Ritratto di un terrorista incallito: Putin.
A partire da una serie di considerazioni sulla recente tragedia del teatro Na Dubrovke di Mosca, Antonio Moscato, docente di Storia contemporanea e di Storia del movimento operaio dell'Università di Lecce, traccia un profilo di Putin, della sua ascesa, delle sue nefandezze, delle sue difficoltà. In appendice una sintesi di storia del colonialismo russo in Cecenia. Da Bandierarossa news. Ottobre 2002.


Come Putin ha conquistato il potere

Con il massacro del teatro Na Dubrovke di Mosca Putin non tradisce le sue origini: questo sbirro formatosi nella NKVD, chiamato da Eltsin alla carica di Primo ministro nell’agosto 1999 al posto di Stepashin (anch’esso proveniente dai servizi segreti, ma bruciato in poco tempo come i suoi tre predecessori) era riuscito in pochi mesi a conquistarsi una grande popolarità proprio grazie ad alcuni non troppo misteriosi attentati che avevano colpito edifici civili a Mosca e in altre città, provocando quasi 300 morti. Gli attentati non solo non erano stati rivendicati, ma tutte le organizzazioni cecene avevano smentito ogni coinvolgimento.

Grazie ad essi, in settembre erano ricominciati i bombardamenti russi sulla Cecenia. Molti commentatori si erano domandati se dietro quelle bombe non ci fossero stati i servizi segreti. Putin, comunque, ottenne allora il plauso di tutta l’opposizione, compresa quella "comunista", che al massimo gli rimproverava di non essere abbastanza deciso nel difendere il "sacro suolo della patria". Nelle grandi città si diffuse e si rafforzò l’isterismo contro i caucasici, sospettati in blocco di terrorismo e criminalità.

In tre mesi i russi ufficialmente caduti in combattimento in Cecenia (a parte quelli delle guerre precedenti) erano già circa 400, ma secondo il comitato delle madri dei soldati sarebbero molti di più. Il 25 dicembre il comando russo lanciò "l’attacco finale" a Grozny, provocando oltre 30.000 morti (dieci volte le vittime delle torri gemelle....). Putin volò con la moglie a trascorrere le feste di fine d’anno tra i soldati russi in Cecenia.

Proprio grazie al massacro ceceno, che è stato appoggiato da tutti i partiti russi, ma di cui si era assunto il merito principale, Putin, che era sconosciuto alla quasi totalità dei russi appena un anno prima, poté essere eletto presidente nel marzo 2000 con il 52,64% dei voti (Zjuganov 29,34, Javlinskij 5,84, Tuleev 3,02, Zhirinovskij 2,72, ecc.), liquidando silenziosamente il suo predecessore Eltsin. Ma in Cecenia la guerra che aveva assicurato di vincere in poco tempo è continuata.

Negli anni successivi migliaia di soldati e ufficiali russi, e molte decine di migliaia di ceceni sono caduti in questa guerra, senza che la Cecenia possa essere considerata domata. E a fianco alle tendenze moderate e sostanzialmente laiche, tra i ceceni compaiono e si rafforzano quelle integraliste. Non sono "il male" come le presentano Bush, Sharon e Putin, ma "una conseguenza" del male, cioè dell’oppressione, della violenza, della disperazione.

Alcuni dei sopravvissuti alla feroce occupazione si sono rifugiati in altri paesi, alcuni per convinzione o per prepararsi a riprendere la lotta contro i propri nemici, altri come mercenari. Ce n’erano anche con Bin Laden in Afghanistan, ma la Cecenia non è l’Afghanistan, come d’altra parte l’Afghanistan, pur ospitandolo, non era la stessa cosa di Bin Laden.

Se ne occorreva un’ulteriore dimostrazione, si pensi alle decine di ragazze e donne combattenti presenti nella formazione che ha occupato il teatro, con un ruolo ben diverso da quello che il fanatismo integralista dei talebani assegnava alle donne.

