I CRIMINI DELL'ALLEANZA DEL NORD VISTI CON GLI OCCHI DI UNA MADRE AFFRANTA


gennaio 2002, da RAWA, traduzione di Noemi Cucchi

 

Nei quattro lunghi anni durante i quali i criminali del Governo Islamico dell'Afghanistan sono rimasti al potere a Kabul, decine di migliaia di civili, tra cui il figlio di questa donna, sono stati uccisi. Secondo fonti internazionali, negli stessi anni, solo a Kabul, hanno perso la vita cinquantamila persone e diecimila sono rimaste ferite o mutilate. Le nostre fonti rivelano cifre reali molto più alte.

Fazioni opposte si combattevano in diversi punti della città. Sotto gli assassini del Governo Islamico dell'Afghanistan, Kabul fu ridotta in cenere, in un orrendo bagno di sangue. I fondamentalisti non si limitarono agli omicidi di massa. Stuprarono donne e ragazze, torturarono minoranze etniche, diedero fondo alle risorse statali e saccheggiarono le proprietà pubbliche. Stipavano i prigionieri in container d'acciaio e li bruciavano vivi, dopo aver conficcato chiodi nelle loro fronti. L'Afghanistan non era mai stato testimone, in tutta la sua storia, di atrocità simili commesse contro civili indifesi.

Purtroppo il mondo dimentica facilmente gli omicidi di massa, trincerandosi dietro penosi silenzi e amnesie di comodo.

I principali responsabili dei crimini sono stati i gruppi armati di Dostum, Gulbuddin, Ahmad Shah Massud, Rabbani, Sayaf e Khalili dell'Hizbe Wahdat (Fronte Unito). Oggi, la maggior parte di loro è riunita sotto il vessillo dell'Alleanza del Nord ed è considerata alleata dall'Occidente. Ma la gente di Kabul non potrà mai dimenticare le atrocità commesse in quegli anni. Qualcuno potrà forse credere che sia meglio chiudere tutti e due gli occhi di fronte a tale orrore. La storia, però, non è cieca.

I leader dell'Alleanza del Nord devono essere trascinati davanti ad un tribunale e trattati come Milosevic e i suoi simili, giudicati per crimini di guerra.

RAWA ha chiesto a una madre afgana di far conoscere la sua storia davanti alla videocamera. Ci ha raccontato la perdita dell'amatissimo figlio, assassinato pochi mesi dopo che i fondamentalisti avevano preso il potere a Kabul, il 28 aprile 1992.

Quella che segue è la trascrizione da video di quanto ci ha raccontato nel suo antico dialetto, senza aggiunte o omissioni. L'intervista è stata filmata da RAWA nel 1999.

"Era il 19° giorno del mese del Leone, nell'anno 1371 (calendario solare islamico: 10 agosto 1992). A Kabul infuriava la battaglia tra i signori della guerra Gulbuddin e Dostum.

Intorno alle sette del mattino un gruppo di persone stava andando a comprare il pane dal fornaio all'angolo della strada. C'erano circa otto, dieci persone in attesa di fronte alla panetteria. Ancora prima che avessero il tempo di prendere un solo pezzo di pane, un razzo, lanciato da Gulbuddin, il traditore, esplose all'incrocio lì vicino. Un frammento colpì mio figlio Khwaja Farid in pieno petto, scaraventando lontano il suo cuore. Lo uccise sul colpo. Anche mio genero fu ferito. Un ragazzo di forse 23, 24 anni, venuto a prendere sua zia per convincerla a lasciare il quartiere, fu ucciso e frammenti del suo corpo sparsi tutt'attorno in mille pezzi. In quello stesso giorno nel mio quartiere rimasero uccise o ferite altre 31 persone. La battaglia infuriava con durezza.

Le truppe di Dostum e il suo clan si muovevano sopra e dietro le nostre case. Dalla parte opposta, a fronteggiarli, c'erano i soldati e il clan di Gulbuddin. La battaglia era così tremenda che per due giorni e una notte non potemmo portare fuori di casa il corpo senza vita del mio bambino.

Dio vi scampi da cosa è stato di me e della la mia vita dalla caduta di quel razzo.

