KABUL
LA DELEGAZIONE APPENA RIENTRATA APRE UNA FINESTRA SULLA LOTTA UNDERGROUND DELLE DONNE E SUL RUOLO DELLA COOPERAZIONE NEL CONTESTO POLITICO PRE-ELETTORALE


settembre 2004, di G.G. e A.F.

Tra il 10 e il 20 agosto una mini delegazione di due persone è stata a Kabul per incontrare le donne di RAWA, l'Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane, e altri soggetti afghani e internazionali attivi nel paese.
Ormai da diversi anni le delegazioni si susseguono, in diverse forme e con sempre nuove persone coinvolte. Non sarebbe stato possibile realizzare in pochi giorni una esperienza così ricca e significativa, senza mettere in campo le risorse, i contatti, le conoscenze accumulate dalle delegazioni precedenti, che hanno permesso di organizzare il viaggio nelle migliori condizioni di sicurezza e produttività.
Kabul non è un luogo accogliente per le donne. Il diritto alla libera circolazione è fortemente limitato, se non più legalmente, di fatto. E non è il caso di sfidare le consuetudini quando non si deve assolutamente dare nell'occhio, soprattutto per non mettere in pericolo chi dovrà incontrarci quotidianamente, mentre porta avanti il suo lavoro nella clandestinità.
Bisogna pensare quindi a tutti i dettagli, dal cellulare locale alla cena precotta per non dover uscire la sera, all'autista di fiducia, all'abbigliamento adatto, all'Internet Point, alle pastiglie per potabilizzare l'acqua, ai farmaci di emergenza, e a mille piccoli accorgimenti di sopravvivenza.
Le persone che ci hanno accolto hanno preparato per noi una serie di incontri, soprattutto con familiari di scomparsi e di vittime di omicidi avvenuti ormai molti anni fa, ma i cui mandanti ed esecutori sono purtroppo in posizioni di potere ancora oggi e in grado di continuare a nuocere.
I testimoni erano soprattutto donne: madri, mogli, sorelle, cugine, con un insostenibile carico di dolore, ma anche rabbia, determinazione e insospettabile energia. Una anziana donna tagika, molto povera, a cui gli uomini di Massoud avevano ucciso uno a uno tutti i tre figli maschi, ha voluto prostrarsi a terra e pregare prima di raccontarci la sua storia. Poi ci ha detto: "Credo solo in Dio e in nient'altro; da allora non ho più parlato con nessuno di questa cosa".
Perché lei, e poi molte altre, si sono decise adesso a parlare? Perché i testimoni erano così tanti che non ci è bastato il tempo per ascoltare tutti?
Certamente Rawa ha fatto un lunghissimo e paziente lavoro per conquistarsi la fiducia di queste persone. Le nostre amiche sono proprio dentro, alle case, ai quartieri più poveri e martoriati, alle vite quotidiane delle vedove, delle ragazze, di donne in ogni situazione. Nelle loro scuole e nei loro laboratori si studia e si impara moltissimo, anche dalle reciproche esperienze. Le donne povere non sanno quando sono nate, che età hanno, ed è difficile farsi dire l'anno in cui è stato ucciso qualcuno, ma in compenso sanno chi era al potere a Kabul in quel momento, chi comandava nella loro regione di origine, a che punto era la guerra, e la loro vicenda privata ritrova un senso e un valore dentro la storia collettiva in cui ora si collocano. E dentro questa storia, la propria potrà avere un riscatto, anche se chi è scomparso ormai non può più tornare.
Ma a volte la testimonianza personale nasce già come un racconto corale: la tragedia collettiva di un massacro che non ha risparmiato nulla e nessuno. È il caso, ad esempio, del quartiere azara di Afshar, a ovest di Kabul, dove l'11 febbraio 1993 Massoud e Sayyaf, dopo settimane di combattimenti a spese della popolazione civile costretta a rimanere chiusa in casa senza acqua e cibo, hanno avuto la meglio contro la fazione rivale di Hezb-e-Wahdat e hanno rastrellato il quartiere casa per casa. In un susseguirsi di orrore hanno violentato le donne e ucciso tutti gli abitanti, uomini, donne, bambini, anziani, persino tutti gli animali. Afshar è rimasto deserto, con fosse comuni e tombe senza nome ovunque tra le case distrutte, e solo da un anno alcuni profughi hanno ricominciato a popolarlo e ricostruire tra la polvere le loro povere abitazioni. Ci hanno accolte nelle loro case di fango, anche loro ansiosi di raccontare, una storia tra l'altro già documentata da fonti autorevoli come Human Rights Watch, ma sulle cui responsabilità non si vuole fare luce.
Perché quindi parlare proprio adesso?