Le "armi non convenzionali" di Putin

Contro Saddam si ripete abitualmente che (anche se gli esperti, compresi gli ex ispettori dell’ONU come Scott Ritter lo smentiscono) potrebbe dotarsi di armi non convenzionali. Invece è più che certo che queste armi le hanno gli Stati Uniti, Israele, la Russia. Cosa ha usato Putin per liquidare il disperato tentativo di attirare l’attenzione del mondo sulla tragedia cecena? Un terribile gas, che ha colpito gli ostaggi russi come i combattenti ceceni. Di fronte al turbamento di quel po’ di opinione pubblica vagamente informata che ci può essere in una Russia dove tutti i mass media sono in poche mani perfino più che da noi, Putin ha fatto dire ai suoi "esperti" che il gas che ha usato non ha ucciso nessuno (affermazione clamorosamente smentita dall’assenza di fori da arma da fuoco sulla quasi totalità delle vittime, cecene o russe) e comunque sarebbe di un tipo ammesso dalle convenzioni internazionali. Anche se fosse vero (ci sono organismi internazionali disponibili a coprire ogni crimine) cosa cambierebbe? Quel che conta sono i fatti, il terribile bilancio di vittime innocenti. Autorizzate o no, sono armi infami, e sono state usate indiscriminatamente anche contro i propri cittadini presi come ostaggi, sicuramente innocenti.

Gli ostaggi nelle guerre e nei movimenti di liberazione

Ma la barbarie dei ceceni sarebbe provata dal ricorso alla cattura di ostaggi. Non c’è dubbio che si tratta di una forma di lotta che coinvolge sicuramente innocenti. Tuttavia non bisogna dimenticare quante altre forme di lotta colpiscono prevalentemente i civili: ad esempio i bombardamenti della capitale cecena, che solo tra il settembre 1999 e il marzo 2000 hanno provocato 30.000 morti. E non sono "cattura di ostaggi" le razzie di civili fatte dai russi in tutta la Cecenia, dagli USA in Vietnam, dai francesi in Algeria, dagli italiani in Libia?

D’altra parte, questa forma di lotta, il cui esito non è sempre catastrofico, è stata utilizzata da molti movimenti di liberazione per attirare l’attenzione sulla propria causa. Ad esempio, i barbudos cubani nel 1958 catturarono all’Avana il grande pilota automobilistico argentino Manuel Fangio, e anche diversi cittadini statunitensi (imprenditori e tecnici minerari). Le pressioni internazionali impedirono al dittatore Batista di puntare sulla linea dura, e gli ostaggi furono quindi liberati in cambio della pubblicazione di dichiarazioni dei guerriglieri, o della liberazione di prigionieri.

In moltissimi altri casi ci sono state soluzioni non cruente: in primo luogo pensiamo all’occupazione dell’ambasciata iraniana a Teheran nel 1979 da parte degli studenti integralisti islamici. Anche se ci furono tentativi (falliti) di soluzioni violente, alla fine la vicenda si concluse con la liberazione degli ostaggi (sostanzialmente al prezzo di una grossa perdita di prestigio degli Stati Uniti, paralizzati non tanto dalle scelte soggettive del presidente Carter quanto dalla "sindrome del Vietnam").

Anche il sequestro della nave da crociera Achille Lauro, effettuato da quattro giovanissimi palestinesi il 7 ottobre 1985, si poteva concludere in modo del tutto incruento. I quattro non dovevano impossessarsi della nave, ma nascondersi tra i turisti per sbarcare ad Haifa e compiervi un attacco. Una volta scoperti casualmente, forse per la leggerezza di uno di loro, dovettero tentare un’azione praticamente impossibile a un commando così piccolo: mantenere sotto controllo ben 460 persone, tra cui membri dell’equipaggio presumibilmente armati. Ci fu un solo morto, Leon Klinghoffer, un ammiraglio statunitense che dalla sedia a rotelle addentò la mano del sequestratore sedicenne che lo spingeva, e fu ucciso da una raffica di mitra. Su di lui si è scritto che era stato ucciso proprio perché era ebreo, perché paralitico, ecc., mentre al processo fu ricostruita la dinamica di un incidente dovuto prevalentemente al nervosismo di 4 persone che dovevano tenerne a bada 460.

