotta e la sua speranza in un mondo migliore.

Come scrive dall'esilio il poeta comunista turco Nazim Hikmet, nella sua ultima lettera al figlio lontano:

"la nostra terra, la Turchia è un bel paese
tra gli altri paesi
e i suoi uomini
quelli di buona lega
sono lavoratori
pensosi e coraggiosi
e atrocemente miserabili
si è sofferto e si soffre ancora
ma la conclusione sarà splendida."