DI RITORNO DA KABUL. RELAZIONE DI UN VIAGGIO IN SOLIDARIETA' CON LE DONNE AFGHANE.
TRIPLICATE LE VENDITE DI BURQA SOTTO IL NUOVO REGIME


aprile 2002, di Laura Quagliuolo delle Donne in Nero.


Peshawar, 6 marzo 2002, ore 18.30
Partiamo, dopo l'intensa giornata al campo gestito da RAWA, noi "quattro donne di Kabul", salutate con tanto calore da tutte; ho le lacrime agli occhi per l'emozione.
Il viaggio notturno per arrivare a Islamabad è lungo, la dissestata strada è piena di camion colorati e strombazzanti, biciclette, motorini, animali, polvere. La mia costante preoccupazione perché tutte le cose funzionino mi fa temere che arriveremo troppo tardi per riuscire a trovare ancora il tipo della TFC, compagni privata (di malandrini) che con i suoi aeroplanini minuscoli fa servizio da qualche settimana per e da diverse città dell'Afghanistan. Faccio chiamare TFC dal ragazzo che fa da accompagnatore sul pullmino per chiedere un appuntamento e pochi minuti dopo il nostro arrivo in albergo (verso le 10 di sera) il nostro "venditore di biglietti" arriva, si fa pagare (un sacco di quattrini) e se ne va. Anche questa è fatta! Domani si parte!
Passiamo alcune ore a parlare dell'esperienza di oggi al campo, qualcuna è perplessa perché non siamo riuscite a parlare con calma con le donne di RAWA come era successo il giorno prima con Hawca: io assicuro che le occasioni ci saranno, che ognuna di noi tornerà a casa con il suo bagaglio di notizie ed emozioni, con la voglia di inventarsi dei percorsi praticabili per continuare a lavorare per queste due associazioni. Ci poniamo anche il problema della distribuzione delle caramelle: è vero, chi ha un certo tipo di sensibilità fa fatica a pensare che sia utile, ci sentiamo l'occidentale ricco che va, lascia la caramella e con quella si mette a posto la coscienza. Dal mio punto di vista non è così: vedo la caramella o il quadernino solo come un piccolo segno (e una donna di RAWA ci ha detto che non è un piccolo segno, è un grosso segno), utile. Z., O., perfino all'ospedale di Emergency ci hanno chiesto di farlo personalmente e avranno i loro buoni motivi.
Andiamo a letto che è l'una passata, anche se forse vorremmo continuare a chiacchierare.

Islamabad, 7 marzo
Ci svegliamo presto, dobbiamo ancora risolvere alcune cosette con la Pia (per i biglietti di ritorno) e finire di preparare i bagagli.
Finalmente, verso le 11.30 arriviamo all'aeroporto: ci guardiamo con gli altri passeggeri, sono un folto gruppo di americani (che poi scopriremo far capo a Eve, quella dello spettacolo "I monologhi della vagina"), che finanzia con un mucchio di soldi meeting europei e internazionali di donne afghane: hanno una montagna di bagagli, sono pesanti valigie metalliche, quelle che di solito contengono materiale da ripresa.
Passiamo i primi controlli, facciamo il check in e veniamo spedite sulla pista, per raggiungere il piccolo velivolo che ci porterà a Kabul. E lì avviene un primo incidente di percorso: basta guardare l'aereo e la montagna di bagagli del gruppo di americani per capire che quella roba non ci sarebbe mai entrata. Comincia una lunga trattativa, i bagagli vengono pesati con una vecchia bilancia pesapersone, gli americani sono indignati. Ma come? Prenoti un volo di questo tipo (19 posti) e non dichiari neppure che ti presenterai con un carico dieci volte superiore al peso consentito? E vuoi pure che gli altri passeggeri rinuncino a portare i loro 20 chili per caricare la tua roba? Noi occidentali siamo sempre i soliti; crediamo che il mondo debba sempre essere fatto a nostra misura (e a misura dei nostri bagagli).
