NEL CAMPO PER RIFUGIATI I-11/4 DI ISLAMABAD.
UN REPORTAGE SCONCERTANTE CI FA ENTRARE NELLA VITA QUOTIDIANA DI UN CAMPO PROFUGHI


febbraio 2002, da Hawca. Traduzione di Laura Pucci.

 

Per i residenti di I-11/4 che vogliono mandare i loro figli a scuola, gli ostacoli sono enormi. All'Unità Letteraria pakistana, Shaista Abassi conduce 80 bimbi attraverso l'alfabeto. Siedono spalla a spalla nello sporco cortile, alcuni con libri e matite, altri seguendo meglio che possono. Questa è una delle due scuole pubbliche della comunità, entrambe finanziate dall'UNICEF che qui spende 2000 dollari all'anno per pagare gli stipendi di tre insegnanti.
"Quando chiediamo all'Autorità Centrale di Sviluppo di costruire più scuole" dice Shaista, "ci dicono che questa comunità è temporanea, che la demoliranno presto, e che quindi non c'è bisogno di costruirvi scuole".
Il direttore della ACD comunale, Syed Mustafain Kazmi, conferma le sue parole. "Questi sono abusivi ­ spiega ­ non c'è alcuna legge che dice che dobbiamo fornire i servizi primari a degli abusivi". Il risultato: 260 scuole pubbliche per 125.000, queste le stime, bambini della comunità.

Secondo Kazmi, che sovrintende l'area per conto dell'Amministrazione comunale, I-11/4 è "la comunità più pericolosa in tutta Islamabad. . . Gli Afghani hanno causato così tanti spaccature nella nostra società ­ dice ­ sono coinvolti in ogni tipo di condotta immorale: prostituzione, dongiovannismo; ci hanno portato la cultura del Kalashnikov, dell'eroina e dell'illegalità." E, la settimana scorsa ha detto in un'intervista che i loro giorni a diffondere danni sono contati. E' già pronto un piano per trasferire la comunità con la forza, con camion e soldati, ad una remota tendopoli vicino al confine afgano, a centinaia di miglia da qui. "Allora capiranno che non possono andare dove vogliono in questo paese" ha spiegato Kazmi.

Kudrat-Ullah siede sul pavimento della sua casa di fango a I-11/4 e considera la triste piega che ha preso il suo destino. La casa a due piani a Kabul non c'è più, così come i cinque acri a frumento, il suo vigneto e tutto il bestiame. Si guarda intorno nella stanza vuota dove vive con altri sette componenti della famiglia. "Abbiamo solo in nostri vestiti addosso" ­ dice ­ "Abbiamo perso tutto il resto".
La storia di Kudrat-Ullah è complicata, forse tipicamente complicata. Egli è arrivato la prima volta in Pakistan circa 12 anni fa ed è tornato nella sua terra due volte solo per esserne cacciato. Il suo tempo in Pakistan è stato una serie di soggiorni temporanei, vivendo in capanne di fango o tende. Come moltri altri qui, ha una carta d'identità sbrindellata e sbiadita proveniente da una delle molte milizie di mujahidin che un tempo dominavano l'Afghanistan. Ha combatto con il signore della guerra Rabbani contro i sovietici, racconta, e "Ora i sovietici sono amici di Rabbani" aggiunge. Quattro anni fa Kudrat-Ullah ha tentato il suo personale "riallineamento", con i Talebani. "Ma hanno scoperto che avevo combattuto contro di loro, mi hanno cacciato, hanno tagliato i miei alberi e demolito la mia casa". Così è ritornato un'altra volta in Pakistan e ha concluso le sue peregrinazioni a I-11/4.
Ha corrotto gli ispettori dell'ACD, spiega, e loro gli hanno permesso di costruire una casa di fango ai bordi della comunità. In Afghanistan, il suo vicinato era composto da un'estesa famiglia di parenti e gente del clan. Famiglia dopo famiglia, essi hanno cominciato ad arrivare alla spicciolata a I-11/4. Oggi il vicinato di Kudrat-Ullah a Kabul si è ricostituito, eccetto per i possedimenti, la cittadinanza e le prospettive di lavoro, in questo insieme di edifici dal tetto di paglia che è cresciuto fino ad ospitare circa 50 famiglie.

