AFGHANISTAN, UNA PACE LONTANA


settembre 2004, di Graziella Longoni e Laura Quagliuolo, pubblicato in: Annuario della pace. Italia/giugno 2002 - maggio 2003, a cura di L. Kocci, Asterios Editore (Trieste 2003).

6 marzo 2003, al Convegno di Viareggio, "Insieme per le donne afghane", Mariam, una donna afghana attivista di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), parla del suo paese con toni accorati e preoccupati.
Il silenzio è nuovamente sceso sull'Afghanistan. In Occidente si pensa che, dopo il crollo del regime talebano, tutto sia cambiato, ma niente è più falso.
Dal 1979 a oggi un susseguirsi di conflitti devastanti ha distrutto il paese, seminato terrore e miseria, costretto migliaia di persone a lasciare le loro case. L'invasione sovietica, il jihad (guerra santa) contro gli infedeli proclamato dai mujaheddin addestrati e armati dagli Stati Uniti e dal Pakistan, la guerra civile tra le diverse etnie scatenata dai "signori della guerra" in lotta per il potere, l'oscurantismo barbaro dei taleban, sono gli elementi storici di una tragedia politica e umana che si è consumata nell'indifferenza del mondo.
Il mondo è stato zitto e ciò non ha aiutato le forze democratiche, che in Afghanistan cercavano di contrastare l'illegalità e il fondamentalismo in nome dei diritti umani e della laicità dello Stato, a radicarsi e a crescere.
Solo dopo l'11 settembre 2001 l'Occidente si è accorto che sostenere i gruppi fondamentalisti è pericoloso; tuttavia gli Stati Uniti, nella campagna "Enduring Freedom", ancora una volta hanno armato e avuto al loro fianco i mujaheddin dell'Alleanza del Nord, guerriglieri islamici, non diversi dai taleban, che, col kalashikov in una mano e il Corano nell'altra, non hanno esitato a massacrare il popolo afghano. L'Alleanza del Nord, occupando i ministeri più importanti nel governo di Karzai, ha preso di nuovo il potere che amministra anche nelle province in modo del tutto autonomo; per questo non si può dire che la situazione è cambiata.
Attentati contro Karzai, ministri uccisi, scuole femminili bruciate, repressione nel sangue di una manifestazione di studenti universitari, donne straniere violentate, donne afghane ricacciate sotto il burqa, violazione quotidiana dei diritti umani, quattro milioni di persone che stanno morendo di fame, due milioni di rifugiati che non tornano nel loro paese perché non è garantita la sicurezza, sono fatti che suscitano una grande inquietudine.
Oggi l'Afghanistan è ancora sotto il dominio dei peggiori fondamentalisti, ma l'Occidente sembra non cogliere la gravità del problema.
Il territorio non è pacificato, i taleban si stanno riorganizzando, la guerra prosegue, le faide interne sono sempre più sanguinose, la gente comune continua a morire per incidenti, malattie, malnutrizione, i diritti umani restano lettera morta, la ricostruzione del paese è davvero lontana.
Se non si darà reale sostegno alle forze democratiche, l'Afghanistan rischia nuovamente di precipitare nell'anarchia e i soli a pagare saranno le vittime di sempre, le donne, i bambini, i vecchi, la popolazione civile che non ha colpe.

Una guerra mai finita, un'economia che non decolla
Il 7 giugno 2003 a Kabul un taxi imbottito di esplosivo, guidato da un attentatore suicida, ha fatto saltare in aria un pullman pieno di soldati tedeschi dell'Isaf, la forza internazionale di assistenza per la sicurezza in Afghanistan. Quattro militari uccisi, una decina di feriti gravi, più una trentina meno gravi, tra passanti e militari Isaf, è il bilancio provvisorio
Verso la fine di maggio, alcuni soldati americani di stanza all'ambasciata statunitense di Kabul hanno aperto il fuoco per errore contro militari afghani uccidendone tre e ferendone altri due.