Le trattative durano due ore, finalmente i "signori" si decidono a lasciare a terra il loro pesante fardello e si può partire. Tra poco più di un'ora saremo a Kabul.
Il volo va bene, tranne nel finale; il piccolo velivolo è scosso da diversi vuoti d'aria e si prova la sensazione di essere su un ottovolante: sotto alla coltre di nuvole appare lo spettacolo delle splendide montagne che circondano Kabul.

Kabul, 7 marzo
Scendiamo dal velivolo e ci avviamo verso l'interno dell'"aeroporto internazionale" di Kabul: il panorama di devastazione che avremmo poi avuto davanti agli occhi per tre giorni comincia da lì.
Ogni cosa è sfasciata, manca la luce, qualche figura scura, probabilmente senza meta, si aggira tra i rottami di quella specie di aeroporto.
Mi viene incontro Mauro Sioli, il mio amico fotografo che è qui da un mese e che sarà il nostro ospite, con Andrea Nicastro, inviato del "Corriere della Sera" e Giuliana Sgrena, giornalista del "Manifesto" e cara amica.
Mauro è lì con Maria Pia Dradi, in missione per l'Ambasciata italiana, e con alcuni ragazzi della sua scorta. È la nostra fortuna perché nello sgangherato ufficio visti tre uomini, uguali a quelli che si aggirano per l'aeroporto (saranno dei funzionari?), ci dicono che devono trattenere il nostro passaporto e che lo potremo ritirare al Ministero dell'Interno del governo ad interim afghano dopo due giorni. Discutiamo un po' e, malgrado le perplessità, decidiamo di fidarci; qualcuno della nostra Ambasciata si farà poi carico di ritirarli prima della nostra partenza.
All'aeroporto ci aspetta anche un pick up di Emergency: li incontriamo, scambio un abbraccio con Rossella. Decidono di seguirci fino a casa: ho con me del materiale medico di cui hanno bisogno e che devo consegnargli.
Kabul ci appare subito nella sua desolazione: un brulicare di uomini sporchi, vestiti di poco, senza calze e donne con la burqua (ma non si diceva che se l'erano tolta?), mendicanti, macerie, strade pesantemente dissestate, i pochi edifici ancora in piedi minacciano di crollare da un momento all'altro, i negozi esistenti sono dei buchi neri e non sempre si riesce a individuare quali merci vendano, i veicoli, per la più parte, sono rottami. Solo le macchine delle centinaia di ONG che si sono riversate su Kabul dopo la fine dei bombardamenti (sono tanti, troppi, e la sensazione è che mangeranno tutto quello che c'è da mangiare finché le casse sono piene) sono nuove, grossi pick up con tanto di bandierine e scorte. Ora che abbiamo bombardato, infliggendo un colpo ferale a un paese già allo stremo, tocca a noi ricostruire.
Arriviamo a casa, i nostri ospiti ci fanno ogni possibile raccomandazione: non uscite sole, non vi avventurate per la strada, coprite la testa con un velo, usate indumenti che non mettano in risalto alcuna forma, non date soldi ai mendicanti (ne avrete intorno 100 nel giro di un secondo e in un secondo ci si ritrova con 100 persone intorno anche senza dare un centesimo a nessuno), evitate certe zone, fate il possibile per essere a casa prima delle sette di sera, non bevete acqua per nessuna ragione, non mangiate nulla che non sia sicuro, cioè non mangiate nulla che non venga da casa
Suona il campanello della porta: Andrea ci prega di scomparire al piano di sopra e di non farci sentire, è qualcuno che non vuole e non deve essere visto Scopriamo che nella casa di fronte vive un comandante (un delinquente, dice Andrea) capo di una milizia di 600 uomini (e questo, qui a Kabul, significa potere).
