DONNE AFGHANE: IL
PUNTO SULLA SITUAZIONE ATTUALE
UN
BILANCIO ALL'ALBA DEL NUOVO ANNO: COSA E' CAMBIATO, QUALI PROSPETTIVE
gennaio 2003, di Gabriella
Gagliardo
All'alba del nuovo anno, pochissime notizie dell'Afghanistan trapelano attraverso la stampa nazionale, mentre l'Italia si appresta ad inviare l'ennesimo contingente militare, col beneplacito del nostro Parlamento.
In realtà, notizie ben documentate e circostanziate sono state raccolte da diverse fonti autorevoli, ma non trovano spazio sui mass media. Abbiamo cercato di darne testimonianza sul nostro sito in diversi articoli ai quali rimandiamo, cercando in questa sede di ricostruire un quadro complessivo della situazione, in particolare per quanto riguarda le donne.
Rawa ha denunciato con insolita durezza in uno dei suoi ultimi comunicati
il disinteresse dimostrato dall'Occidente verso i diritti umani e in particolare i diritti delle donne, che vengono sistematicamente violati ancora oggi in Afghanistan.
Dopo avere insediato a forza di bombardamenti un governo in balia di elementi criminali di cui era nota la pericolosità, ed dopo avere spento i riflettori su un paese devastato, l'Occidente ha riversato aiuti economici inferiori a quanto promesso, e sulla cui destinazione reale si nutrono molti dubbi, ed ha incentivato in ogni modo il rientro dei milioni di profughi sui campi minati, nelle città prive di opportunità di lavoro, di sicurezza, di servizi minimi.
I diversi signori della guerra hanno mantenuto i loro eserciti personali con i quali continuano a compiere soprusi, violenze ed azioni di pulizia etnica, mentre il governo centrale non garantisce affatto il controllo del territorio nazionale. I responsabili della sicurezza USA continuano a fornire assistenza e sostegno direttamente alle autorità locali denunciate dalle organizzazioni per i diritti umani per la pratica della tortura e altre sistematiche gravissime violazioni a danno della popolazione e dei prigionieri. Anche i quotidiani italiani hanno riportato le accuse che organizzazioni americane hanno mosso al proprio governo riguardo alle torture praticate nel carcere di Kabul e in altri centri di detenzione ai danni di persone accusate di terrorismo, o riguardo alla consegna di prigionieri a paesi terzi, perché svolgessero essi il lavoro sporco.
Ora è superfluo ribadire qui l'estrema gravità di pratiche che, oltre che inammissibili contro qualsiasi essere umano, colpiscono persone che fino a prova contraria vanno ritenute innocenti. Ci preme piuttosto rilevare come questo contesto di totale mancanza di sicurezza influenzi la vita quotidiana delle donne, pubblica e privata.
Dalla seconda metà del 2002, parallelamente alla progressiva "disattenzione" dei media occidentali, le donne in Afghanistan vengono nuovamente spinte con ogni mezzo a regredire in una condizione di apartheid, come documenta ampiamente l'ultimo rapporto di Human Rights Watch (non ancora disponibile in italiano) dal titolo "Vogliamo vivere da esseri umani. Repressione delle donne e delle ragazze nell'Afghanistan occidentale".
L'indagine, ampia e accurata, è stata svolta nel territorio di Herat, governato da Ismail Khan (rispetto al quale e ai suoi stretti rapporti con gli Stati Uniti, HRW aveva già pubblicato un altro dettagliato documento di oltre 50 pagine, di cui abbiamo tradotto alcuni stralci), ma analoghe restrizioni contro le donne sono state documentate su tutto il territorio afghano. Ad esempio, in almeno altre cinque province (Kandahar, Sar-e Pol, Zabul, Logar, Wardak) le scuole femminili, riaperte subito dopo l'insediamento del governo provvisorio con grande clamore internazionale, sono state sistematicamente attaccate, date alle fiamme, le insegnanti aggredite talvolta con l'acido. Nella stessa Kabul è stato ricostituito il vecchio Ministero per la Repressione del Vizio e la Promozione della Virtù, sotto nuovo nome: Insegnamento Islamico; e il Ministro degli Affari Religiosi utilizza novanta donne per vigilare nelle strade sul comportamento delle donne, per sanzionarne il trucco o l'abbigliamento "anti-islamico". Per la stessa ragione, le donne possono venire fermate per strada e maltrattate da qualunque uomo, senza alcuna divisa che lo contraddistingua.