Ma citiamo questo episodio (periodicamente fin troppo ricordato dalla stampa, celebrato con film, ecc., mentre un profondo silenzio ha fatto dimenticare l’uccisione di ben 73 tra palestinesi e tunisini da parte di un raid israeliano a Tunisi negli stessi giorni di inizio di ottobre) solo perché, a parte l’uccisione di Klinghoffer, dopo tre giorni di sequestro la trattativa evitò la catastrofe e i quattro si arresero alle autorità egiziane.

Viceversa in troppi altri casi, da Monaco nel 1972 a Bogotà nel 1985, a Waco negli Stati Uniti (contro una setta religiosa locale) la linea dura e l’intervento delle "teste di cuoio" ha provocato la morte di tutti o quasi gli ostaggi. e c’è soprattutto l’incredibile e prolungatissimo caso peruviano.

Il caso dell’ambasciata giapponese a Lima

Il 18 dicembre 1996 in Perù un commando del MRTA (movimento rivoluzionario Tupac Amaru, di tendenza guevarista) aveva occupato di sorpresa l’ambasciata giapponese durante una festa prendendo centinaia di ostaggi, tra cui le massime cariche dello Stato, gran parte degli ambasciatori accreditati a Lima, e la stessa madre del presidente peruviano di origine giapponese Fujimori. L’ambasciata giapponese aveva acquistato grande importanza sotto la presidenza di Fujimori, soprattutto perché il Giappone è diventato il secondo partner commerciale del Perù, subito dopo gli Stati Uniti. Il MRTA rilascia presto per motivi umanitari tutte le persone anziane e malate, tra cui la madre del presidente.

L’occupazione si protrae a lungo: il presidente peruviano finge di trattare e fa perfino un viaggio nella repubblica dominicana, per discutere la possibilità che quel paese offra asilo politico ai ribelli. Il 3 marzo 1997 anche Cuba offre la sua disponibilità ad accogliere i guerriglieri, che tuttavia rifiutano di espatriare e continuano a richiedere la liberazione di tutti prigionieri politici. Il 22 aprile un commando di "teste di cuoio" sferra un attacco di sorpresa che porta all’uccisione di tutti i guerriglieri e di un ostaggio inviso al presidente: il magistrato Carlos Giusti, che aveva sempre difeso l’indipendenza del potere giudiziario. Per il successo dell’irruzione delle teste di cuoio l’ambasciata era stata riprodotta fin nei minimi particolari in una foresta, con la consulenza degli Stati Uniti, sicché quando sono sbucati da un tunnel sotto l’ambasciata i militari sapevano perfettamente come muoversi. Inoltre una parte degli ostaggi aveva ricevuto il suggerimento di spostarsi nel lato opposto a quello in cui sarebbe avvenuta l’irruzione, grazie a una radio inserita in un immagine sacra portata dal vescovo di Lima, che i guerriglieri avevano lasciato spesso entrare nell’ambasciata per celebrarvi la messa. Le trattative erano servite solo a guadagnare tempo fino al momento di poter eseguire le condanne a morte decretate silenziosamente dal presidente Fujimori sia nei confronti degli ingenui guerriglieri che avevano avuto tante preoccupazioni umanitarie da rilasciare perfino sua madre perché anziana, sia nei confronti del magistrato scomodo. Oggi Fujimori è latitante: sta indisturbato in Giappone, nonostante sia ricercato dalle autorità del Perù per le immense ruberie e crimini compiuti quando era presidente.

Sono terroristi?

Ma torniamo ai ceceni. Praticamente tutti i giornali, con qualche riflesso sulla stessa "Liberazione", e con la positiva eccezione di Ettore Mo (che ha portato sul "Corriere della sera" una commossa testimonianza sulle sue esperienze cecene), hanno usato sistematicamente il termine "terrorista" nei confronti dei combattenti ceceni. Eppure si trattava di un atto di guerra, non di terrorismo. Perché la Russia può colpire e distruggere Grozny e quello che resta delle formazioni militari della repubblica cecena non possono colpire Mosca?