Circa 50.000 uomini e ragazzi trovano lavoro nel mercato della frutta che sta nei dintorni, la grande maggioranza di loro sono afgani. Kudrat-Ullah è sulla quarantina, è magro con polsi ossuti e guance affossate. I mercanti e i camionisti scelgono per primi gli uomini più giovani, così Kudrat-Ullah riesce a lavorare solo tre giorni alla settimana trasportando scatole di prodotti. La sua paga è di 60 rupie al giorno, ovvero 97 centesimi di dollaro. Ha dieci figli, il più giovane, quello per cui è più preoccupato, ha solo due anni. L'intera famiglia è malnutrita e sua moglie ha poco latte per il piccolo. Non ci sono soldi per il latte in polvere, ma per fortuna il bambino è fuori dall'età a rischio: ha appena iniziato a mangiare cibi solidi. Così lo possono nutrire con bucce di banana e di melone schiacciate, quello che molte famiglie qui sono costrette a fare per mantenere in vita i propri figli.

Il dottor Raheemullah Aalamy, un laureato della Facoltà di Medicina dell'Università di Kabul che dirige una piccola clinica dal pavimento sporco situata nella colonia, riferisce che ha visto 500 neonati morire negli ultimi due anni, la maggior parte di tifo, malaria e dissenteria, tutte malattie prevenibili causate per lo più dalla mancanza di impianti igienici.
Egli indica un piccolo rivolo di urina e feci appena fuori dalla sua porta, a pochi passi da dove una dozzina di pazienti sta in attesa. "Questo fa parte del problema" dice. Le sporchissime strade della colonia sono interotte da fogne a cielo aperto, terreno di coltura per batteri e zanzare che diffondono malattia e morte nella comunità.

A I-11/4 i bambini maschi possono significare la differenza tra morire di fame e sopravvivere: all'età di quattro anni, vengono mandati per le strade a caccia di frutta e vegetali marci. Tra i sette e gli otto anni, possono ottenere un lavoro modesto, 20 centesimi per fare una commissione o vendere cibo per la strada. A 10 anni iniziano a far soldi davvero, trasportando prodotti o scaricando camion per 75 centesimi al giorno. Con un marito e tre o quattro figli maschi che lavorano a tempo pieno, una famiglia può portare a casa circa 3 dollari al giorno. Le bambine stanno a casa per aiutare a cucinare, portare acqua e accudire i bambini più piccoli. Ragazzine di sei e sette anni vagano per le strade con infanti issati sui loro fianchi.

I figli di Kudrat-Ullah non sono sicuri della loro età, Assad-Ullah pensa di avere 10 o 11 anni, Aziz-Ullah è sicuro di averne otto. I due lasciano la casa prima dell'alba, nel freddo e nel buio, per unirsi ad un enorme folla che si dirige al mercato della frutta e verdura. Eccetto che per il suono smorzato di migliaia di piedi, le strade sono di un silenzio inquietante. Di tanto in tanto passa una macchina e allora si possono vedere le ombre di centinaia di bambini e altrettanti uomini proiettate nei polverosi raggi di luce.
C'è una moschea ai piedi del mercato. La maggior parte dei giorni i ragazzi si fermano a pregare, ma oggi sono in ritardo. Aziz-Ullah avanza nel buio con un gruppo di ragazzini per comprare il suo stock di borse di plastica. Vagherà per il mercato quasi tutta la giornata, rivendendo poi le borse con un piccolo sovraprezzo, forse 25 centesimi.
Assad-Ullah si mette in fila con una dozzina di altri ragazzi di fronte ad una cantina buia. Un uomo sulla porta scrive un numero sulla sua mano e il ragazzo scompare abbassandosi nella cantina per arrivare in una stanza con uno stretto corridoio e banane appese al soffitto. Ogni ragazzo si mette sulla testa un cesto di vimini e si mette in fila di fronte all'uomo che lo riempe con grossi carichi di frutta.
Ogni carico di banane pesa circa 25 libbre e i ragazzi, alcuni ben più piccoli di Assad-Ullah, si fanno strada con attenzione attraverso i vicoli fino alla strada e all'area di vendita. Il tragitto non è lungo, forse otto miglia dall'inizio alla fine. Ma le strade si riempiono presto di carretti, cavalli e furgoni colorati che strombazzano il clacson, e il terreno diviene scivoloso per via degli ortaggi schiacciati.