Alla fine di aprile, due soldati statunitensi sono stati uccisi in uno scontro con un gruppo armato non identificato vicino alla base USA di Shkin, nel sud est del paese. Nello stesso mese il ministero della difesa afghano ha annunciato che, durante una riunione cui era presente anche la coalizione internazionale di pace guidata dagli Stati Uniti, i principali signori della guerra e i comandanti di alcune milizie avevano raggiunto un accordo col governo per la formazione di un esercito nazionale multietnico. Ciò è avvenuto dopo che a Maimana, città nella provincia di Faryab, 18 persone sono morte in scontri tra le milizie al comando del tagico Mohammad Atta e dell'uzbeco Rashid Dostum. Nel frattempo, alla periferia di Shkin, undici civili sono stati uccisi per errore da un bombardamento statunitense.
Verso la fine di marzo, gli alpini italiani, di stanza nella zona di Khost, hanno sostenuto il loro primo scontro armato aprendo il fuoco contro alcuni assalitori sospetti.
Il 5 settembre 2002, in seguito all'assassinio di due ministri, i cui responsabili non sono stati individuati, il capo del governo Hamid Karzai ha subito un attentato e lo stesso giorno un altro attentato a Kabul ha provocato la morte di 26 persone e il ferimento di 150.
Un'ulteriore conferma sulla precarietà della sicurezza ci è venuta nel marzo 2003, quando una delegazione di Donne in Nero ha incontrato a Kabul Habiba Sarabi, Ministra per gli affari femminili. "Il problema della sicurezza - ci ha detto - è il più urgente e il più difficile da risolvere, soprattutto nei villaggi e nelle province lontane dalla capitale. Ci sono molti segnali di pericolo che suscitano allarme." La Ministra, che è stata minacciata più volte, ha aggiunto: "Troppa gente gira armata per le strade, il governo è debole, molte ordinanze di Karzai sono ignorate".
L'Afghanistan non è pacificato, sicurezza e stabilità sono ancora lontane, inoltre i quotidiani bombardamenti americani nel sud paese, tuttora roccaforte dei taleban, stanno provocando una forte ostilità tra la popolazione civile delusa nelle sue aspettative di miglioramento.
Dall'annuncio della vittoria su al Qaeda e sui taleban, centinaia di estremisti si sono mobilitati per contrastare il nuovo corso. Provengono da diversi gruppi: arabi di al Qaeda, ex taliban, fedeli del feroce comandante Gulbuddin Hekmatyar, membri del Movimento islamico dell'Uzbekistan, estremisti pakistani e ogni giorno attaccano.
In seguito alla forzata esclusione politica del re Zahir Shah, rientrato in Afghanistan dopo 23 anni di esilio a Roma, gli USA hanno imposto, con un ricatto economico e militare , il governo di Karzai che controlla a malapena la capitale; nel resto del paese infatti i signori della guerra continuano a scontrarsi, usando le loro milizie per imporre i propri interessi.
Uno dei più strenui oppositori del governo Karzai è Gulbuddin Hekmatyar, il più feroce e fondamentalista dei signori della guerra, che con i taleban ha lanciato il jihad contro gli occidentali oggi presenti nel paese. Armato dagli Stati Uniti negli anni Ottanta per combattere l'invasore sovietico e appoggiato dai servizi segreti pakistani, nel 1993 ,dopo la nomina a primo ministro mujaheddin, ruppe con i suoi alleati e fu uno dei principali artefici della distruzione di Kabul, dove morirono 60.000 civili. Hekmatyar punta oggi a indebolire il governo, tentando di infiltrare alcuni suoi uomini nelle istituzioni statali e organizzando azioni terroristiche destabilizzanti.
Il Pakistan gioca ancora una volta un ruolo determinante in questa vicenda: da un lato si dichiara alleato degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, dall'altro permette ai taleban di etnia pashtun di restare in Pakistan, dove alcuni elementi dell'ISI (i servizi segreti pakistani) e dei partiti religiosi fondamentalisti li appoggiano e finanziano.
Nello stesso tempo India e Russia stanno armando e finanziando diversi signori della guerra non pashtun e fornendo aiuti al tagico Mohammed Fahim, ministro della difesa considerato alleato di Washington, che controlla il più armato esercito etnico del paese .
In questo quadro di grande tensione la ripresa economica diventa quasi impossibile. Oggi l'unica risorsa, che però riguarda quasi esclusivamente la capitale, è rappresentata dalla presenza dei militari internazionali e delle centinaia di ONG, che prima o poi lasceranno il paese.
