LA RESISTENZA A VOLTO SCOPERTO
NATASHA WALTER DA KABUL RACCOGLIE VIVACI TESTIMONIANZE SU PRESENTE E SPERANZE DI FUTURO DELLE DONNE AFGHANE DI DIVERSI SETTORI SOCIALI


ottobre 2002, da The Guardian, 20 luglio 2002 , traduzione di Laura Pucci

Gli studenti sono accalcati sulle panche della cupa aula della facoltà di scienze di Kabul. Quattrocento volti ansiosi ci fissano, e 150 di loro sono donne. Poche oltre la prima fila, siede una giovane donna che indossa una sciarpa di pizzo bianco avvolta stretta intorno al suo viso roseo. Il suo nome è Zohal Faiz Mohammed. Scuote la testa sorridendo quando le chiedo come si sente a ritornare all'università dopo cinque anni di assenza. "Non riesco a spiegarti cosa sento. Per la prima volta possiamo sperimentare l'università, questa'tmosfera. Possiamo studiare tutti, ragazzi e ragazze insieme."

Quella sera, Zohal ci invita a cena con lei e i suoi genitori. Vivono in quello che, per gli standard di Kabul, è un quartiere dignitoso, ma questo significa comunque una striscia caotica di condomini con finestre distrutte e muri crivellati di buchi di proiettili. Mentre Zohal prepara la cena, sediamo sui cuscini, sul pavimento di un salotto rosa, e conversiamo con I suoi genitori. Improvvisamente Zohal arriva di corsa, preoccupata che ci annoiamo, e ci mostra uno delle sue proprietà più preziose: un video di canzoni da film indiani. "Io e mio padre li adoriamo," dice con ardore. Guarda la stupenda Aishwarya Rai danzare in un mondo di sogni in Technicolor. "Non è bella ?" Nel guardare il video, Zohal, in jeans e maglietta bianca con le maniche arrotolate, i folti capelli neri raccolti in una coda di cavallo, sembra più giovane dei suoi 22 anni.
E' determinata ad essere giovane, determinata ad essere felice, determinata a non parlare di politica - parliamo invece del suo fidanzato errante e dei suoi piani per il futuro. Dopo cena, lei, sua madre e sua cugina bisticciano sugli accordi per le fotografie. "Non litigate!" dice Zohal. "E va bene, litigate." "Io sarò Rabbani e tu Hekmatyar," dice il fotografo. Ridono: quelli sono i nomi degli uomini i cui eserciti hanno ridotto Kabul in macerie negli anni 1990. "Tutto ciò che puoi fare a volte è ridere" commenta sua madre, asciugandosi gli occhi con un angolo del foulard.
Mentre chiacchieriamo durante la cena, non posso impedirmi di pensare che la felicità di Zohal appare come l'ottimismo semplice di ogni giovane donna all'inizio della sua vita. Ma, le donne afgane non sono come le altre donne, e quando suonano ottimiste, è un atto di determinato coraggio. Un altro giorno, quando ci incontriamo per pranzo, Zohal racconta del passato. Il suo viso cambia, perde il colorito roseo e muove nervosamente le dita. La sua infanzia finì sotto assedio nel 1992, dopo che il regime sostenuto dai sovietici cadde e gli eserciti mujaheddin ­ armati dall'Occidente ­ combattevano per il controllo di Kabul, strada per strada. "Ricordo ogni notte, seduta in un angolo del salotto, ad ascoltare i razzi e le bombe," dice Zohal in un tono monotono, molto diverso dal precedente vivace chiacchiericcio. "E ogni mattina uscivamo e aiutavamo a raccogliere i cadaveri. Non c'era nulla a cui pensare. Stavamo solo attendendo la morte. Non avevamo speranza per il futuro, nemmeno per le nostre vite."