Naturalmente non hanno più aerei o altre armi pesanti, gli rimane solo qualche kalashnikov e qualche chilo di tritolo. A chi li critica per le forme di lotta scelte (tra l’altro dimenticando che già nelle prime ore dell’occupazione del teatro avevano fatto uscire bambini e malati) potrebbero rispondere come quegli algerini che durante la lotta di liberazione, a chi chiedeva perché usavano "mezzi barbari" come le borse della spesa piene di esplosivo depositate nei bar, dicevano di essere disposti a dare ai francesi le loro sporte, in cambio degli aerei, degli elicotteri e dei blindati. La stessa osservazione è stata fatta da un giovane palestinese a proposito delle cinture esplosive.

I ceceni lottano legittimamente. Negare loro il diritto di lottare per l’indipendenza, significa accettare la logica dell’imperialismo, dei difensori dello status quo.

Le frontiere ingiuste non possono essere intoccabili, e in Europa e nel mondo non ci sono frontiere giuste: quelle europee sono il risultato di lunghe guerre e non della consultazione dei popoli; quelle degli altri continenti, il lascito delle spartizioni tra le potenze coloniali. D’altra parte, negare il diritto all’autodecisione con l’argomento della lunga durata dell’occupazione è ugualmente inaccettabile: in base ad esso la Polonia non avrebbe dovuto ottenere l’indipendenza nel 1918, e ancor meno la Cecoslovacchia, che in quanto tale non era mai esistita. Ma questo diritto viene ancor oggi negato o "dimenticato" anche da gran parte della sinistra.

I comunisti che vogliono essere veramente "rifondatori" devono spazzare via tutto il giustificazionismo della politica di potenza entrato nella mentalità e nel vocabolario del PCI durante il lungo periodo staliniano e post-staliniano. Devono smettere di considerare sacrosanto e immutabile lo status quo, comprendendo che ogni "ordine" basato sull’oppressione di un popolo in base a presunti "diritti storici" genera inevitabilmente guerre orribili e porta il mondo sull’orlo della barbarie.

La lotta del popolo ceceno dura almeno dal 1770: non si è mai piegato; ha lottato contro lo zar, suscitando l’ammirazione di una parte dei suoi nemici, come il giovane Tolstoj; ha accolto con favore la Rivoluzione d’ottobre, ma ha ripreso a ribellarsi contro la russificazione forzata dal periodo di Stalin ed è stato deportato in massa nell’Asia centrale durante la seconda guerra mondiale, perdendo quasi un terzo della popolazione in quel tragico contesto. Su questo rinviamo a una ricostruzione storica tratta da un articolo apparso nel febbraio 2000 su "Bandiera Rossa", che riportiamo in Appendice.

Putin ha ucciso deliberatamente anche i russi

Alcuni sono stati sorpresi dalla strage di ostaggi, e hanno pensato che le lacrime di Putin davanti alla TV fossero reali e dovute a un esito imprevisto. Non è vero. L’uccisione degli ostaggi era scontata e non è affatto una novità. Chi pensa che un governo non può deliberatamente far morire i propri cittadini è un ingenuo o un ignorante (se ne erano resi conto anche alcuni degli ostaggi che erano riusciti a mettersi in contatto telefonicamente con una radio). Di casi del genere ce ne sono stati tantissimi nel mondo.

Se ne è parlato a proposito dei molti sospetti sulle responsabilità di chi, dall’interno degli Stati Uniti, potrebbe avere — se non organizzato — almeno favorito l’attentato alle Twin Towers, allentando ad esempio intenzionalmente le misure di sicurezza o infiltrando qualche gruppo terrorista per potenziarne la capacità distruttiva. A chi escludeva come assurda questa ipotesi, è stato ricordato che c’erano molti precedenti: quello di Pearl Harbour, ad esempio, a cui si fece spesso riferimento nei commenti del primissimi giorni dopo l’11 settembre e che poi nessuno ha più nominato, quando vari giornali hanno ricordato che i marinai statunitensi morti a migliaia in quell’attacco potevano essere salvati, dato che da tempo erano stati decifrati i codici della flotta e dell’aviazione giapponese, ma furono lasciati morire da Roosevelt per creare un impatto psicologico che riducesse l’ostilità dell’opinione pubblica all’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale.