Qualcosa si sta muovendo in Afghanistan. Non sono solo le manovre militari, dell'Onu, della Nato, dei troppi signori della guerra e dei loro comandanti ancora ben armati e pronti a difendere il proprio potere locale. Non sono solo le manovre elettorali, per le presidenziali di ottobre e per le elezioni parlamentari e locali previste per la prossima primavera. Tutto questo infatti si svolge in uno scenario molto inquietante, di attentati, scontri armati, liste elettorali ancora ampiamente incomplete, intimidazioni alle donne che vanno ad iscriversi, vendita di voti, corruzione. Anche in questi spazi truccati e infidi, c'è chi tenta di ottenere l'impossibile: donne che lottano per inserire nella legge elettorale la possibilità di presentare candidature femminili indipendenti dai partiti; e persino un partito democratico, Hezb-e-Hambastagi Afghanistan, il cui leader è Abdul Khaliq Namat, registrato per le elezioni di marzo-aprile insieme ad altri 34 partiti, tutti islamici.
Ma c'è altro che si muove, specie tra le donne, e ne è testimonianza un fatto straordinario avvenuto durante i lavori della costituente, e su cui purtroppo i giornali italiani hanno taciuto.
Ci riferiamo a Malalai Joya, una giovane donna delegata presso la Loya Jirga, che è intervenuta nell'assemblea a Kabul il giorno 17 dicembre scorso per chiedere conto della nomina a responsabili delle commissioni costituenti di persone accusate di gravissimi crimini contro l'umanità, che dovrebbero essere poste sotto processo da tribunali nazionali e internazionali e non in posizioni di potere dalle quali possono continuare a compiere i loro crimini.
Malalai ha parlato in diretta TV finché non le hanno spento il microfono; molti delegati l'hanno applaudita, e non è stato possibile espellerla dalla sala grazie alla reazione in sua difesa da parte di diverse donne delegate. Le hanno intimato di chiedere perdono per le sue dichiarazioni, ma lei ha risposto che si pentiva solo di non essere riuscita a dire di più.
Malalai ha subito un attentato il giorno stesso del suo discorso, mentre era sotto la protezione ONU, e l'UNAMA (United Nations Assistance Mission in Afghanistan) ha promosso una commissione in sua difesa, temendo che contro di lei si stessero muovendo, oltre che i signori della guerra direttamente implicati, anche i servizi segreti afghani, il KHAD.
È possibile ascoltare la sua viva voce e vedere la registrazione video del suo intervento, e le riprese della immediata manifestazione popolare di donne nella sua regione di provenienza, Farah, sul sito www.geocities.com/malalaijoya
Malalai èstata immediatamente nascosta dalle sue compagne, per riapparire mesi dopo - finita la costituente e la protezione Onu - a Farah, tra la sua gente, dove è di nuovo molto attiva e protetta. Ha subito altri attentati, compreso un vero e proprio attacco militare da parte di un commando di un centinaio di uomini, che sono stati respinti.
Dopo il suo discorso, non solo a Farah ma anche a Kabul e in molti altri centri si sono formati comitati spontanei di solidarietà a Malalai. A Kabul gruppi di persone si recavano presso le sedi delle principali radio: la BBC, Sada-e-America (La voce dell'America), Sada-e-Azad (La voce della libertà), per sostenere in diretta che Malalai aveva detto la verità, raccontando ciò di cui erano testimoni.
Anche un'altra donna della Loya Jirga, Saphora, della regione di Saeed Khel, dopo essere tornata al suo villaggio e radunato diversi testimoni, ha preso coraggio, è andata in una radio a Kabul e ha denunciato pubblicamente per i suoi crimini il comandante Maolana-e-Saeed Khel, uomo di Massoud, che ricopre incarichi di potere nel Saeed Khel. "Non passa giorno che quell'uomo non prenda con la violenza una donna per sé".
Subito dopo Saphora è scomparsa. Si teme per la sua vita, e si spera che sia ben nascosta in qualche luogo sicuro; ma non si hanno più notizie di lei.
Per giorni e settimane, dopo il discorso di Malalai, i signori della guerra e i loro tracotanti comandanti hanno tremato. Non si parlava d'altro nelle strade, nei mercati, nei ristoranti. Il volume delle radio sovrastava quello dei motori, la polvere e il canto dei mullah. Poi il terrore ha steso un velo pesante, anzi un burqua. Oggi, grossi fuoristrada con i vetri oscurati trasportano per le strade di Kabul gli stessi comandanti di un tempo, responsabili di crimini efferati.
Ma la gente ha sperimentato che è possibile parlare, e le donne nei loro incontri hanno ripreso a raccontare, piangere, chiedere conto e tirare fuori rabbia e speranza.