La famiglia di Zohal fu costretta a lasciare la propria casa più di una volta quando i combattimenti si concentravano nella loro zona. Divennero rifugiati nuovamente quando fuggirono dall'oppressione dei Talebani, e trascorsero due anni in Pakistan, ma l'indigenza che ha colpito così tanti Afgani là, li costrinse a tornare a Kabul l'anno scorso. Partirono ancora verso il confine pakistano durante il bombardamento americano. Rifugiati per tre volte, dai mujaheddin, dai Telebani e dagli americani, ora ricominciano da capo, cercando di mettere insieme le loro vite con i frammenti che hanno lasciato.
Ma il volto di Zohal è rivolto al futuro. Vuole diventare un ingegnere, studia al mattino all'università e prende lezioni di inglese e di informatica nel pomeriggio.
Poiché oggi è vacanza, visitiamo uno dei saloni di bellezza da poco aperto a Kabul. "Marya" si trova vicino ad un ristorante dove i "kebabs" di agnello sono a cuocere sopra dei barbecue all'aperto e accanto ad una bancarella carica di colorate cassette musicali indiane e iraniane. Ma persino qui, in questa parte risvegliata di Kabul, se ti fermi per la strada un momento, i mendicanti, donne e bambini, si aggrappano alle tue mani e alle tue braccia. Nel salone di bellezza, l'aria è densa di lacca e profumo, e Fazila, la proprietaria, una robusta donna vestita di nero, con capelli biondo rame pettinati con cura, passa da una cliente all'altra con stupefacente velocità. Lei e le sue due giovani sorelle lavorano come una catena di montaggio. I bigodini vengono fissati su e giù, le pinzette strappano le sopracciglia, il kohl viene steso sulle palpebre. Shaima e Suheila, sorelle, entrambe medico, stanno aspettando sui divani di Fazila. Hanno tutte due i capelli raccolti da mollette sotto una retina. Domani è il matrimonio di Shaima e sono decise a farlo in alto stile afgano: tutto vestiti luccicanti, capelli arricciati e mani dipinte di hennè. "Quando abbiamo festeggiato il fidanzamento" ­ spiega Susheila ­ "non potevamo fare fotografie ­ eppure l'abbiamo fatto, in segreto. Non potevamo neanche ingaggiare dei mucisti". "Che cosa avrebbero fatto i Talebani se voi aveste invitato dei musicisti?" Suheila si passa un dito sotto la gola. "Ma ho suonato una cassetta a basso volume, e ho danzato, ero decisa a danzare. Sta per raccontarmi altro quando un bimbo arriva di corsa. Le ragazze a casa hanno bisogno di più arricciacapelli. Susheila si abbassa e raccoglie il suo burka. "Non vuoi sapere perché lo indosso ancora?" chiede. Si ferma controluce di fronte alla porte, tenendo la fascia di nylon azzurro sopra il suo viso. La stampa occidentale ha diffuso l'idea che, appena i Talebani hanno lasciato Kabul, le donne liberate hanno gettato via i loro sudari blu. Ma a Kabul, quasi tutte le donne giovani lo indossano ancora. E questo non per tradizione. Il burka era usanza di alcuni gruppi etnici afgani, ma non fra le donne istruite delle città. Ho chiesto a venti o trenta donne perché lo indossano a tutte hanno dato la stessa risposta. Paura. "Non siamo ancora al sicuro", dice Suheila succintamente. Questo senso di insicurezza è comprensibile. I mujaheddin e i Talebani non erano un gruppetto di maniaci ora scomparso, ma centinaia di migliaia di "esecutori volonterosi" ­ uomini che stupravano in gruppo come parte della loro guerra, come facevano i mujaheddin, o che picchiavano le donne selvaggiamente per aver mostrato il viso, come i Talebani. Questi uomini non se ne sono andati, e sebbene a Kabul essi siano mantenuti quieti dalla presenza della forza di sicurezza internazionale, se quest'ultima partisse, molte donne temono che la violenza ricomincerebbe. "Naturalmente il burka non era la cosa peggiore dell'epoca dei Talebani", sottolinea Suheila. "Ma fino a quando non saremo sicure, non possiamo toglierlo." Continuano anche ora le segnalazioni di episodi di violenza, per motivi politici e religiosi, contro le donne. Human Rights Watch ha documentato stupri e aggressioni contro alcuni gruppi ethici nel nord dell' Afghanistan. Alcune cooperanti sono persino state richiamate da Mazar-i-Sharif dopo che una di loro aveva subito uno stupro di gruppo. A Kabul, un mese fa, due donne che indossavano dei foulard invece del burka hanno avuto i volti spruzzati di acido. Così, per le donne dell' Afghanistan, l'anonimità del burka offre ancora loro un senso di protezione. Zohal, che pure indossa il burka quando esce, concorda con Suheila. "Ovvio che ci piacerebbe toglierlo ­ dice ­ ma semplicemente ciò non è ancora possibile".
