LA TRINCEA PIU' GRANDE
DEL MONDO
Misfatti
integralisti, imperialismi e resistenza della società civile
nella storia recente d'Afghanistan
gennaio 2002, di Walid Karim.
Traduzione a cura di Iemanja'.
Un giornale ci descriveva come un'equipe di lavoratori afghani della Croce Rossa facevano il conteggio dei cadaveri di un massacro a Mazar-e-Sharif:
"Il miliziano talebano era il numero 65; solo le due gambe indicano che una qualche volta è stato un essere umano"
Il commento non è una sfida per un'analisi mediamente serena. Mostra pienamente che c'è qualcosa che ci vogliono far inghiottire o che ci viene nascosta. Primo, ci si dice che senza nessun dubbio il corpo appartiene a una fazione concreta la nemica -, per aggiungere dopo che non è riconoscibile neanche quasi come umano.
Cominciando dal fatto che i miliziani talebani non portavano uniforme, sebbene sia certo che il morto avrebbe potuto essere uno di loro, non lo è meno che potrebbe anche essere stato un pastore di capre, un medico o un venditore di legumi del mercato. D'altra parte, l'enunciato criminalizza la vittima e discolpa il criminale: con "talebano" che apre tutta la frase, si passa a un secondo concetto ovvio che il morto è stato brutalmente assassinato, chiunque egli fosse. Dov'è il resto dell'uomo? Che hanno fatto di lui? Come l'hanno annientato? Perché? C'è solo una risposta chiara ed è chi ha commesso l'orribile atto (uno tra molti): la cosiddetta Alleanza, l'Alleanza del Nord. Però questa realtà, ora, sembra sia irrilevante.
Irrilevante allo stesso modo è stato quando solo cinque anni fa i giovani "studenti di teologia" o talebani entrarono a Kabul istituzionalizzando la misoginia fino a limiti che difficilmente incontrano analogie nella storia degli ultimi secoli dell'umanità. Tanto poco importante che nell'anno 2000 l'Afghanistan talebano non era catalogato come "Stato terrorista" dal governo degli Stati Uniti dell'America del Nord. Durante il battesimo del potere talebano, il desiderio ufficiale degli Usa espresso da Glyn Davis, portavoce del Dipartimento di Stato, era che quella nuova forza che aveva appena conquistato Kabul dovesse "portare il paese a un processo di riconciliazione nazionale" così come le nuove autorità si sarebbero mosse "con rapidità verso il ristabilimento dell'ordine e della sicurezza".
Sull'esecuzione sommaria (e posteriore esibizione del corpo amputato e umiliato con biglietti arrotolati nel naso, nelle orecchie e nelle dita) di Mohamed Najibulla', il signor David rispose varie volte che la "deplorava". Un giornalista puntualizzò che "deplorare è diverso da condannare" e l'alto funzionario facendo un giro di parole da favola concluse che aveva solo motivi per "deplorare". E chiusa la polemica.
Prima che Najibulla' avesse rimpiazzato Babrak Karmal alla guida del governo afghano, il suo percorso tirannico procedeva da lontano, da quando era stato nominato capo dei Servizi Segreti dello Stato (Khadimat-e Atal'at-e Dowlati, KhAD) del regime del Partito Democratico del Popolo dell'Afghanistan (PDPA). Il PDPA non era altro che un matrimonio forzato e irreale tra due fazioni antagoniste, convenientemente fuse in una sola con il beneplacito e la supervisione di Leonid Breznev.
Mentre Najibulla' occupava le sue massime responsabilità, centinaia di migliaia di persone scomparvero, subirono carcere e tortura o furono assassinate. La ritirata delle truppe del Kremlino dall'Afghanistan nel 1989 lo portarono ad abbracciare progressivamente la fede e qualcuno dei suoi antichi nemici fondamentalisti, allo stesso ritmo con cui rinnegava il marxismo formale (in parallelo, sia detto chiaro, ai suoi antichi compagni di Mosca, quelli che un decennio prima avevano ordinato e incoraggiato l'invasione sovietica, come ad esempio Boris Ieltsin, Alexandr Lebed o Vladimir Putin).
