NELLE PIAZZE E NEI PALAZZI
LE ELEZIONI PARLAMENTARI
E PER I CONSIGLI PROVINCIALI E L'ARDUA RICERCA DI CANALI DI ESPRESSIONE DELLA
VOLONTA' POPOLARE
Luglio 2005, di G.G.
Quattro giorni di manifestazioni e scontri, in tre diversi distretti della provincia di Takhar: Rostaq, Cha Ab, Dasht Qala. Proteste di massa organizzate contro le "autorità corrotte e criminali", signori della guerra che Karzai ha imposto come Governatore, Capo della Sicurezza, e Responsabile per l'Educazione in questa provincia. I dimostranti hanno chiesto la rimozione dei signori della guerra da questi incarichi, e hanno denunciato le loro attività nella coltivazione del papapvero e nel traffico di droga. Dal 29 maggio al 2 giugno donne e uomini hanno occupato le strade, finchè Karzai non ha accettato di ricevere una delegazione dei manifestanti. Ha assicurato loro che quei signori della guerra sarebbero stati rimossi dai loro incarichi, ma fino ad ora questo impegno non è effettivo.
Questa straordinaria esperienza di mobilitazione popolare apre uno spiraglio di speranza, malgrado gli esiti ancora incerti, su uno scenario politico davvero inquietante e denso di nubi. Non a caso i media non hanno speso una parola su questa lotta, mentre continuano ad arrivare informazioni piuttosto oscure sulle rivolte "antiamericane", sugli scontri tra militari e talebani, sui bombardamenti di civili, sulla guerra di quelli che contano.
Potete vedere alcune immagini delle manifestazioni di Takhar sul sito di Rawa. Solo da Rawa abbiamo saputo ad esempio che nella provincia di Farah, le rivolte popolari sono riuscite a far rimuovere, uno dopo l'altro, due criminali dall'incarico di Governatore. E che ovunque, nel Paese, in modo sotterraneo, la resistenza contro i signori della guerra fondamentalisti continua a guadagnare terreno, a piccoli passi di donna.
In questa difficile congiuntura in cui la violenza contro le donne ha avuto un'impennata drammatica, con stupri, omicidi, rapimenti, pesantissime intimidazioni, e quando persino sul piano formale l'applicazione della sharia sfida gli ambigui progressi giuridici così poco tutelati dalla Costituzione e dagli organi dello Stato, molte donne continuano a mettersi in gioco.
Alle prossime elezioni Parlamentari del 19 settembre, su 2.915 candidati, 347 sono donne; per i 34 Consigli Provinciali, su 3.170 candidati, 279 sono donne. I seggi disponibili al Parlamento sono 249 ed un quarto dovrebbero essere riservati alle donne. Le candidature femminili non sono di per se stesse una garanzia: per assicurarsi i seggi delle quote riservate, anche i partiti più fondamentalisti e misogeni si sono attrezzati a presentare candidature femminili che pensano di poter manovrare a loro piacimento. Le donne si presentano per lo più come indipendenti nelle liste dei partiti. Rawa ha presentato una trentina di candidate indipendenti, ma le sue militanti non possono esporsi come membri dell'organizzazione femminista per ragioni di sicurezza.
Difatti ciò che sempre più manca all'approssimarsi delle elezioni di settembre, è la sicurezza. Propagandato come secondo e decisivo test per la nascente democrazia afghana, dopo l'elezione presidenziale dell'ottobre scorso, il processo per l'elezione del primo Parlamento e dei Consigli Provinciali è con troppa evidenza viziato da un clima di intimidazioni, scontri armati, rivolte e disordini, dietro i quali secondo autorevoli analisti potrebbero esserci esponenti dell'Alleanza del Nord che non sono riusciti ad ottenere tutto ciò che volevano durante le elezioni presidenziali di ottobre, ma anche i servizi segreti pakistani che pare stiano infiltrando un sorprendente numero di studenti nella fatiscente università di Kandahar.
Il confronto politico è soffocato dalle armi, e ben pochi degli oltre 60 partiti politici che si sono registrati per concorrere alle elezioni - tutti dichiaratamente islamici secondo i dettami della nuova Costituzione - possono vantare altra identità se non quella della milizia armata da cui hanno origine, e del leader militare di quest'ultima.
Per quanto polverone si sollevi intorno alla questione delle elezioni, la realtà resta un'altra: l'Afghanistan è un paese occupato militarmente. Dipendente economicamente dal mercato dell'oppio (fornisce l'87% della produzione mondiale, con un fatturato per il 2004 pari a 2,8 miliardi di dollari, con un incremento del 17% rispetto all'anno precedente, che corrisponde al 60% del PIL) e dagli aiuti diretti delle potenze occupanti e di altri donatori esteri.