Alcune delle donne che hanno tolto il burka sono quelle che stanno ora entrando in politica. La mia visita coincide con l'avvio della loya jirga, l'incontro di un consiglio di 1500 delegati che devono decidere la struttura del futuro governo. Circa 200 sono donne. Visito gli uffici del consiglio, dove dozzine di uomini afgani si raccolgono nel cortile, parlando vivacemente. Fuori sull'erba inaridita, c'è una tenda e dentro la tenda puzzolente soffocando siedono quindici donne, delegate appena giunte della province occidentali del paese. Una donna sui 30 anni, anche lei di nome Zohal, parla con entusiasmo di ciò che significa per lei. La sua bimba di due anni, che gioca in silenzio con una rosa appassita, le siede in grembo mentre parla. "Tutte le porte sono state chiuse alle donne per lungo tempo, ora speriamo che si stiano aprendo. Questa loya jirga è solo il primo passo, ma nel futuro parlamento deve esserci pari rappresentanza di donne e uomini." Consapevole che le donne non hanno raggiunto tale rappresentanza nemmeno nei paesi occidentali, chiedo alle altre donne nella tenda se anche loro la pensano così. C'è un'esplosione di rumore. "Sì, sono tutte d'accordo", dice il mio interprete con solennità. "Dicono che le donne costituiscono più della metà della popolazione dell'Afghanistan e sono state le prime vittime della guerra. Ora devono veder riconosciuti i loro diritti". Seduta vicino a Zohal c'è Bibi Kur, una specie di Doris Lessing più giovane.Viene da Herat. "I nostri leader non volevano neanche una donna nella loya jirga," dice sprezzantemente. Ma la gente di Kabul ha insistito e così hanno detto che avrebbe potuto esserci una donna per ogni provincia, una ogni otto delegati. "Non ha paura ad essere una delegata sapendo che i signori della guerra sono così contrari alla presenza delle donne?" "Sono spaventata, conosco questi uomini. Ma sono sopravvissuta a 23 anni di guerra, sono stata ferita, mio marito è stato ferito. Ora sono felice di essere qui e di difendere i diritti delle donne".
E' facile amare l'energia e la determinazione di queste donne che stanno tornando alla politica. Ma nelle settimane che seguono, via via che la loya jirga procede, le idealiste vengono messe da parte. Il potere è ancora nelle mani degli uomini che controllano pistole e soldi, ex mujaheddin che hanno guadagnato influenza per mezzo di combattimenti sanguinosi e terrorizzando i civili; uomini come Abdul Rashid Dostum, Ismail Khan e Burhanuddin Rabbani, i quali tutti mantengono il controllo di alcune aree dell'Afghanistan e che riempiono la loya jirga con i loro sostenitori. Sebbene noi occidentali consideriamo questi uomini utili alleati, le donne con cui ho parlato non hanno dimenticato i loro crimini. Infatti, il primo giorno della loya jirga, alcune delegate, tra cui Tajwah Kakur, hanno affrontato Rabbani. "Perché i tuoi eserciti hanno ucciso e violentato così tante donne?" chiede Kakur, "Perché ci sono così tante vedove nel nostro paese?". Lui tace.