Kabul, la città "più sicura" e con qualche risorsa economica sia pur a termine, appare una città devastata; ovunque edifici sventrati, pericolanti, fogne a cielo aperto, una polvere untuosa che impregna l'aria, insudiciando ogni cosa. L'acqua corrente e l'elettricità mancano nella maggior parte della città e, dove ci sono, vengono erogate a singhiozzo.
Nelle strade del centro più frequentate dagli occidentali, vedove avvolte in burqa laceri chiedono l'elemosina. Frotte di bambini, oltre a chiedere l'elemosina, insistono per pulirti le scarpe, o per venderti piccoli rotoli di carta igienica. Sui loro volti sono spesso evidenti i segni delle cicatrici provocate dalla leishmaniosi.
Verso la periferia piccole case di fango abbarbicate sui versanti della montagna, ai bordi delle strade una fila ininterrotta di catapecchie sbrindellate, assolutamente inadatte a proteggere dal freddo notturno e a riparare dalla polvere. Intorno alle pompe a mano bambini e donne cercano di riempire i loro bidoni di un'acqua che non è sicura nemmeno bollita.
Anche Kabul vive dunque nella precarietà e nell'indigenza.
A quanto pare, finora è stato erogato solo un terzo dei 4,5 milioni di dollari promessi dai paesi donatori alla conferenza di Tokyo del gennaio 2002.
La lentezza nell'erogazione degli aiuti, l'instabilità politica e militare, la difficoltà a trovare referenti locali in grado di collaborare alla realizzazione di progetti di risanamento economico hanno creato le condizioni per una ripresa in grande stile della coltivazione del papavero da oppio, unica fonte di sostentamento per i contadini, i quali non hanno mai ricevuto il risarcimento in denaro promesso dal governo inglese per promuovere la riconversione delle piantagioni.
Secondo un recente rapporto dell'Unodc, l'agenzia dell'Onu per la lotta al traffico di droga, la produzione di papavero da oppio, dopo il crollo a 185 tonnellate nel 2001, frutto del bando alle coltivazioni imposto dai taleban, ha raggiunto le 3.400 tonnellate nel 2002 e nel 2003 arriverà 4.000 tonnellate.

I rifugiati
Prima dell'11 settembre 2001 i profughi afghani erano più di 5 milioni, di cui 3.500.000 in Pakistan, 1.500.000 in Iran e il resto sparso tra i confini dei paesi limitrofi e nei paesi occidentali come Germania, Canada, Stati Uniti.
Dopo il crollo del regime talebano nel dicembre 2001 e l'insediamento del governo, sono incominciati i rientri. Dal marzo 2002, sotto il patrocinio dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono rientrate in Afghanistan 1.800.000 persone che hanno ricevuto 30 dollari, un telone impermeabile, un sacco di farina e del sapone. 400.000 persone hanno riguadagnato il pese autonomamente. Dei 724.000 sfollati interni, 230.000 sono tornati alle loro province di origine dove hanno incontrato una situazione estremamente difficile.
Circa 500.000 persone hanno scelto di fermarsi a Kabul, la gran parte di esse ha trovato riparo nelle zone della città, devastate dalla guerra civile (1992-96), dentro le rovine di case lesionate, senza tetti, senza servizi igienici, elettricità, rete fognaria.
Si stima che nel corso del 2003 rientreranno ancora circa 1.500.000 persone, che andranno a popolare villaggi distrutti e a coltivare le campagne infestate dalle mine e dalle bombe inesplose.

Le insidie mortali di un territorio minato e contaminato
In Afghanistan si continua a morire e a rimanere orribilmente mutilati anche quando la guerra è ufficialmente finita. Venticinque anni di conflitti hanno lasciato sul terreno 42 diversi tipi di mine per un totale di 10-14 milioni, una quantità enorme per una popolazione compresa tra i 20 e i 24 milioni di persone. Secondo un'indagine della Croce Rossa Internazionale, l'85% delle vittime delle mine sono civili e il 49% di questi ha meno di diciotto anni.