Suona ancora il campanello: questa volta è H. di HAWCA, che ci ha rintracciate grazie all'Ambasciata! Che emozione vederla qui! Sta bene, ha sempre quell'aria fiera, sicura, forte: è una delle poche donne di Kabul che non porta la burqua. Le chiediamo quali sono le reazioni della gente e lei ci dice che i bambini la ringraziano, qualcuno per strada la offende, ma lei vuole continuare, vuole essere un esempio. Sta cercando di aprire un ufficio qui a Kabul ma è difficile: i prezzi delle case sono alle stelle (anche per gli standard occidentali ­ si parla di 7000-8000 dollari al mese, una cifra da vertigine per il livello di vita di questo posto), non c'è possibilità di comunicazione (niente linee telefoniche, solo i costosissimi satellitari), niente mezzi pubblici, ci si può spostare solo in taxi (per loro troppo costoso), elettricità a singhiozzo: e questo sarebbe già abbastanza per scoraggiare chiunque. Ci porta dei fiori freschi, due rose. Il giorno dopo ci domanderemo dove li ha trovati, visto che a Kabul non nasce più nemmeno un fiore e che i pochi venditori che si vedono nei bazar espongono solo tristissimi fiori di plastica. Avrà girato tutta la città per quelle due roselline!
Decidiamo che il giorno dopo andremo insieme alla funzione ufficiale per l'8 marzo: io sfrutterò l'invito dell'Ambasciata, altre due entreranno con un invito procurato da Giuliana e la quarta entrerà con H. Dopo la funzione H. rimarrà con noi, ci porterà a fare un giro della città, ci farà vedere
Salutiamo H., le donne devono rientrare (per ragioni di sicurezza) prima delle sette di sera, quando fa buio, e noi ci facciamo accompagnare dall'autista di Mauro e Andrea in Ambasciata; vogliamo incontrare l'Ambasciatore Giorgi, fargli qualche domanda sulla situazione. Inoltre alle 7 abbiamo dato un appuntamento a S., di RAWA, davanti all'Ambasciata. Non arriva: chissà se riusciremo a incontrarla in questi pochi giorni. Speriamo di poterla vedere il giorno dopo, alla funzione ufficiale per l'8 marzo.
In Ambasciata Maria Pia Draghi ci parla della situazione degli aiuti umanitari, dal punto di vista della cooperazione. L'Italia è uno dei paesi donatori con 45 milioni di Euro nel 2002 che verranno destinati, pare, al rimpatrio dei rifugiati (per ora solo poche centinaia di famiglie) e agli aiuti alimentari. Ci dice anche che per ora i programmi delle diverse ONG che si sono riversate sull'Afghanistan sono limitati (che ci fanno allora tutti questi cooperanti in giro per la città?), e che il grosso del lavoro dovrebbe essere svolto dall'ONU. Si vuole procedere lentamente, il rientro dei rifugiati e l'impatto con il "modello occidentale" potrebbe costituire un trauma ulteriore per la popolazione e il paese.
Maria Pia ci parla anche di una iniziativa del PAM (programma mondiale per l'alimentazione): già dal 1998 avevano avviato l'apertura di forni gestiti da vedove. A Kabul ci sono circa 20 forni che impiegano una quindicina di donne ciascuno: il pane viene venduto ad altre donne a un prezzo simbolico. L'operazione pare abbia funzionato molto bene e il PAM vuole ora estendere l'iniziativa anche a Mazar-i-Sharif e ad altre località.
Chiedo che cosa sta succedendo nel resto del paese, fuori da Kabul, e la risposta è chiara: per ora intervenire fuori da Kabul è molto difficile, se non impossibile, le guerre intestine sono ricominciate e controllare la situazione non sarà cosa da poco.
A Kabul, ci dicono, ci sono anche un gruppo di clown (un gruppo che opera in Italia negli ospedali) mandati e sponsorizzati dal comune di Roma. Girano con il loro show tra ospedali locali e strade, devono produrre un video: ma perché proprio dei clown a Kabul? Scopriamo che hanno avuto diversi problemi gli afghani non hanno mai visto dei clown in vita loro e invece di rallegrarsi subiscono uno shock culturale, toccano le donne mascherate, si infastidiscono Non ho parole per commentare la costosissima iniziativa
Maria Pia ci dà appuntamento per il giorno successivo, in Ambasciata ci sarà una festa con pizza per l'8 marzo.