Tra gli altri precedenti famosi ci fu l’esplosione nel 1898 dell’incrociatore statunitense Maine, giunto nel porto dell’Avana per una non richiesta visita di cortesia. L’attentato fu attribuito dal governo degli Stati Uniti alle autorità spagnole, che negarono e che comunque non ne potevano ricavare nessun vantaggio. Il dato sospetto è che nella notte in cui avvenne l’esplosione a bordo non c’era nessun ufficiale, ma solo poveri e oscuri marinai, la cui morte fornì il pretesto per la dichiarazione di guerra degli USA alla Spagna, e la successiva conquista di Cuba, Portorico, Filippine e Guam.

D’altra parte, in tutti quei casi, come anche in questo, l’obiettivo da raggiungere è giustificare agli occhi dei propri cittadini una guerra già decisa o da potenziare. E chi prepara una guerra dà per scontato che in essa moriranno molti soldati del proprio paese. Perché non sacrificarne alcuni trasformandoli in "detonatore psicologico" o almeno in vittime che dovrebbero nobilitare una guerra presentandola come un atto di giustizia e di sacrosanta ritorsione?

Ma non va neppure dimenticato che anche in Italia il terrorismo "nero" (che non a caso non rivendicava i suoi attentati per farne ricadere la responsabilità sui nuovi movimenti) ha fatto morire tante vittime innocenti a Piazza Fontana, alla stazione di Bologna, con numerosi attentati ai treni. Ed era un terrorismo "nero" solo se si considerano gli esecutori, la manovalanza, ma era in realtà un "terrorismo di Stato", che voleva creare un clima favorevole a una dura stretta repressiva.

D’altra parte, abbiamo già ricordato come lo sconosciuto Putin preparò la sua ascesa combattendo un "pericolo del terrorismo ceceno" che moltissimi commentatori anche non russi considerarono inventato e organizzato dai servizi, e che non a caso colpiva a caso innocui condomini. Lo ricordiamo naturalmente non per insinuare che anche questa volta ci sarebbe stato lo zampino dei servizi, magari occidentali, come hanno fatto in parecchi, compreso Giulietto Chiesa e Ramon Mantovani, ma solo per ribadire che tanto cinismo nel mettere in gioco la via di "sudditi" innocenti non può stupire in un uomo con quel passato. E sull’indifferenza di Putin per la vita dei russi, basti ricordare che, quando il 12 agosto:del 2000 affondò il sottomarino nucleare russo "Kursk", per giorni e giorni vennero rifiutati i soccorsi norvegesi e britannici, e si fornirono notizie false, mentre Putin rimaneva in vacanza. Solo dopo molti giorni inizieranno le inutili operazioni di soccorso: i 118 marinai erano tutti morti, ma non nell’esplosione che aveva provocato la catastrofe, bensì nei giorni successivi. Potevano quindi essere salvati, se ci si fosse preoccupati delle loro vite e non del "prestigio" della Russia.

Putin in difficoltà

Forse le lacrime di Putin potrebbero essere vere, ma per tutt’altra ragione. Il successo militare ha parecchie contropartite. Non pochi russi, magari momentaneamente soddisfatti perché gli odiati ceceni sono stati spazzati via, possono cominciare a domandarsi a che è servito aver ripreso a freddo la guerra nel 1999, stracciando l’armistizio firmato dal generale Lebed, che aveva funzionato per tre anni, se oggi i russi non possono stare tranquilli neppure a Mosca. Gli attentati del 1999 non si erano ripetuti semplicemente perché erano stati organizzati non dai ceceni, ma dai servizi che volevano lanciare il loro Putin nella successione a Eltsin. Ma questa è stata un’azione militare vera, un tentativo di un popolo piccolo e martoriato di ottenere giustizia o almeno attirare l’attenzione sulla propria terribile situazione: dopo questa tragica conclusione sarà ancora più facile trovare altri uomini e altre donne disposti a sacrificarsi, per ribadire la propria volontà di indipendenza e per vendicare i caduti.

Chi nel 1999 ha approvato i metodi di Putin in Cecenia, oggi deve riflettere sul fatto che martoriare un popolo, polverizzarne le città, non impedisce e anzi moltiplica risposte di questo tipo.