Quando nel 1992 arrivarono finalmente al potere i fondamentalisti che Pakistan, Cina, Iran, Arabia Saudita, Francia o USA avevano appoggiato con armi e denaro, del PDPA già non restava che il nome. Non fu difficile per i nuovi inquilini del potere assimilare i propri predecessori: la maggioranza dei collaboratori di Najibulla' passarono a ingrossare le fila di Hebz-e Islami, la banda di Gulbuddin Hykmetiar, l'uomo favorito e di fiducia di Pakistan, USA e Cina e forse l'uomo che negli ultimi 25 anni di Afghanistan ha convertito più illusioni umane in carne per la rapina.
Molti altri ex filosovietici, improvvisamente convertiti come per miracolo, preferirono unirsi alla fazione Jamiat-e Islami del presidente Burhanuddin Rabbani e del suo ministro della Difesa, Ahmad Shah Massud. Un caso scandaloso è quello di Rashid Dostam, autentico acrobata del potere che iniziando la sua carriera come ministro della Difesa di Najibulla' è riuscito a fare l'impossibile: combattere contro tutte e ognuna delle bande e allo stesso tempo combattere a fianco di tutte e ognuna di loro.
Se nel 1989 la ritirata delle truppe del Cremlino provocò i primi sintomi di amnesia mondiale rispetto all'Afghanistan, ciò che accade dal 1992 al 1996 secondo l'Occidente "sconfitto e disarmato l'esercito rosso" è letteralmente come se quell'angolo del mondo fosse scomparso dalle carte geografiche. Non se ne sa niente, niente si dice, e quindi niente si fa.
Sono questi quattro anni i peggiori nella storia contemporanea di quel paese: a Kabul non lasciano pietra sopra pietra. Ogni fazione si dedica a bombardare la popolazione civile in mano alla fazione rivale con i materiali bellici che hanno lasciato in omaggio le superpotenze e i vicini. La capitale e le regioni vengono spartite, le parcelle di territorio vengono fortificate. E siccome nessuno al mondo se ne lamenta o muove un dito, la repressione diventa il passatempo quotidiano: i saccheggi e la rapina di opere d'arte sono la maniera di racimolare imposte; la sensibilità politica verso la donna si riassume in lasciare che le sposino a forza, le rapiscano e le violentino come routine; l'istruzione assume tanta importanza che l'Università di Kabul diventa la linea del fronte ridotta a macerie, come il Palazzo Reale, i musei, i viali e i parchi, i mercati e i cinema (a Bahaaristan un missile del comandante Massud tanto amato e difeso dalla Repubblica francese la fece finita con la vita e i sogni di 100 persone il 13 dicembre del 1998).
Mentre a Barcellona si celebravano i Giochi Olimpici, l'Afghanistan finisce di essere un paese con più di dieci anni di guerra, fame nera e distruzione, passando a non essere nemmeno più un paese. Si trasforma nella trincea più grande del pianeta con più di 20 milioni di ostaggi. Gli stati vicini sanno approfittare del fatto che le superpotenze si sono lavate le mani di tutto, e perché non si abbassi il livello, cresciuti in volontà espansionistica e impunità collaborano attivamente per seminare più miseria, più morte e più divisione, appoggiando burattini che a colpi di tallone, sono elevati alla categoria di caudillos.
C'è chi pensa che i carrarmati sovietici erano entrati nel paese per farla finita con costumi primitivi o con un regime monarchico o di carattere feudale, fanatico e religioso. Niente più lontano dalla verità: nel 1978 un colpo di stato senza base sociale trionfa grazie ai forti appoggi nelle alte cariche di governo e dell'esercito afghano da parte di elementi vincolati a Mosca, proclamando così una Repubblica Democratica di una indipendenza tanto scarsa come scarsa era la simpatia popolare sulla quale contava. Pochi mesi dopo l'instabilità e i massicci massacri di oppositori che includevano molti militanti di sinistra e non pochi membri dello stesso PDPA fecero sì che il Cremlino ascoltasse la voce di quelli che esigevano un intervento per evitare la perdita del fortino afghano.