Kabul, 8 marzo, giornata della donna
Raggiungiamo il luogo in cui si svolgerà la funzione per la giornata della donna: la città appare presidiata dai militari dell'ISAF, sfrecciano macchine con la scorta; man mano che ci avviciniamo vediamo tante donne con la burqua che si avviano a piccoli gruppetti verso l'ex cinema Zaima (un nome femminile), scelto come luogo simbolico perché venne bruciato dai Talebani proprio a causa del nome. Due file di soldati del neonato esercito straccione fanno da ala all'ingresso, le donne nell'entrare si tolgono la burqua, vengono perquisite, poi entrano nella devastata sala arredata in pompa magna per l'occasione.
Ma non ci sono solo donne, anzi: ci sono i militari dell'ISAF (tanti), i ministri (fondamentalisti e non) del governo ad interim con le loro scorte, gli uomini delle scorte delle varie ambasciate, fotografi, giornalisti, cineoperatori. L'attesa è lunga, si aspetta l'arrivo di Karzai, di Sima Samar, di Mary Robinson, di Brahimi. La cerimonia inizia, ogni intervento è intervallato da una annunciatrice (una donna che lavora per il canale televisivo locale appena riaperto, che trasmette, mi pare, per un'ora al giorno) che presenta gli oratori e declama poemi. Parleranno in molti: Sima Samar, Karzai, Brahimi, una rappresentante di UNIFEMME, Mary Robinson, il ministro dell'istruzione, altri. Nei discorsi passano naturalmente tutti messaggi di speranza, si vuole sottolineare che ora che il paese è stato liberato dai Talebani e dal terrorismo ci sono le condizioni per avviare un processo di pace e stabilità (????), si può finalmente ragionare di lavoro, educazione, sanità per le donne (nel suo complesso il paese ha l'87% di analfabetismo). Samar chiede l'unità di tutte le donne per far sì che le loro istanze vengano ascoltate, Brahimi ringrazia gli stranieri presenti, dice che finalmente ora si può ricominciare ma ricorda che lo si deve fare con cautela, senza imporre piani dall'alto ma rispettando i tempi e i modi imposti dalla religione e dalle condizioni del paese; Mary Robinson promette che l'ONU agirà nel rispetto delle tradizioni del paese, che i diritti umani vanno ripristinati, e questo deve avvenire a partire dalla condizione femminile: il ruolo delle donne sarà fondamentale in questo processo.
Tutto sacrosanto, ma perché negli anni passati non ci siamo occupati di diritti umani e diritti delle donne in Afghanistan? Perché la "comunità internazionale" in questi anni non si è preoccupata di sostenere tutte quelle donne che senza mezzi e a rischio della loro vita hanno continuato a lavorare e lottare per conquistarseli questi diritti? Perché le donne devono ancora oggi proteggersi sotto la burqua?
Dietro di me è seduta S. P., intellettuale afghana del partito filosovietico della mezza luna rossa: le donne di questo partito hanno lavorato tutti questi anni con il passaparola, si sono organizzate, hanno cercato di resistere: dopo la cacciata dei Talebani 2000 donne si sono radunate a Kabul per dire basta alla burqua. Purtroppo non ho modo di chiacchierare con lei molto a lungo: parla dari (e traduce per lei un signore afghano che le siede accanto e che parla un francese non troppo comprensibile), la funzione sta per iniziare e un uomo della sicurezza chiede al traduttore di non importunarmi. Soraya riesce a comunicarmi che nel pomeriggio ci sarà un incontro di donne all'hotel Intercontinental al quale decidiamo di partecipare. H. ci dirà che secondo lei è pagata dai russi: si affaccia la sensazione che non basterebbero 2 anni per capire meglio come è composto il frastagliatissimo universo di donne che si muove qui, chi sono, che rapporti hanno tra loro, chi le paga (se sono pagate da qualcuno), a che livello agiscono.