Spendo il pomeriggio parlando con Kakur nel suo ufficio al Ministero delle donne, istituito l'anno scorso dall'amministrazione provvisoria. Kakur, vice ministro delle donne, siede immobile come un monumento dietro la sua scrivania di vetro, i capelli argento raccolti sotto una sciarpa di voile grigio. E' abbastanza diversa dalle donne nuove della politica afgana, perché fu persino tollerata ­ e lei stessa accettò ­ dal regime Talebano, e diresse una scuola per ragazzi a Kabul mentre erano al potere. Nonostante ciò, dice che ora i suoi sogni si avverano, "Sono così felice quando vedo le donne tornare al lavoro e alla scuola. Penso, è un sogno? O è la realtà?" Ma, con i suoi discorsi ottimisti, Kakur è arrabbiata per la situazione attuale e per gli uomini che stanno tornando al potere. "Tutte le donne afgane sanno di che cosa parlo. Questi uomini hanno rapito e stuprato le donne dell' Afghanistan. Fino a quando non gli saranno tolte le armi, le donne non saranno sicure. Sì, ora ci dicono che sono eroi. Ma chi ha distrutto le case e rapito le donne? Non sono eroi, sono degli zero".
Ma le donne in Afghanistan non stanno lottando solo contro gli uomini che le governano. Quando lasciamo l'ufficio di Kakur, camminiamo attraverso un corridoio dove dozzine di donne con I burka alzati sono accucciate in terra fuori dagli uffici. Una funzionaria le scaccia nel cortile. Le seguiamo nella luce accecante del sole di mezzogiorno, a chiediamo loro chi siano e perché siano lì. Quando parlano catturo uno spicchio di un altro Afghanistan, quello in cui vivono così tante donne, specialmente quelle i cui mariti e fratelli sono stati uccisi in decenni di combattimenti.
Una di queste, Khandijal, è incinta di cinque mesi, sebbene il suo ventre sporga appena dal suo corpo scheletrico avvolto nel burka azzurro. Cinque mesi fa, una bomba americana ha ucciso suo marito e l'ha ferita ad una gamba. "Per quattro mesi sono venuta qui ogni giorno a chiedere lavoro ­ dice ­ ma non c'è lavoro per noi". Khandijal ha cinque sorelle, tutte più giovani di dodici anni. "Ogni giorno torno a casa e i miei bambini gridano dov'è il denaro, dov'è il cibo? Non ho nulla per loro. I miei figli muoiono di fame e nessuno qui farà nulla per me". "La mia vita era migliore sotto i Talebani", dice con tono di sfida Hanifa, una donna pelle e ossa. Suo marito è stato ucciso tre anni fa e ha sette figli. "L'ONU dava alle vedove di Kabul una tessera per ricevere cibo gratuitamente. Ricevevamo cinque pani al giorno. Così i nostri bambini avevano pranzo e cena. Ora non abbiamo niente. All'inizio, quando sono arrivati gli americani, ero felice, pensavo che la nostra vita sarebbe migliorata. Ma non c'è nulla per noi. Gli americani non hanno mai chiesto di noi".
"Ci aiuterai?" chiedono tutte, una ad una ­ "Ci aiuterai a trovare lavoro?" Quando spieghiamo che non lavoriamo per l'ONU o per una ong, appaiono perplesse. Continuo a fare domande, a cui rispondono volentieri, forse sperando che daremo loro qualcosa in cambio. Abbiamo tutti visto e letto storie di tale disperazione un migliaio di volte, ma guardare la disperazione è cosa molto diversa dal vedere la disperazione che ti guarda affamata.