Il capo di Assad-Ullah è un pakistano grasso e barbuto. Il prezzo delle banane viene alzato e abbassato da un minuto con l'altro e una fornitura veloce è essenziale per i suoi profitti. Egli urla ai ragazzi, insultandoli e colpendoli con una frusta. C'è anche altra violenza: varie volte bombe sono esplose nel mercato affollato. I morti sono di solito meno di una mezza dozzina e gli afgani sembrano poco preoccupati del pericolo. E poi ci sono i ragazzi con cui contendere. Assad-Ullah è timido e di temperamento mite, ma molti non lo sono. Durante tutto il giorno, decine di bambini si prendono a calci e pugni o si strappano i cesti dalle mani. Gli adulti contribuiscono occasionalmente al tumulto con uno schiaffo o un calcio. Dappertutto ci sono gruppi di bambini, alcuni non molto più in là dell'infanzia, che lottano per i frutti che cadono dai camion, o frugano in pile di rifiuti.

Interpellato sulla presenza di migliaia di bambini al lavoro nel mercato, Akbar Hayad, amministratore del Mercato di frutta e verdura di Islamabad spiega: " Gli afgani sono essenzialmente povera gente, così spediscono il loro bambini al lavoro. Quanto alle scuole, non ci sono accordi al riguardo". E aggiunge con un sorriso "Non esiste una legge che impedisce loro di avere così tanti figli. Penso che sia l'unico divertimento che hanno".

Alla fine della giornata di lavoro, Assad-Ullah riceve 40 rupie e inizia a frugare le strade alla ricerca di prodotti giudicati troppo rovinati per la vendita. Ciò che qui viene venduto come prodotto commestibile scioccherebbe un consumatore americano, i prodotti danneggiati hanno un aspetto allarmante: frutti ed ortaggi anneriti, rotti, verminosi e ricoperti di mosche.
I bambini più piccoli hanno arraffato i pezzi migliori ma Assad-Ullah è riuscito a trovare tre mele mangiate dai vermi e alcune arance malconcie. Suo fratello, lavorando al mercato della verdura, ha fatto di meglio. Ha recuperato mezza dozzina di pomodori, alcune carote e una patata. I pomodori sono parzialmente anneriti dal marciume e le mosche li ricoprono. I ragazzi orgogliosi portano il cibo e i guadagni alla madre. Le verdure verranno pulite e aggiunte ad uno stufato, con i soldi raggranellati oggi dai bambini la famiglia comprerà farina e riso.

A Peshawar Adrogal riposa sulla sua coperta e spera in una vita migliore. E qui, a Islamabad, Kudrat-Ullah, il padre dei ragazzi, dice che molte notti non ce la fa a dormire. Sta seduto sveglio pensando che potrebbe sfamare la sua famiglia se solo potesse avere un piccolo pezzo di terra da coltivare. Per riguadagnare la vita che un tempo conduceva in Afghanistan, questo è il suo obiettivo. O almeno essere seppellito nella sua terra natale. "E' un gran peccato per noi essere sepolti qui in Pakistan", dice.

Al mattino un gruppo di uomini cammina lentamente lungo la strada principale di I-11/4, fra gli autocarri rombanti, i conducenti dei carri che frustano i loro cavalli scontrosi e nuvole di polvere e diesel esausto. Di fronte alla processione c'è un uomo da solo. Nelle braccia regge un piccolo fagotto bianco. Uno straniero guarda la processione con aria interrogativa. "E' un funerale ­ spiega uno del posto ­ quello è suo figlio che è morto".