Inoltre, una volta applicati a Mosca i metodi e la logica di Bush e Sharon, diventerà più complesso spiegare perché la Russia li rifiuta almeno parzialmente in Iraq e in Palestina: in realtà, essa cerca di differenziarsi da Bush perché sa che l’incendio del Medio Oriente rischia di propagarsi alle molte decine di milioni di islamici presenti nella CSI e nella stessa Federazione russa, con effetti ben più terribili di quelli che può avere la vendetta dei ceceni.

Bin Laden deus ex machina?

Putin ha insinuato spesso che i ceceni si muovono in collegamento con Bin Laden. Se non ci fosse dietro una terribile tragedia, ci farebbe solo ridere. Se Bin Laden fosse davvero ancora in grado di muovere schiere di uomini da Mosca a Bali, dalla Virginia all’Iraq, allora a maggior ragione ci si potrebbe domandare a cosa sia servita la guerra in Afghanistan, che Putin da un lato, il governo cinese dall’altro, hanno approvato per avere via libera nella repressione delle loro minoranze, presentate come "fondamentaliste islamiche".

Anche da noi i commentatori più cinici negano ogni evidenza, e continuano a immaginare un grande burattinaio che spingerebbe gli uomini a immolarsi in nome del trionfo del male (e magari per avere in premio 70 vergini in paradiso). Analogamente, continuano ad accusare Arafat di essere responsabile di ogni gesto disperato di un palestinese (i vari Paolo Guzzanti lo facevano esattamente con le stesse parole nel 1985, dicendo "o è complice dei sequestratori, o è incapace, in ogni caso va spazzato via"), pretendendo che il vecchio leader - assediato e umiliato e privato di tutte le infrastrutture — riesca a bloccare gli attentati a Tel Aviv.

Per far passare questa ipotesi poliziesca e inverosimile, devono introdurre, con l’aiuto dei devoti di santa Oriana Fallaci che allignano nelle redazioni dei grandi giornali "indipendenti", un elemento di barbarie profonda nel senso comune degli italiani, presentando l’Islam - che è stato per molti secoli una regione ben più tollerante del cristianesimo e che ospitava gli ebrei scacciati dall’Europa - come la religione dell’odio e dell’intolleranza; e mettendo in conto ogni lotta di indipendenza al fattore religioso, fino a pochi anni fa marginalissimo in Cecenia (come in Palestina) e che poi ha acquistato progressivamente peso solo come elemento identitario e di consolazione religiosa nelle terribili avversità incontrate.

Ma questa barbarie del razzismo e dell’odio religioso antislamico ha anche un’altra funzione, oltre a quella di cancellare le responsabilità degli oppressori nei conflitti odierni: creare il terreno adatto per le nuove leggi razziali, di cui la Turco-Napolitano prima e poi la Bossi-Fini sono solo il preannuncio.

(Lecce, 27 ottobre 2002)

 

Appendice

Un po’ di storia del colonialismo russo nel Caucaso

La Russia ha cominciato i suoi tentativi di penetrazione nel Caucaso addirittura al tempo di Ivan il Terribile, che nel 1556 era arrivato fino al fiume Terek, che scorre nelle pianure settentrionali dell’attuale Cecenia. Nel 1722 un altro zar, Pietro il Grande, invase per breve tempo il Daghestan, e i suoi successori nel 1770 riuscirono a occupare la Cecenia, prendendo a pretesto una richiesta di aiuto da parte dei ceceni occidentali (oggi chiamati ingusci), che allora erano cristiani.

Ma già tre anni dopo una grande rivolta dei ceceni orientali, da poco convertiti all’Islam, scaccia i russi dalla regione. Per ben diciotto anni, le truppe russe sono ricacciate indietro da una "guerra santa" che ha come leader una singolare figura di avventuriero, che si fa chiamare Mansur Ushurma, ma che è arrivato nel Caucaso come missionario cattolico: padre Giovan Battista Boetti, un domenicano originario del Monferrato che a trent’anni si era convertito all’Islam. I ceceni (a cui si aggiungono anche altre popolazioni del Caucaso, compresa una parte degli ingusci, diventati anch’essi musulmani per combattere gli invasori) sono convinti che Mansur abbia il dono dell’ubiquità, mentre i russi insinuano che per sostenerlo si serva di un sosia ceceno. Per qualche tempo si forma una confederazione antirussa che comprende il Daghestan, e a cui si aggregano osseti, cabardini e circassi, che si scioglie solo dopo la cattura di Mansur, avvenuta nel 1791. Una parte della popolazione viene deportata, e nelle terre migliori vengono insediate colonie di cosacchi).