Prima di quell'inutile colpo di stato, in Afghanistan c'era una Repubblica presieduta dispoticamente da Mohamed Daud Khan, che 5 anni prima di morire assassinato durante il colpo di stato, aveva detronizzato un suo familiare, il monarca Zahir Shah. La sorte di Daud e di quella giovane Repubblica laica che riceveva più di 100000 turisti di tutto il mondo ogni anno, si trovava tra la mercè della spada di James Carter e il muro di Breznev. Gli sforzi di Daud e del suo governo parevano diretti a mantenere il paese all'interno del blocco dei non-allineati, con sbandamenti aleatori verso le due superpotenze, però con eccellenti relazioni e sintonia con l'India di Nehru, la Yugoslavia di Tito, o l'Egitto di Nasser. Come fiore all'occhiello, la repubblica dell'Afghanistan destinò nel 1973 14000 dollari dell'epoca in aiuti umanitari per le vittime egiziane della guerra del Yom Kippur.
Si è soliti affermare, a ragione, che l'Afghanistan degli anni '70 non era per niente il paradiso in terra. Di fatto ne' negli anni '70, negli '80, nei '90, ne' nell'attualità (e che si sappia, mai) è esistita una tale Itaca anelata. Però anche mettendo in chiaro e fuori da ogni dubbio che il suddetto angolo dell'Asia fosse quel che fosse, l'Occidente non può dimenticare di gettare un'occhiata allo specchio della storia e di rispondere onestamente che era durante quella stessa epoca che la Spagna inviava giovani a morire strangolati, la Francia ghigliottinava prigionieri e l'Italia era corrotta da oscure trame. Ciò che non si può negare, accettando che i paragoni sono facili da demolire, è che in ogni caso l'Afghanistan non aveva sul proprio suolo neanche una mina antipersona dei 10 milioni attuali, ne' maree umane di rifugiati, ne' centinaia di migliaia di morti, milioni di mutilati, orfani e vedove
Prima che le superpotenze ci mettessero di mezzo la propria grinta senza rimedio, l'Afghanistan era una nazione dove l'opposizione politica di tutti i colori era difficile però possibile e reale. Un luogo dove era normale la convivenza delle piccole ma influenti e prospere comunità sikh, hindù o giudee con una maggioranza musulmana sufista, il ramo islamico più mistico cui tanto è debitrice la spiritualità cristiana e la filosofia occidentale. Dove le donne coscienti lottavano in modo organizzato ed efficace dall'Università di Kabul o da altri spazi pubblici e privati contro il patriarcato che le rendeva sorelle nell'oppressione al resto delle donne del mondo. C'erano molti contadini, poca classe operaia urbana, e numerosi artisti e intellettuali che lottavano per migliorare le condizioni sociali o per trasformare alla radice il sistema. C'era in definitiva una società civile dinamica e vitale che oggi avrebbe molto da dire e da fare, se non fosse stata sterminata con armi che non portavano mai scritto sulla loro impugnatura Made in Afghanistan.
Sayed era un eminente studioso afghano condannato all'esilio in Pakistan. Mise la propria condizione di professore di sociologia al servizio del suo popolo, realizzando uno dei pochi sondaggi di opinione fatti con rigorosa base scientifica tra la popolazione afghana. Il lavoro sul campo, terminato nel luglio 1987 su un campione di 2500 rifugiati e rifugiate, chiedeva quale fosse l'alternativa di potere che la gente preferiva. Il 75% si dichiarò a favore del re, personaggio oscuro esiliato a Roma e isolato internazionalmente ormai da 14 anni. Il motivo di questa risposta è che Zahir Shah era ed è nell'immaginario collettivo afghano l'unico ricordo vivo di un periodo che poteva essere instabile quanto si vuole, però era pacifico. Se ci si concede un po' di fantapolitica, sicuramente se Daud non fosse stato deposto e assassinato nel 1978, le preferenze avrebbero segnalato anche lui come una opzione desiderata. Il risultato finale dell'indagine di Sayed fu il suo omicidio per mano degli stessi fondamentalisti che secondo la Dottrina Reagan per bocca del suo stesso creatore erano "come i pionieri fondatori dell'America del Nord". Non sapeva Ronald Reagan con il suo preteso elogio quanto aveva ragione ponendo sullo stesso livello gli uni e gli altri banditi.