Gli ultimi bombardamenti hanno aumentato del 92% gli incidenti di questo tipo, grazie al lancio delle cluster bomb, bombe a frammentazione messe al bando dalla Convenzione di Ginevra, che rimangono inesplose al suolo in almeno il 5% dei casi. Human Rights Watch, nel suo rapporto del 18 dicembre 2002, ha dichiarato che sull'Afghanistan sono state sganciate circa 1228 cluster bomb, contenente ciascuna 202 ordigni di dimensioni simili a una lattina di bibita. Le cluster bomb si spargono su un'area pari a quella di due campi di calcio e quelle inesplose si trasformano in mine antipersona.
Esse hanno colpito anche zone popolose e, oltre ad aver fatto molte vittime tra pastori, agricoltori e popolazione civile, hanno influito pesantemente sull'agricoltura, sottraendo risorse importanti a un paese fra i più poveri del mondo.
Non è ancora possibile fare una stima esatta, ma sembra che ogni mese dalle 150 alle 300 persone, molte delle quali bambini, rimangano vittime delle mine e degli ordigni inesplosi.
Secondo OMAR, una ONG impegnata nel lavoro di sminamento oltre che in quello di prevenzione, grazie al quale la popolazione è in grado di riconoscere le mine e quindi di evitarle, ci vorranno più di dieci anni per bonificare il terreno, se nel frattempo la situazione politica non precipiterà.
Un altro dramma è rappresentato dalla contaminazione da radioattività diffusa, causata dalle bombe ad alta penetrazione impiegate dalle forze alleate per distruggere bunker in profondità, e dalle cosiddette "bombe intelligenti"; entrambe sono ordigni che montano testate con uranio impoverito. Durante la campagna "Enduring Freedom", sono state lanciate circa 12.000 bombe, il 60% delle quali "intelligenti".
Recentemente la BBC Online ha reso noto i risultati di una ricerca condotta su un gruppo di civili afghani dall'Uranium Medical Reserarch (UMRC), un'organizzazione indipendente fondata nel 1997 da Asaf Durakovic, esperto di medicina nucleare, impegnato da anni nello studio degli effetti dell'uranio impoverito.
Un gruppo di ricercatori si è recato in Afghanistan, a giugno e a ottobre del 2002, per raccogliere campioni di schegge degli ordigni, acqua, terra e urina della popolazione civile residente nella provincia orientale di Nangarthar e nella zona di Kabul, dove pare sia stata testata una nuova generazione di bombe ad elevata penetrazione che forse impiegano uranio naturale.
I risultati sono molto preoccupanti. Nei campioni di urine analizzati si trovano concentrazioni di isotopi dell'uranio superiori di 100 volte alla norma. Negli abitanti di Jalalabad sottoposti ad analisi è stata riscontrata una presenza di uranio naturale fino a 20 volte superiore alla norma.
Nel rapporto si dice che il team dei ricercatori è rimasto scioccato dalla portata dell'impatto dei bombardamenti sulla salute della popolazione. In ogni località bombardata, la gente è ammalata e una parte significativa presenta i sintomi della contaminazione interna da uranio Se queste scoperte dovessero essere confermate in altre zone del paese, l'Afghanistan si troverebbe di fronte a un disastro sanitario; tutte le generazioni future infatti sarebbero a rischio.

Donne ancora negate, bambini malnutriti e in pericolo di vita
Il rapporto diHuman Rights Watch (dicembre 2002) sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan traccia un quadro impressionante soprattutto per quanto riguarda la condizione delle donne.
Emblematica è la situazione delle donne nella provincia occidentale di Herat, governata da Ismail Khan, signore della guerra autoproclamatosi Emiro, che si sente legittimato nel suo ruolo politico perché ha combattuto a fianco degli Stati Uniti.
Il governo decide dove le donne possono andare, con chi, quali mezzi possono prendere per arrivare a destinazione. Quando escono di casa, devono portare il burqa e, se non lo indossano, corrono il rischio di essere molestate dalla polizia e dai comuni cittadini.
Non possono camminare per la strada o salire su un taxi in compagnia di uomini che non siano membri della loro famiglia. Uomini e donne, che sono stati visti insieme ma non hanno rapporti di parentela, vengono arrestati: gli uomini messi in prigione e le donne portate all'ospedale, dove subiranno una visita ginecologica che accerterà se hanno avuto rapporti sessuali recenti.