Fuori da Kabul, le aggressioni e gli stupri vengono documentati in grande scala dalla stessa HRW. Nel nord ne sono vittime in modo selettivo intere famiglie di etnia Pashtun. Nel sud, i casi documentati si riferiscono in particolare ai mesi di maggio-giugno, quando le truppe locali cercavano di impedire alle donne di candidarsi o partecipare al processo elettorale per la Loya Jirga. Negli stessi mesi, venivano prese di mira in particolar modo le donne impegnate negli aiuti umanitari, e le donne e le bambine rifugiate nei campi profughi. Si sono distinti il Generale Mohammed Fahim, Ministro della Difesa, e Burhanuddin Rabbani, per l'utilizzo delle loro truppe allo scopo di rafforzare le restrizioni "morali" dell'era talebana, contro le donne e non solo: la proibizione di musica e la danza, il divieto di avere contatti con le organizzazioni straniere, e così via.
Il caso di Herat, come si vede, non è quindi da intendere come un caso limite quanto piuttosto come un esempio particolarmente documentato di un processo in atto su scala nazionale.
Vale quindi la pena di soffermarci su Herat, città con un'antica tradizione culturale liberale, oggi sottoposta a un controllo poliziesco capillare più insidioso che ai funesti tempi dei talebani, repressione che contrasta con le aspirazioni della popolazione locale e con le aspettative alimentate dal crollo del precedente regime. Ad Herat ci sono donne disposte a parlare, a denunciare, violando il divieto di avere contatti con stranieri e rischiando per questo la propria incolumità: è noto, anche attraverso quotidiani italiani come il Manifesto, cosa sia accaduto ai testimoni del massacro di Mazar-e Sharif, e certamente alle protagoniste delle testimonianze raccolte da HRW, è molto più evidente che a noi quali rischi si corrano a raccontare. Il rapporto di HRW è per noi quindi una preziosa testimonianza della coscienza delle donne afghane riguardo ai propri diritti e della ferma determinazione a lottare per essi.
Grazie a loro apprendiamo che il governo locale di Herat ha ingaggiato adolescenti per controllare i comportamenti di donne e uomini, conferendo loro il diritto di sanzionarli direttamente in qualsiasi luogo e momento. Ciò viola la Costituzione del 1964, attualmente in vigore secondo gli accordi di Bonn, e le Convenzioni Internazionali sui diritti umani sottoscritte dal governo dell'Afghanistan, che garantiscono l'uguaglianza formale dei sessi e il diritto all'integrità fisica e alla libertà di movimento.
Le restrizioni alla libertà di movimento delle donne si moltiplicano invece giorno dopo giorno, allo scopo evidente di impedire ogni partecipazione delle donne alla vita pubblica e sociale, e ogni contatto con l'altro sesso. E' nuovamente proibito uscire di casa non accompagnate da un parente stretto maschio, proibito guidare o andare in bicicletta - in ogni caso sarebbe impossibile usando il burqua, che viene nuovamente imposto nei fatti -, proibito viaggiare a bordo di un'auto se non con un parente stretto, proibito quindi anche usare un taxi, mentre i mezzi pubblici sono quasi inesistenti. Di fatto, diventa un'impresa raggiungere una scuola o l'università, il lavoro, o anche un medico in caso di emergenza. HRW riferisce ad esempio il caso di una madre che è stata arrestata mentre cercava di portare d'urgenza in auto il proprio neonato in ospedale, ed è rimasta alcuni giorni detenuta senza poterlo allattare. Chi contravviene ai divieti, o viene sorpresa a camminare o a parlare con un uomo e non riesce a dimostrare un grado di stretta parentela con lui, viene arrestata e condotta in ospedale per una visita ginecologica forzata, allo scopo di certificarne la verginità o, nel caso di donna sposata, per verificare se ha avuto rapporti sessuali recenti. L'accompagnatore viene condotto alla polizia per essere "interrogato", secondo le consuete modalità di cui parlavamo sopra. Le vittime sono prevalentemente i giovani, gli studenti. Ma la stessa "visita ginecologica" si configura come una vera e propria violenza sessuale per le modalità con cui viene compiuta, contro la volontà delle donne e in modo da rovinare per sempre la loro reputazione e l'onore della famiglia. E' un'esperienza traumatica, della quale le vittime non parlano schiacciate dalla vergogna, ma che i numerosi testimoni descrivono unanimemente come molto umiliante. Quattro medici devono firmare il referto.