Seidal fu uno stimato poeta della sinistra radicale e indipendente che tradusse nella lingua maggioritaria dell'Afghanistan, il pashtu, una canzone molto popolare durante la guerra civile spagnola El frente de Gandesa con un verso che diceva Shaba, Shaba ay kargara! (Andiamo, andiamo lavoratori!). Seidal fu eliminato personalmente dal leader fondamentalista Hykmetiar durante una manifestazione nel 1973. Fu l'ira popolare che obbligò l'assassino in quel momento un esaltato violento però marginale, qualcosa di simile a un tifoso a cercare asilo in Pakistan dove fondò quello che poi, sei anni dopo, fu il principale referente di Pechino, Washington e Islamabad per la guerra afghana. Oggi Hykmetiar vive ritirato dai suoi affari per sua scelta nell'Iran degli ayatollà. A Seidal, in cambio, nessuno ha dedicato una miserabile targa commemorativa in una qualche strada del mondo.
Meena era una giovane militante femminista che fondò l'Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane (RAWA). Con altre compagne e solo vent'anni fondò nel 1977 questa nota e riconosciuta organizzazione di donne che vide interrotta la sua lotta rivendicativa per colpa della guerra. RAWA non esitò, come tanti altri movimenti sociali e organizzazioni politiche democratiche radicati nel paese, a passare alla resistenza nel bel mezzo del conflitto tra signori della guerra, superpotenze e stati limitrofi. All'età di 30 anni Meena fu assassinata in Pakistan da un boia di Hebz-e Islami. La sua morte unì nella soddisfazione tutte le fazioni nemiche sul campo di battaglia, le stesse che lei aveva denunciato con uguale energia e coraggio.
Solo un giorno dopo gli attentati che assassinarono migliaia di lavoratori nelle Torri gemelle a New York, già si contavano decine di migliaia di profughi e rifugiati che fuggivano dall'Afghanistan. Quasi senza legami con l'estero, li spingeva a mettersi in cammino in massa e terrorizzati la convinzione che gli Usa avrebbero attaccato utilizzando la bomba atomica. Non serviva a niente la chiamata a serrare le fila dei banditi muyaidin, ne' dei fanatici talebani: la popolazione era sazia di canti di sirena in nome di Dio, dell'ordine o della patria e dava ascolto al proverbio darì "gosht-e khar, bar dandan-e sag" (la carne dell'asino per il dente del cane), più o meno come dire "che si ammazzino tra di loro".
Non erano necessarie grandi analisi di politologi o strateghi per sapere che stavano per diventare l'imminente obiettivo militare dell'Occidente e del ricatto dei talebani o dei muyaidin del Nord. Malgrado nessuno dei piloti suicidi fossa afghano, l'obiettivo era l'Afghanistan. Si sapeva perfettamente che senza batterie antiaeree e trascinandosi una criminalizzazione generalizzata sulle proprie teste, non avevano altra possibilità di ribellione contro gli attacchi aerei che la fuga. In Afghanistan, secondo quanto hanno fatto credere, non vive nessuna Meena, nessun Sayed, o nessun Seydal. Per questo, invece di disarmare e isolare, abbiamo riarmato gli assassini in serie e violentatori multipli dell'Alleanza del Nord e ci siamo appoggiati a loro, come ai vecchi tempi. Perché in Afghanistan, così pare, non ci sono persone.
Le creature afghane, nel vedere un B52 britannico o nordamericano sul punto di aprire la propria pancia letale, si mettevano al coperto e litigavano tra loro per vedere di chi sarebbero stati i resti della bomba, per poi consegnare i rottami ai commercianti e col ricavato alimentarsi o nutrire la famiglia. Questa è la risposta di chi non ha visto una sola mattina di pace in un quarto di secolo. E' questo lo stoicismo e la resistenza che possono offrire i figli di un popolo che muore di guerra, fame e sete in mezzo alla vergognosa voluttà del potere mondiale e al silenzio dei suoi sudditi.