Era stato lanciato da Gulbuddin, il traditore. Stavamo facendo colazione quando il razzo colpì e uccise il mio bambino, devastando l'entrata della panetteria. Lo sentimmo esplodere. Corsi fuori di casa ma non c'era nessuno, né il padre, né i fratelli o le sorelle. La gente correva scalza verso l'incrocio. Mentre correvo disperatamente, a piedi nudi e senza velo, verso l'incrocio, vidi uno dei miei figli portare in braccio suo fratello. Completamente coperto di sangue, dalla testa ai piedi. I fratelli, le sorelle e il padre stavano tremando. La gente del quartiere, chi conosceva, anche solo di vista, mio figlio piangeva. Gli corsi incontro ma era già stato ucciso. Il padre gridava: "Tuo figlio è morto, tuo figlio è stato ucciso, ha dato la vita per te". Correvo verso il mio bambino ma non respirava già più. Lo portarono a casa e lo lasciarono nel porticato. Un vicino disse: "Per l'amor di Dio, portiamolo dentro". Lo presero e lo portarono in casa. Mia madre e i miei fratelli vivevano in un altro quartiere. Anche lì il fuoco infuriava. Nessuno di loro poté scendere in strada e venire da noi per seppellire mio figlio. Verso le sei del pomeriggio il nostro quartiere fu circondato dai soldati di Dostum. Un nostro vicino venne da noi e ci disse: "Nascondete le ragazze! Le truppe di Dostum stanno rastrellando le case." Mio figlio e la moglie erano sposati da un anno e mezzo. Li facemmo scendere nel sottoscala e ne nascondemmo l'entrata. Rimasi nella stanza con mio marito e l'altro figlio. Dal tramonto all'alba del giorno seguente non potei fare altro che piangere e gridare per il povero corpo senza vita di mio figlio, costretto a rimanere due giorni e una notte dentro quella stanza.

Gli uomini di Dostum stravano rastrellando il quartiere, passando di tetto in tetto e calandosi dentro le case ogni volta che c'era la possibilità di predare e stuprare. Dal tetto della nostra casa sentii qualcuno gridare: "Smettila! Cos'hai da piangere?" Gridai a mia volta: "Davanti a me giace il corpo senza vita di mio figlio intriso di sangue, perché non dovrei piangere?" Rispose: "Dio ti darà la pazienza. La battaglia è dura. I morti e i feriti sono tanti. Devi sopportare tutto questo e darti una calmata." Gli risposi: "Nessuno può stare calmo in tempi come questi" Il padre, mio marito, disse: "Fate smettere questo combattimento, fateci seppellire nostro figlio". Replicò: "Dio è misericordioso." Quella stessa notte scesero ancora nelle case, saccheggiarono e stuprarono altre ragazze.

Il mattino dopo, verso le 10, arrivarono alcuni vicini, che non erano parenti né miei né del padre (mio marito), e due miei nipoti. Mi dissero: "Cara zia, non abbiamo altra soluzione che cercare di fare una bara con il legno che possiamo riuscire a trovare. Un falegname ce l'abbiamo." Tornarono a casa e costruirono una bara ma non riuscirono a tornare da noi perché si sparava ancora troppo.

Non lavammo il suo corpo. Lo misero nella bara e ci dirigemmo verso il cimitero sotto una pioggia di spari. Pallottole vaganti sfiorarono gli altri miei figli mentre scavavano la fossa al fratello. Uno dei vicini fu ferito.

La mattina dopo, il terzo giorno, mio fratello, con grandi difficoltà, arrivò da Khair Khana, mentre i bombardamenti infuriavano ancora. Ci disse: "Venite a casa nostra prima che uccidano qualcun altro."

Il mattino seguente i miei due figli e mio marito partirono con mio fratello verso casa sua. Lasciammo le chiavi di casa ad un vicino, spiegandogli che ce ne stavamo andando. Lasciammo tutte le stanze aperte, portammo con noi solo una grande valigia.

Prima dell'incrocio fummo fermati dai soldati di Dostum. Ci dissero: "Non passate di qua, l'incrocio potrebbe essere colpito da altri razzi. Passate per il vicolo posteriore, è più sicuro." Appena fummo nel vicolo ci derubarono. Prima tolsero a mio figlio l'orologio dal polso, poi presero i borsellini di mio marito e mio fratello. Alla fine arrivammo a casa di mio fratello, passando di vicolo in vicolo, superando difficoltà indicibili e rischi immensi.

Solo più tardi sapemmo che le truppe di Dostum erano entrate nella nostra casa buttando giù la porta principale e derubandoci di tutto ciò che avevamo, rompendo gli specchi nelle stanze e aprendo tutte le borse.

Dopo Dostum, non tornammo mai più a casa nostra. Stavamo nelle case degli altri. Fino ad oggi, non abbiamo fatto altro che vagare da un posto all'altro. La mia famiglia ha sofferto molto ma il dolore per la perdita del mio bambino ci tormenta più di ogni altro. È sempre davanti ai nostri occhi, ogni secondo, ogni minuto, sempre. Che altro c'è da dire?"

Tacque, sopraffatta dal dolore, schiacciata dalla sua pena.