La sua economia non può ancora definirsi post-bellica: la guerra non è finita, il disarmo delle milizie non avanza (su oltre 150.000 miliziani, ne sono stati smobilitati solo 30.000, in realtà riassorbiti dal nuovo esercito afghano - 21.000 soldati - e dalle forze di polizia -18.000 unità - controllate dagli stessi signori della guerra che hanno assunto posizioni di potere nel governo), la ricostruzione non decolla.
I profughi rientrati sono circa tre milioni e mezzo, un'enorme serbatoio di mano d'opera di riserva, ancora senza prospettive, con i campi e i pascoli minati (le mine ancora uccidono o feriscono gravemente 300 persone al mese), i cantieri - prevalentemente nella capitale e per edilizia privata dai costi inaccessibili - affidati in subappalto a compagnie straniere che impiegano pochi operai locali senza alcuna garanzia ne' diritti.
In città i prezzi sono altissimi, la presenza di circa 2000 ONG ha stimolato lo sviluppo di un mercato destinato agli operatori stranieri e ai pochi privilegiati che accedono ai fondi esteri, e non si vede alcuno sviluppo di un mercato interno: la grandissima maggioranza degli afghani è al di sotto della soglia di povertà, specie, come è noto, donne e bambini.
Eppure uno studio dell'Afghan Women's Mission, organizzazione femminista americana, rileva che per le organizzazioni femminili il governo USA ha speso solo un dollaro ogni 5.000 dollari di aiuti. Spende inoltre 10-12 miliardi di dollari all'anno in operazioni militari in Afghanistan (solo l'operazione Anaconda del 2002 è costata un miliardo al mese), e mantiene lì un contingente di 18.000 uomini. Il governo afghano ha chiesto 4 miliardi all'anno per la ricostruzione, ma non ha mai ottenuto cifre di questo ordine. Del resto gran parte dei fondi che arrivano vengono assorbiti dalla corruzione che pervade tutto l'apparato dello Stato.
La ricostruzione viene vincolata dagli occupanti alla presenza diretta delle proprie truppe: i Provincial Reconstruction Teams (PRT) hanno militarizzato la distribuzione degli aiuti umanitari. Queste squadre dovrebbero garantire la sicurezza dei lavoratori che ricostruiscono scuole, ospedali, acquedotti, strade. La presenza delle truppe di occupazione non ha scadenza, c'è però un avvicendamento: gli Usa hanno intenzione di assicurarsi in modo permanente le basi e di ridurre il proprio contingente affidando alcuni territori ai loro alleati, come l'Italia, o a infidi partner in grado però di "produrre" al bisogno estremisti, come il Pakistan, culla dei talebani.
L'Italia sta ampliando il proprio impegno militare in questo senso: dal 31 marzo scorso ha preso il comando di Herat e lo sta estendendo a tutto il settore ovest del paese, impiegando 350 unità, per lo più provenienti dall'Iraq. Inoltre ad agosto assumerà per 9 mesi il comando delle forze Isaf, con 1500 uomini, ed avrà quindi la responsabilità principale nel garantire la sicurezza durante le elezioni.
Le forze Isaf, al contrario di quelle dei PRT, sono richieste unanimemente dalle organizzazioni non fondamentaliste, perché sperano che siano un deterrente per le milizie e i sicari dei signori della guerra. Fino ad ora, l'Isaf ha saputo garantire una certa sicurezza almeno nella capitale, ma non ovunque: una parte di Kabul e della sua provincia, quella ovest, è rimasta sotto il controllo dei criminali di Sayaff, ex-ministro nel governo ad interim, allontanato da Karzai nel suo secondo gabinetto.
Queste elezioni non nascono proprio sotto una buona stella. Come se non bastassero i giochi truccati dalle armi, dai soldi dell'oppio e dall'influenza estera, la legge elettorale non prevede affatto un sistema proporzionale, ma un meccanismo chiamato voto-singolo-non-trasferibile: il voto va dato al singolo candidato, il simbolo del partito neanche appare; i voti in più ottenuti da un candidato non vanno al partito, ma sono persi. Se l'elettorato non viene quindi strettamente controllato, si rischia di sprecare voti con candidati comunque già eletti, e di non arrivare a eleggerne altri che ricevono comunque molti voti. La rappresentanza in Palamento ne risulterà ulteriormente falsata. Inoltre, non esiste ancora una commissione elettorale indipendente per monitorare le elezioni, ma l'incarico fino a questo momento spetta a un Ministero della Giustizia tutt'altro che imparziale.
Si gioca una brutta partita, e se le elezioni venissero nuovamente rimandate non ci sarebbe da rammaricarsene. Tuttavia si gioca, e una presenza qualificata di donne realmente rappresentative dentro il Parlamento è una scommessa da non sottovalutare.