A Farah le manifestazioni popolari hanno costretto il governo centrale a sostituire il governatore locale con un altro uomo meno compromesso agli occhi della gente.
Altrove le possibili sostituzioni non sono altrettanto soddisfacenti. Proprio a ferragosto, ad Herat ci sono stati scontri armati tra due diverse fazioni, con 21 morti e il solito scenario della popolazione civile schiacciata tra i fuochi dei due schieramenti, le loro case esposte a ogni violenza.
Ci sono voci che gli Stati Uniti si siano stancati dell'attuale governatore di Herat, Ismail Khan, uno dei peggiori criminali al potere. Ma per sostituirlo, secondo il solito copione, appoggino un suo nemico altrettanto sanguinario. Questa agghiacciante vicenda pare sia collegata all'uccisione in un agguato nel giugno scorso dei cinque operatori di Medici Senza Frontiere. Il responsabile dell'eccidio è rimasto agli arresti un giorno ed ora è libero e gode di alte protezioni. Medici Senza Frontiere, come è noto, ha deciso di abbandonare del tutto l'Afghanistan: un gesto estremo di protesta per una impunità assolutamente inaccettabile che mette a repentaglio la vita degli operatori umanitari come della popolazione intera. Sul sito dell'organizzazione, www.msf.org, è possibile leggere l'amara polemica con la moglie dell'ambasciatore USA in Afghanistan (Zalmai Khalil Zad), che ha criticato la loro scelta. La signora sostiene che l'azione umanitaria non possa più esistere senza la protezione delle forze armate, e che sia indispensabile collaborare.
Questa commistione tra intervento umanitario ed eserciti di occupazione sembra oggi al centro della politica internazionale dei governi occidentali: quanto di più dannoso essi siano riusciti a fare con le ultime guerre, ai danni dei popoli.
Per chi vuole mantenere la fiducia della gente che vuole soccorrere, l'indipendenza dalle parti belligeranti è un requisito irrinunciabile.
Attualmente a Kabul sembra regnare molta confusione, tra forze armate straniere, governo e poteri locali, ONG locali e ONG straniere, che prolificano e assorbono molte risorse.
Le ONG soprattutto, ci sono sembrate molto diverse da quelle che eravamo abituati a conoscere in Italia solo 15 anni fa. Una volta queste ultime inviavano i loro volontari e i finanziamenti - oppure solo i finanziamenti - a ONG locali, che gestivano in proprio i progetti. Il volontario si inseriva nelle équipes locali: magari aveva un peso rilevante nelle decisioni, perché competente nel suo settore e perché in qualche modo garante del corretto utilizzo dei fondi erogati dalla propria organizzazione, però si adeguava alla struttura della quale era ospite.
Abbiamo visto invece diverse ONG con la loro propria sede, il proprio personale che dirige e svolge le funzioni chiave, e personale locale dipendente.
È indispensabile strutturare il lavoro in questo modo? Cosa accadrà quando le ONG si ritireranno? Perché non rafforzare le ONG locali in grado di garantire un intervento serio? È probabile che, nella folla di ONG locali sorte per accaparrarsi gli aiuti internazionali, molte non siano realmente affidabili, e specialmente non sia agevole per gli occidentali risalire ai loro eventuali occulti padrini - i soliti onnipresenti signori della guerra. Ma alcune ONG che hanno dimostrato per lunghi anni di essere egregiamente all'altezza dei loro compiti, ben prima dell'avvento del nuovo governo, esistono. Una per tutte, HAWCA (Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan), che svolge attività di altissimo livello soprattutto in campo educativo tra la popolazione più povera. E una più recente, che utilizza però personale di grande esperienza: OPAWC (Organization for the Promotion of Afghan Women Capabilities), attiva soprattutto in campo educativo e per l'avviamento lavorativo delle donne attraverso il microcredito, finanziate entrambe anche da organizzazioni italiane.
Abbiamo avuto la possibilità di visitare alcuni loro corsi e confermiamo quello che anche le precedenti delegazioni hanno sempre osservato: la capacità di ottenere risultati sorprendenti con risorse minime, grazie a un eccezionale radicamento nel territorio. Molte giovani donne dimostrano una vivacità intellettuale e un'energia che non ci si aspetta di vedere in quel contesto; e la loro capacità organizzativa e politica viaggia alla velocità della luce.
Per tutto questo, malgrado tutto, pensiamo davvero che i giochi non siano ormai fatti in Afghanistan, e che valga la pena investire anche qui molte nostre energie a sostegno della causa delle donne afghane: paradossalmente, non c'è laboratorio di femminismo più fertile di quello coltivato da decenni da loro.