Il diritto al lavoro non viene riconosciuto, infatti non possono accettare un lavoro nelle ONG o per le Nazioni Unite, devono rimanere a casa, al massimo possono insegnare alle bambine. Formalmente potrebbero frequentare la scuola e l'università, ma in orari diversi da quelli dei maschi, in classi separate e soprattutto non possono riunirsi in assemblea.
La terribile situazione a Herat purtroppo non è unica; ovunque le restrizioni e gli abusi contro le donne e le bambine stanno aumentando. Dalla fine dell'estate del 2002 a Kabul è attiva, alle dipendenze del Ministero degli Affari Religiosi, la squadra speciale che combatte il vizio e promuove la virtù, già operante all'epoca dei taleban e ora rinominata "Insegnamento islamico". Essa minaccia le donne per le strade ,accusandole di "comportamenti anti-islamici", se non vestono in modo adeguato o se portano il trucco. Spesso le segue fino a casa e punisce i parenti maschi che non vigilano su di loro.
Anche il diritto all'istruzione è in pericolo. Otto scuole femminili sono state bruciate in diverse province, in altre i governatori locali hanno autorizzato le forze di polizia a minacciare le donne che vanno a scuola e sono stati distribuiti volantini anonimi per intimidire le famiglie che permettono alle figlie di studiare.
Risuonano più che mai vere le parole di Rawa, la maggiore organizzazione femminile di resistenza afghana che dal 1977 lotta per l'affermazione dei diritti umani, quando sostiene che, se non si persegue la laicità dello Stato e non si rifiuta il fondamentalismo religioso, il rispetto dei diritti umani rimarrà un'illusione.
Secondo Rawa, la predominanza dell'Alleanza del Nord danneggia l'immagine stessa del Governo Karzai e rende impossibile il cammino verso la democrazia, perché i mujaheddin sono fondamentalisti quanto i taleban; inoltre, nella lotta per il potere, si sono macchiati di orrendi delitti, usando la religione per intimidire il popolo, nascondere i loro crimini, violentare le donne.
Colin Powell, nel novembre 2001, aveva dichiarato: "La ricostruzione dell'Afghanistan deve implicare la restaurazione dei diritti delle donne afghane. Il diritto delle donne in Afghanistan non è negoziabile".
Sostenendo un governo che ha al proprio interno ministri fondamentalisti senza alcun rispetto dei diritti umani, gli Stati Uniti e i loro alleati non solo si smentiscono, ma diventano anche corresponsabili di una politica che continua a negare le donne.
A quasi due anni dalla cacciata dei taleban, molte cose dell'Afghanistan restano comunque sfuggenti, una cosa però è certa: in questa fase di transizione sono ancora le donne e i bambini a pagare un costo altissimo.
Secondo un rapporto dell'UNICEF, dei 7,5 milioni di afghani, la cui sopravvivenza dipende dagli aiuti umanitari, due terzi sono donne e bambini. Molte donne sono costrette ad abbandonare i propri figli perché non possono nutrirli. Inoltre, il tasso di mortalità per maternità è uno dei più alti al mondo. A causa delle usanze religiose che impediscono loro di ricorrere ai medici di sesso maschile e di avere accesso alle cure, le donne partoriscono in casa, spesso sole o assistite da persone senza professionalità.
Per quanto riguarda i bambini, un quarto muore entro i primi cinque anni di vita per malattie spesso banali e un bambino su due soffre di malnutrizione, che causa 250.000 decessi l'anno. Cresce anche il numero degli orfani che è raddoppiato rispetto ad un anno fa. Negli anni passati molti bambini sono stati perfino arruolati nelle diverse milizie con ripercussioni fisiche e psichiche devastanti.

Il quadro è davvero desolante, ci presenta un Afghanistan lontano dalle promesse di stabilità, prosperità, democrazia, fatte per giustificare una guerra illegale contro un Paese sovrano. Forse gli Stati Uniti hanno vinto la guerra, anche se i risultati lo mettono in dubbio dal momento che nessuno degli obiettivi dichiarati è stato raggiunto, di sicuro però hanno perso la pace.