Se ascolti le chiacchiere sull'ammontare di denaro che è stato promesso all'Afghanistan, è facile compiacersi di come la comunità internazionale si sta muovendo per ricostruire il paese. Certo per molti la vita è migliorata, nonostante ciò che dice Hanifa, per esempio, il programma alimentare della Nazioni Unite mi dice che ora raggiungono il triplo dei poveri che potevano raggiungere sotto il regime Talebano. Ma sebbene stiano arrivando altri aiuti, ne erano stati promessi molti di più di quelli che stanno raggiungendo il paese, via via che i donatori li sospendono nel timore che questa fragile pace collassi. E quello che è arrivato ­ circa 800 milioni di dollari nella prima metà dell'anno ­ non è abbastanza per fermare immediatamente le sofferenze di milioni di gente comune. E' stato stimato che le donne afgane abbiano la più alta mortalità per parto del mondo, con circa 1700 morti ogni 100.000 parti, l'aspettativa di vita alla nascita è di 46 anni e circa il 50% dei bambini soffre di malnutrizione, e tuttavia gli aiuti sono già in pericolo! Il dottor Lynn Amowitz della Harvard Medical School, che conduce un nuova ricerca sulla mortalità per parto, ha detto recentemente: "L'Afghanistan sta scomparendo dagli schermi radar delle persone e i fondi stanno diventando più difficili da trovare."
Tra le vedove, c'è una donna molto più giovane di loro, e la sua faccia ha la lucentezza di una ragazza che mangia ogni giorno. Akala ha solo 19 anni. "Ho ripreso la scuola il mese scorso" ­ dice. "Ma ogni pomeriggio vengo qui e chiedo lavoro. Ho 10 tra fratelli e sorelle, e mio padre è troppo vecchio per lavorare. Per noi la vita peggiora di giorni in giorno". "Hai visto qualche miglioramento?" "Sì, naturalmente, siamo liberi di uscire fuori ­ dice velocemente ­ e ora posso andare a scuola. Ma che posso dire del mio futuro? Se non trovo lavoro, dovrò lasciare la scuola. Non ho soldi per la carta e le matite. E non posso andare a scuola mentre i miei fratelli e sorelle stanno morendo di fame".
Mentre ci allontaniamo dagli edifici del governo, nuvole di polvere si alzano sulle strade e persino gli uomini che camminano per le strade si tirano le sciarpe sul viso per proteggere le bocche e gli occhi. Questa la solita tempesta di sabbia che si alza nel pomeriggio a Kabul. Un afgano rientrato mi ha raccontato che durante la sua infanzia, prima delle guerre, non avevano un clima del genere, queste nuvole di polvere che oscurano la luce del sole e circondano le montagne con quello che appare come fumo vagante. Ha probabilmente ragione, poiché questa siccità è iniziata solo qualche anno fa, ma la sua affermazione suona metaforica ­ come se la terra avesse iniziato a soffocare col suo carico di miseria. L'idea che l'Afghanistan sia stato distrutto dalla Guerra è stata per me solo un'immagine fino a quando non ho visto Kabul, con le macerie e rovine che si stendono per chilometri fino alle montagne brulle, come un set cinematografico che rappresenti una città dopo una guerra nucleare. Devo continuare a ricordare a me stessa che Kabul non è stata sempre una città devastata, che una volta, negli anni '70 e '80, era cosmopolita, con donne che passeggiavano per le strade in minigonna, jazz club affollati e parchi colorati. E' anche importante ricordare che le donne afgane non sono sempre state vittime. Negli anni '80, il 40% dei dottori e il 50% degli studenti universitari erano donne ­ e sebbene tale liberazione non si estese per tutto l'Afghanistan, molte donne di città ed istruite vivevano vite di relativa libertà. Ma una cosa che mi ha stupito era che persino quelle donne che hanno vissuto le loro vite nei settori più tradizionali della