Da allora il dominio russo si consolida e dura ininterrottamente fino alla comparsa degli attuali "terroristi"? Neanche per niente. Già nel 1824 scoppia una rivolta ancora più grande, che porta alla creazione di un Emirato del Caucaso del Nord sotto la direzione di Imam Shamil. Di fatto la regione riconquista l’indipendenza, che dura fino al 1859 (dopo la sconfitta nella guerra di Crimea, i russi hanno concentrato tutte le loro forze per avere se non una rivincita, una compensazione). La vittoria russa non è facile, tanto è vero che devono riconoscere a Shamil l’onore delle armi e concedergli di ritirarsi (finirà i suoi giorni in esilio alla Mecca). Una parte degli sconfitti lo segue e si installa nell’impero ottomano, e altri 25.000 ceceni emigreranno nel 1865 per sfuggire all’oppressione russa; ancora una volta nelle terre dei vinti giungono i cosacchi, che devono garantire la fedeltà allo zar di quella inquieta regione.

Nei decenni successivi non ci saranno rivolte di analoga ampiezza , ma il ricordo di quelle precedenti alimenta il nazionalismo. Anche se la scoperta del petrolio nel 1900 comporta mutamenti sociali importanti, e determina l’afflusso di una classe operaia proveniente dalla Russia o dall’Azerbaigian, quando la rivoluzione d’Ottobre proclama il diritto all’autodecisione e fa appello a "tutti i lavoratori musulmani della Russia e dell’Oriente" a costruire liberamente la loro vita nazionale e rovesciare i predoni e gli oppressori dei loro paesi, i ceceni sono tra i primi a rispondere costituendo, già il 15 dicembre 1917, una repubblica autonoma del Caucaso del nord, che nel maggio successivo proclama la sua indipendenza.

Dopo anni di lotte convulse, a cui partecipano forze turche che occupano per qualche tempo Azerbaigian e Daghestan, nel febbraio 1920 l’esercito islamico di Huzun Haji risulta determinante per schiacciare - insieme all’Armata rossa — le truppe controrivoluzionarie di Denikin. I bolscevichi offrono a Huzun Haji la carica di muftì della Ciscaucasia, ma dopo la sua morte provocano una ribellione islamica guidata da Said Bek. Dopo alcuni successi, gli islamici vengono sconfitti, ma i comunisti, consapevoli di essere odiati perché appaiono gli eredi della Russia zarista, concedono un’ampia amnistia, e riconoscono nuovamente i diritti nazionali dei popoli del Caucaso del nord. Nel gennaio 1921 viene così costituita a Vladikavkaz una "Repubblica sovietica autonoma dei popoli montanari", la cui autonomia è così grande che al suo interno viene applicata la sharia, la legge islamica. Negli uffici pubblici compare il ritratto dell’Imam Shamil. Ai ceceni vengono restituite le terre che erano state confiscate sotto gli zar e assegnate ai coloni cosacchi.

Tuttavia il progetto leninista viene accantonato subito dopo la morte di Lenin. Già nel 1924 Stalin (che nel 1921 era stato presente a Vladikavkaz al momento della sua formazione) scioglie la "Repubblica della montagna", e inserisce nella Federazione russa le varie nazionalità ridotte al rango di regioni autonome.

Nel 1928 alla lingua cecena, che veniva trascritta usando l’alfabeto arabo, viene imposta la trascrizione in caratteri latini (e poi, successivamente, in quelli cirillici, nel quadro di una russificazione strisciante). Contemporaneamente comincia la collettivizzazione forzata dell’agricoltura e della pastorizia, che significa in quelle regioni anche una sedentarizzazione forzata dei nomadi. Nello stesso anno vengono abolite le scuole coraniche e abolita la sharia.