Per tutto il tempo mi guardo in giro per incontrare lo sguardo di S., di RAWA, ma senza esito, e dispero che sarà possibile incontrarla: credo di capire le ragioni per cui RAWA ha deciso di non essere presente qui. I rischi sono troppi, non vogliono correrli e credo abbiano le loro buone ragioni.
Finita la funzione usciamo e accompagnate da H. e dal nostro autista facciamo un giro della città: la zona industriale distrutta, le strade dissestate (mi domando se qui si viaggia a destra o a sinistra; in realtà si viaggia zigzagando tra le voragini dell'asfalto, quando c'è), i quartieri rasi al suolo, la polvere, il fango, la miseria, la curiosità nei nostri confronti. I ritratti di Masoud piazzati ovunque (murales, cartoline, tappeti, sciarpe) lasciano intuire chi, oggi, detiene il potere qui. H. non smette di ricordarci che in Afghanistan il potere ce l'ha chi possiede più armi. La nostra accompagnatrice cerca di farci immaginare com'era la città: qui c'erano i giardini dove, quando frequentavo l'università, passeggiavo col mio fidanzato (ora mio marito), qui c'era un sanatorio, qui un palazzo antico, qui un parco, qui un quartiere residenziale, qui è tutto distrutto, purtroppo. Tutto distrutto. Ci fa notare delle scritte verdi che qui e là appaiono sui moncherini dei muri: dicono "Attenzione, mine". Tutto distrutto e minato.
Passiamo accanto al famigerato stadio delle esecuzioni. Decidiamo di entrare per dare un'occhiata seguite da una cinquantina di afghani curiosi; via via il gruppo si fa più folto, meglio andarsene anche perché qualcuno si è irritato per il fatto che due di noi cercano di scattare delle foto e si avvicina minaccioso e armato (un'arma sgangherata come tutto il resto: sarà funzionante o solo uno strumento per minacciare?) dicendo che non si può fotografare e che ce ne dobbiamo andare.
Ci facciamo allora accompagnare a cambiare qualche dollaro in moneta locale (gli afghani); dobbiamo ricorrere al cambio nero (credo non ci sia altra possibilità). Ci danno una grossa mazzetta in cambio del biglietto da 50 dollari che ciascuna di noi decide di cambiare!
Ci avviamo verso l'Intercontinental dove si svolge il convegno di donne di cui mi aveva parlato Soraya la mattina: una sorta di tavola rotonda, che vuole essere la continuazione della conferenza di Bruxelles, il cui sponsor è il gruppo di Eve (la stessa donna americana incontrata sull'aereo). Si fatica a capire i che cosa parlino perché ci affidano un traduttore che si dimentica una parola su due (capiamo che è un incontro interlocutorio, ognuna di loro si presenta e parla di sé): decidiamo di non fermarci, H. invece resta ma ci dirà che alcune donne presenti erano aderenti a partiti fondamentalisti, altre a partiti filosovietici e si lanciavano accuse e frecciate. Il resto erano donne "semplici": insegnanti, studentesse, impiegate, convenute per raccontare le loro storie. Chiediamo ad H. se valeva la pena di fermarsi e lei ci risponde di no.
Torniamo a casa giusto in tempo per trovare un biglietto di S. che annuncia che passerà da casa alle cinque di pomeriggio: è incredibile, siamo a casa per coincidenza e sono le cinque meno dieci. Siamo felici di poterla incontrare. S. arriva con un'altra donna e un traduttore/guardia del corpo (io sono felice di scoprire che continua a capire il mio inglese!). Chiediamo come hanno fatto a trovarci e la risposta è evasiva misteri di Kabul!