società possono ancora parlare il linguaggio della resistenza. Un giorno per esempio, ho visitato Sarasia, un piccolo anonimo villaggio ad occidente di Kabul. Le donne lì vivono ai margini, persino il pozzo, dopo tre anni di siccità, non funziona più, così ogni giorno le donne e i bambini arrancano attraverso i campi verso i villaggi vicini, per prendere l'acqua. In una delle bianche nude case, si sta tenendo una lezione di alfabetizzazione. Le donne di questa classe non potrebbero essere più lontane dall'elite colta. Soraya, per esempio, è una vedova di cinquant'anni ed è stata analfabeta per tutta la vita. "Se sei analfabeta, è come se tu fossi cieca". Il suo figlio più grande non vuole che impari a leggere, ma lei ha ottenuto finalmente il suo permesso perché queste lezioni sono tenute da donne per le donne del loro stesso villaggio. Qui tutte le donne indossano il burka, l'hanno sempre fatto. Nessuna può lasciare il villaggio senza il permesso di un uomo della famiglia e nessuna delle donne nell'aula ha mai avuto alcuna educazione formale. E tuttavia, in qualche modo, esse hanno mantenuto viva l'idea di una società diversa. Aisha, una donna di mezza età il cui marito è troppo vecchio per lavorare, dice: "Siccome siamo ignoranti, non possiamo parlare in difesa dei nostri diritti. Non vogliamo questo per le nostre figlie. Noi vogliamo che loro siano in grado di parlare con gli stranieri." Ancora e ancora chiedo se tutte le donne che loro conoscono, anche nelle famiglie più tradizionali, la pensino allo stesso modo. Quasi si arrabbiano, cercando di convincermi e la piccola stanza calda sembra divenire più calda quando si mettono a parlare tutte insieme. "Certo che vogliono più libertà" dice Soraya "Persino le donne a cui non è permesso di venire a queste lezioni la vogliono. Ma i nostro mariti, fratelli e padri non lo vogliono. I mullahs ci ripetono che la libertà non è cosa buona per noi"
Il corso di alfabetizzazione di Sarasia è finanziato da RAWA. Questa straordinaria organizzazione è attiva dal 1977 ed è una testimonianza della determinata resistenza delle donne afgane. Le migliaia di volontarie di RAWA hanno lavorato clandestinamente ed in esilio per trent'anni ­ contro il regime sovietico, i mujaheddin, i talebani ­ e ora sono più forti che mai. Ma sebbene RAWA stia iniziando ad operare più apertamente, la maggior parte del suo lavoro è ancora anonimo e clandestino. Stranamente, nonostante il tanto declamato supporto occidentale ad una società più liberale, RAWA non ha mai ricevuto aiuto da nessun governo. Ma le attiviste di RAWA stanno ancora combattendo per l'eguaglianza femminile e un governo laico, e sono anche appassionatamente impegnate nel ricostruire la società civile. In contrasto con alcuni progetti governativi e non governativi, piuttosto caotici, i due schemi di RAWA che vedo, in Sarasia e a Kabul, sono modelli di buona organizzazione e sostenibilità. Un giorno, visito una delle loro scuole a Kabul, che opera nella casa di una ex presentatrice radio di Mazar-i-Sharif, che preferisce restare anonima. Fuori sulle strade, è la solita Kabul: spazzatura, luce accecante, aria piena di polvere. E poi spingi un'ampia porta blu verso un cortile. Qui, qualcuno coltiva erbe e verdure, e due farfalle bianche e gialle immergono le loro ali nelle spesse fronde delle piante di radish. Sotto awnings, sui lati del cortile, un gruppo di donne ripete a voce alta la sua lezione di persiano ed un altro taglia un tessuto chiaro e impara a fare camicie. Una delle insegnanti è Zahmina Nyamati. Ha 42 anni e un viso espressivo, segnato dal clima. Vent'anni fa, Zahmina era come Zohal Faiz Mohammed, un'ottimista laureata