Ogni giorno nell'ospedale di Herat vengono sottoposte a queste indagini una media di 10 donne, mentre a quelle che richiedono assistenza medica per ragioni di salute essa viene negata. Meno dell'1% delle donne di Herat partoriscono con assistenza medica, e non per niente il tasso di mortalità materna dell'Afghanistan è il più alto del mondo: si stima che si verifichino 515.000 morti materne all'anno, di cui l'87% per mancanza di accesso alle cure mediche.
Gli esami ginecologici forzati sono dunque, oltre che un grave abuso sessuale, una violazione del diritto alla salute di tutte le donne, distogliendo risorse mediche indispensabili e causando morte.
Lo stesso governatore Ismail Khan moltiplica invece i proclami pubblici via radio incitando tutti gli uomini, privati cittadini, a intervenire per reprimere e punire ogni contatto tra i due sessi. E' proibito alle donne andare nei parchi la sera, ma nessuna osa avventurarsi per strada dopo le !6 o le 17. Con crescente frequenza le donne vengono arrestate anche nella propria casa: chiunque può entrare e verificare se esse si trovino in compagnia di uomini di parentela non stretta, e questo è sufficiente per venire trasportati dalla polizia e indagati con i sistemi sopra esposti. Gli arresti vengono registrati ufficialmente alla centrale: non si tratta, per il governo di Herat, di abusi, ma di un doveroso controllo della moralità.
La violazione della libertà di espressione e associazione, negata a tutti, è doppiamente esercitata contro le donne, escluse dalla vita politica, sociale e culturale malgrado la formale riapertura di scuole e università alle donne, e malgrado i posti di lavoro promessi e resi irraggiungibili. Gli spazi sono persino più ristretti che all'epoca dei talebani: se allora la Herat Literary Society, prestigiosa accademia letteraria, contava sulla presenza discreta ma attiva di donne, ora le donne ne sono state espulse del tutto, attraverso successive strette repressive che vengono ricostruite in modo dettagliato nel documento di HRW. Soprattutto, è stato assolutamente proibito, in quella sede come in qualsiasi altro luogo, parlare dei diritti delle donne.
Tutte le associazioni di donne sono state proibite, e per tentare di controllare la fortissima spinta delle donne alla partecipazione, il governo stesso ha creato la Herat Women 's Shura, ne ha insediato la presidentessa scelta personalmente da Ismail Khan, il quale inoltre invia persone del governo a presenziare lo svolgimento di ogni incontro. Malgrado il rigidissimo controllo, in alcune riunioni sono emerse voci di dissenso contro il governo e la sua politica misogina, voci prontamente represse. Il governatore ha preteso di usare gli incontri di questa associazione per condannare i suicidi delle ragazze che sfuggono così ai matrimoni forzati, accusandole di non essere coraggiose ma incapaci di lottare per risolvere i problemi delle loro famiglie. Impossibile contraddirlo.
Il rapporto di HRW analizza anche le violazioni dei diritti delle donne nei luoghi di lavoro, all'Università, attraverso la censura totale delle immagini femminili alla televisione, e così via: rimandiamo al documento integrale per ragioni di spazio.
Vogliamo qui ricordare invece altri due elementi per completare il quadro della situazione afghana.