Sono molto impegnate, nelle ultime settimane hanno fatto distribuzione di cibo negli orfanotrofi di quattro diverse provincie e lo stesso hanno fatto anche oggi, nella giornata della donna. Simona chiede perché non hanno voluto essere presenti alle riunioni ufficiali di oggi: ci fanno capire che per loro i rischi sono ancora troppo grossi, che la città non è sicura, che le diverse fazioni ora al potere stanno ricominciando a fronteggiarsi, armi alla mano, naturalmente (ma questo ce lo avevano fatto capire anche Mauro, Andrea e pure Maria Pia) e qualsiasi oppositore costituisce una minaccia (e loro sono considerate oppositori, viste le continue denunce che fanno sui crimini di questi "signori della guerra"). Hanno poco tempo, poco più di mezz'ora, rimaniamo d'accordo che l'indomani, nel pomeriggio, ci porteranno a visitare una chicken farm (un pollaio, forma di microcredito per donne), e un paio di scuole di alfabetizzazione.
La sera andiamo alla in Ambasciata festa per l'8 marzo: le prime persone a cui mi presento sono alcuni operatori dell'INTERSOS, agenzia di sminatori lì per fare training agli sminatori afghani che devono imparare a disinnescare le cluster bombs lanciate dai bombardieri americani e a cercare di localizzare i siti dove sono stati lanciati questi ordigni. Solo pochi giorni fa 23 bambini di una scuola nei paraggi di Kabul sono saltati su una cluster e sono tutti gravemente feriti e mutilati (li vedremo poi nella nostra visita all'ospedale di Emergency).
Il capo di questa agenzia di sminatori mi dice che non si possono allontanare più di 20/30 km da Kabul per fare i loro sopralluoghi perché è troppo pericoloso, che gli americani non dicono dove hanno sganciato queste bombe (e secondo lui non lo faranno prima di un paio d'anni: - Anche in Kosovo ­ mi dice, - abbiamo saputo dove state lanciate le cluster solo un anno e mezzo dopo), e che dove le hanno localizzate hanno rilevato la presenza di 8-9 frammenti inesplosi in circa 30 metri quadri. ­ Inoltre ­ aggiunge ­ sono fosforescenti e hanno un piccolo paracadute giallo in fondo, così i bambini ne sono attratti.
Gli chiedo se secondo lui aveva senso bombardare, quando poi solo la popolazione ne sta pagando le conseguenze, soprattutto dopo 24 anni di guerre e dove sembra, anche a un primo sguardo, che non molto sia cambiato. Mi dà ragione.

Kabul, 9 marzo
Oggi piove e fa freddo, le strade, con la pioggia, si riempiono di fango scivoloso. H. arriva un po' in ritardo, oggi dobbiamo ancora fare un sacco di cose e ci accorgeremo che una normale pioggia renderà tutto più complicato.
Partiamo e con noi viene anche Mauro, che farà delle foto alla scuola di Hawca. La scuola si trova in una zona che, una volta, doveva essere stupenda, a pochi passi dal palazzo reale, dove, ci dicono, c'era un gosso parco. Ora resta questo piccolo insediamento umano fatto di poche case di fango, molto vicine a un quartiere completamente distrutto e minato. Il fango arriva alle caviglie. La scuola è formata da due classi, una formata da bambini e ragazze più adulte e una dove in pochi metri quadri si accalcano 45 bambini di età e livello scolastico differente. Ci accolgono stupiti: chi sono queste donne arrivate da così lontano per visitarli? Sembrano un po' straniti ma poi si sciolgono e ridono. Gli facciamo qualche domanda. Sono felici di avere la possibilità di studiare ma hanno paura che la scuola chiuda. A Kabul le scuole pubbliche stanno per riaprire e forse non avrebbe senso portare avanti questi corsi, ma questa è una zona talmente sperduta che per loro diventerebbe impossibile raggiungere la scuola più vicina. H. li rassicura: faremo il possibile per andare avanti. Questi corsi erano cominciati grazie all'iniziativa di una maestra: poi Hawca le ha garantito un minimo di stipendio e una piccola fornitura di materiale didattico, così ha continuato con loro.