in scienze dell'Università di Kabul. Sposò un funzionario pubblico ed ebbe cinque figli. Ma dopo la morte di suo marito, sette anni fa, portò la famiglia a vivere in un campo di rifugiati in Pakistan. Era una domestica per le famiglie pakistane durante il giorno e cuciva durante la notte, cercando di guadagnare a sufficienza per mantenere i suoi figli a scuola. Quando parla, le lacrime le scorrono sul viso. Non cerca di asciugarle. "Ho dei bei ricordi nella mia vita, l'infanzia e quando mi sono sposata ma poi tutto è andato perduto. Ho lavorato in case in cui ero considerata feccia, e mi veniva concesso il grande favore di raccogliere per i miei bambini il cibo che essi stavano per gettare via. Quando mi sono sposata, pensavo che almeno saremmo vissuti in pace. Almeno avremmo avuto una case semplice dove avrei potuto dire: questa è la mia stanza, almeno i miei figli a scuola avrebbero potuto dire "queste sono le mie scarpe, questa è la mia penna". Ma i miei figli stanno soli. Non giocano con gli altri bambini. Quando torno a casa mi chiedono che cosa ho portato loro. E io non posso dire nulla. La mia vita è finita. Ma per loro voglio una vita migliore. E' per questo che lavoro giorno e notte. E devo essere forte. Prego ogni giorno Dio che mi faccia forte." Dopo la fine della sua lezione, Zahmina mi porta a casa sua. Questo quartiere è come la maggior parte di Kabul: una baraccopoli, dove le fogne scorrono per la strada e le strade sono solo piene di polvere. Vive in una stanza con i suoi quattro figli, uno dei quali è handicappato e sta steso sul pavimento, incapace di camminare o gattonare. Non ci sono mobili, solo un letto coperto di tessuto e coperte. Dopo la caduta dei Talebani, come centinaia di migliaia di altri, Zahmina è ritornata a Kabul con l'aiuto dell'agenzia ONU per i rifugiati, che dà ad ogni rifugiato che rientra $10-$30 per persona. La famiglia di Zahmina ha ricevuto anche due lenzuola di plastica, due coperte e tre sacchi di farina. All'inizio andarono a vivere a Chehl Sutoon, un'area di rovine dove non c'è acqua corrente, niente tetti né finestre. Ora si sentono fortunati per aver trovato una stanza con un tetto. Se non fosse stato per RAWA, lei avrebbe potuto presto trovarsi a mendicare come le altre donne le cui mani come artigli ti afferrano per la strada. Quando parliamo del passato, chiede a sua figlia, una dodicenne dal viso fresco, di prendere le fotografie. Alya tira fuori una scatola da sotto il letto. I pochi scatti familiari mostrano una grande famiglia felice durante i compleanni, con i bambini seduti in grembo, una torta e il melone e i biscotti sulla tavola, palloncini nelle mani dei bambini. Alya e i suoi fratelli reggono le foto con reverenza, sognando al guardarle. Chiedo a Zahmina se ha speranze per il futuro. Non ha esitazioni: "Spero, è il mio solo desiderio, che le organizzazioni internazionali che hanno promesso di aiutare l'Afghanistan mantengano le loro promesse, specialmente nei confronti delle donne. E ho sentito i nostri politici parlare di diritti delle donne. Spero che le donne afgane raggiungano tutto questo. Noi abbiamo conosciuto sofferenze per 23 anni. Vogliamo solo dare ai nostri figli ciò di cui hanno bisogno, così possono crescere per realizzare i loro sogni." Sono colpita ancora una volta, colpita con un'intensità quasi fisica, dal modo in cui le donne afgane affrontano il futuro con questa determinazione. Alya ci ascolta parlare. La piccola, che è cresciuta in un campo per rifugiati, si è trasferita in una rovina e poi in una baraccopoli, è snella e con gli occhi luminosi.
Chiedo che cosa pensa di fare da grande. "Farò il medico!" dice con determinazione.