Il primo riguarda un tema gravissimo di cui non si parla affatto per ovvi motivi: la contaminazione da uranio a seguito dei bombardamenti americani. Come abbiamo riportato in un precedente articolo, il territorio afghano è contaminato e le conseguenze sulla salute della popolazione sono fuori controllo a causa del contesto sanitario che non permette di estendere le costose analisi in ulteriori aree del territorio nazionale. Non è noto perché gli USA abbiano usato testate con uranio, più cancerogeno ancora dell'uranio impoverito, ma è evidente che nessuno si preoccupa di soccorrere le vittime ne' di bonificare l'ambiente, già infestato dalle mine antiuomo (lo sminamento, a cui lavorano anche tecnici italiani, procede con estrema lentezza e enormi difficoltà dovute anche alla mancanza di sicurezza sempre più grave quanto più ci si allontana dalla capitale)
L'altro elemento ci riguarda da vicino: cosa sta facendo il nostro paese, oltre ad inviare alpini e a collaborare con gli USA?
A livello istituzionale si è formato un Gruppo di Contatto delle deputate italiane con le donne afghane. E' stato promosso da deputate sensibili alle problematiche delle donne afghane e raccoglie esponenti di tutti i partiti, da sinistra a destra. Da' seguito agli impegni presi dalla delegazione di parlamentari italiane che nel febbraio 2002 si erano recate in visita a Kabul. Il "Programma del governo afghano per il sostegno del Ministero degli Affari delle Donne", per il quale era stato chiesto loro sostegno politico e finanziario, e che prevedeva il monitoraggio delle azioni legislative per promuovere la parità giuridica delle donne, non sembra avere fatto alcun passo avanti dal momento che la sharia continua ad essere applicata e le carceri si sono nuovamente riempite di donne in fuga da matrimoni forzati e violenza domestica. E per quanto riguarda i programmi su istruzione, formazione professionale e sanità, è evidente dopo quanto abbiamo riportato sopra, che non ci sia, o non ci possa essere a causa del peso dei fondamentalisti nel nuovo governo, a livello governativo alcuna seria intenzione di promuovere progetti duraturi ed efficaci. Il 28 novembre scorso il Gruppo di Contatto ha convocato a Roma presso la Camera dei Deputati undici donne afghane tra cui la nuova titolare del Ministero per gli Affari delle Donne Habiba Sarabi, che ha sostituito la precedente Ministra Sima Samar costretta a dimettersi. Secondo quanto riportato in un articolo pubblicato dal Paese delle donne le invitate hanno ringraziato per gli aiuti, anche se assolutamente insufficienti rispetto alle esigenze, e hanno spiegato che nel processo di democratizzazione bisogna mediare con le diverse tradizioni locali.
Al di là della personale abnegazione delle donne che si espongono assumendo incarichi istituzionali in situazioni di rischio, resta dubbio che il processo in atto possa essere definito "di democratizzazione". L'ipoteca principale è senz'altro l'impunità dei signori della guerra che non solo si sono macchiati di crimini contro l'umanità, ma sono stati ricollocati nei posti di comando dagli Stati Uniti, e con la protezione di questi ultimi, le armi, i finanziamenti che essi distolgono dagli aiuti umanitari, i proventi che ricavano dal rifiorito traffico di droga, continuano ad opprimere una popolazione che non li ha mai scelti come propri governanti. Il disprezzo contro le donne e il totale disconoscimento dei diritti umani delle donne, sono i pilastri su cui si fonda la loro dottrina e il loro potere: come è possibile mediare su questo?
Alla luce dei fatti, la posizione di Rawa, che qualcuno giudica troppo intransigente, ci appare semplicemente coerente e lucida. Rawa ritiene che ottenere un processo internazionale contro i signori della guerra sia una priorità, una condizione senza la quale ogni percorso di democratizzazione non avrebbe corso. E ritiene che il nuovo Stato afghano debba essere laico: compromessi, concessioni alle tradizioni vere o presunte, non possono che minare alla radice i diritti umani più elementari delle donne. Rawa sostiene anche che, malgrado l'analfabetismo e l'arretratezza in cui sono state forzatamente tenute le donne soprattutto nelle campagne, anche le donne più povere desiderano vivere la propria fede religiosa senza le costrizioni esterne e violente del potere politico. Uno Stato laico non è un lusso per intellettuali, ma un diritto fondamentale per tutte e tutti.
Certamente è proprio il lavoro di base con le donne dei settori popolari più svantaggiati l'unica speranza di una radicale e duratura trasformazione, ed è con questi settori organizzati della società civile che anche noi dobbiamo cercare di intensificare le relazioni di solidarietà diretta.