Dobbiamo andare, ci aspettano in un'altra scuola, ma il nostro pullmino è finito con una ruota in una buca di fango e ha bucato: Spingiamo tutti insieme per farlo uscire dalla melma ma non è finita: la ruota di scorta c'è ma è sgonfia e così il nostro autista si carica la ruota su una bicicletta presa in prestito da un uomo del villaggio e va a cercare (dove?) qualcuno che gliela gonfi: noi ci avviamo a piedi, in quella desolazione di fango, verso la strada più vicina, dove speriamo di trovare un taxi che ci riporti a casa (valutiamo, nel frattempo, che non c'è più tempo per visitare l'altra scuola di Hawca).
Il giornalista di "Repubblica" che abita di fronte a noi ci presta la sua macchina per andare a casa di H., che ci ha invitate a pranzo: buchiamo di nuovo e questo ci toglie altro tempo al pranzo e alle chiacchiere con H. e suo marito. Ci hanno preparato un pranzo principesco e ci dispiace molto non trattenerci ma purtroppo dobbiamo scappare: S. ci aspetta a casa.
A casa decidiamo di dividerci: due di noi andranno con S. a visitare le loro attività e le altre a visitare l'ospedale di Emergency, dove abbiamo appuntamento alle cinque del pomeriggio.
Io sono tra queste ultime. L'ospedale è un posto incredibile: attraversi i cancelli e ti sembra di non essere più a Kabul. Prima di essere un ospedale dà la sensazione di essere un luogo di pace, pulito, dignitoso, accogliente. Visitiamo i reparti dove sono ricoverati i bambini e le donne: abbiamo anche per loro quadernini colorabili, matite e caramelle. Ci accolgono tutti, anche i più sofferenti (e non si scherza, qui, quando si parla di sofferenza), con un sorriso, con una parola. Sanno di essere tra amici, hanno voglia di una carezza, di uno sguardo. H. sembra non credere che dentro alla sua città in rovine esista un luogo di questo genere: si commuove per le aiuole di fiori che ci sono nel giardino del complesso di edifici.
Sono le sei e mezza, il tempo sta per scadere: abbracciamo forte H. e, dopo esserci assicurate che sia salita su un taxi che la porterà a casa, andiamo a casa di Gino Strada per fargli un saluto, poi di corsa in Ambasciata a ritirare i passaporti e a casa, dai nostri ospiti.
Finiamo la serata con Mauro e Andrea, non riusciamo a smettere di parlare di come vanno le cose in questo posto, Andrea cerca di tracciarci un quadro politico della situazione; si fatica a seguire i suoi racconti che descrivono in dettaglio i movimenti delle varie milizie al soldo dei diversi signori della guerra, le mosse degli americani per garantirsi l'appoggio di questa o quella tribù o milizia. L'unica cosa davvero chiara è che qui la guerra non è finita, sta solo ricominciando una nuova fase, e per i poveri civili cambierà poco.
Mi rimane una forte sensazione di impotenza.

Kabul, 10 marzo
Alle cinque del mattino la casa dove dormiamo (e suppongo anche tutte le case circostanti) viene scossa dal frastuono e dal movimento d'aria delle pale di un elicottero che, immagino, starà volteggiando a pochi metri dai tetti. Per tutte noi è un po' uno shock anche se immagino che basterebbe stare qui per qualche giorno ancora per non fare più caso a questo genere di cose.
Alle 7.30 salutiamo e ringraziamo i nostri ospiti e il nostro autista ci accompagna all'aeroporto: alle nove il piccolo velivolo della TCF riprenderà la via di Islamabad (evviva la modernità!), non prima di aver lasciato giù una passeggera (i malandrini avevano fatto un eccesso di prenotazioni); può sembrare assurdo, ma andarmene da qui così presto mi dispiace.