Nel 1929 esplode una grande rivolta dei ceceni, che viene conclusa l’anno dopo con un armistizio e la concessione di un’amnistia. Ma subito dopo vengono epurati i quadri comunisti indigeni, sostituiti da russi. L’amnistia viene revocata e gran parte dei capi della rivolta del 1929 vengono fucilati. Il risultato è che una nuova rivolta scoppia nel 1931, e dura fino al 1936.

Nel 1934 intanto Cecenia e Inguscezia, sempre senza essere consultate, vengono raggruppate in una sola repubblica autonoma all’interno della Russia. La storia degli anni successivi conferma che i ceceni non si rassegnano: nel 1940 scoppia una nuova ribellione, guidata da un comunista indigeno, Hassan Israilov.

Nel 1941, al momento dell’aggressione nazista, Hitler, che punta alla conquista del petrolio del Caucaso e che ha studiato bene le contraddizioni interne dell’Unione Sovietica, lancia un appello ai musulmani a cui offre protezione (d’altra parte un analogo atteggiamento era stato sperimentato nei Balcani, e nel Vicino e Medio Oriente, in chiave antibritannica). La Germania nazista ha ereditato anche i legami dell’impero germanico con quello ottomano, che aveva offerto protezione a un "governo in esilio del Caucaso del Nord", che continuò a pubblicare per anni a Berlino la sua rivista "Caucasus". Uno dei suoi redattori, Alì Khan Kantemir, segue le truppe naziste e organizza un comitato di liberazione a cui partecipa un generale di origine daghestana, Bicerakhov.

Alcune migliaia di balcari, caraciai, e daghestani si arruolano come volontari nelle formazioni ausiliare tedesche. Non in Cecenia, dove invece un comunista locale, Mairbek Sheripov, tenta nuovamente un’insurrezione indipendentista, senza nessun aiuto dei tedeschi, che non riescono a occupare la Cecenia-Inguscezia. Ma per Stalin fa lo stesso, e la vendetta colpisce in blocco tutti quei popoli, senza distinguere tra chi ha collaborato veramente con i nazisti e chi li ha combattuti nelle formazioni partigiane. Oltre un milione di ceceni, ingusci, balcari, caraciai, ecc. vengono deportati a partire dal 23 febbraio 1944 in Asia centrale e in Siberia. Un terzo di essi muore durante il trasporto in carri bestiame non riscaldati e sigillati. La stessa sorte tocca ai tatari di Crimea, ai calmucchi e ai meschi di Georgia, e ai tedeschi del Volga, istallati nella zona da due secoli e che erano stati il pilastro del potere bolscevico durante la guerra civile.

I ceceni torneranno solo dopo la morte di Stalin, nel 1957, trovando tuttavia le loro terre e le loro case occupate da altri. Tedeschi, meschi e tatari hanno dovuto aspettare Gorbaciov per tornare...

Non c’è dubbio che i ceceni non si siano mai rassegnati alla dominazione russa, che anche dopo la fine dello zarismo appariva tale, e che fu codificata negli ultimi anni di Stalin con la teoria della superiorità conquistata dalla nazione russa nella "grande guerra patriottica", che le assegnava il diritto di essere riconosciuta come "guida" dell’intera Unione Sovietica.

Al momento dello sfascio dell’URSS, i ceceni, come altri popoli, dal Baltico all’Asia centrale, rivendicano la loro indipendenza, la conquistano facilmente e la consolidano tra il 1991 e il 1993. In quell’anno parte il primo tentativo di riconquista russa, che si concluderà nel 1996 con un fallimento, dopo aver provocato danni incalcolabili. Il generale Lebed ha firmato un accordo che riconosce di fatto l’indipendenza della Cecenia, che peraltro, date le sue dimensioni e la sua integrazione col tessuto economico dell’ex URSS, è disposta a realizzare una qualche forma di federazione.

L’attuale attacco, innescato da misteriosi e non rivendicati attentati a Mosca, che sembrano piuttosto partiti dai servizi segreti di Putin, serve a rialzare il prestigio di Eltsin e a preparare il passaggio del potere al suo più giovane collaboratore. Ma serve anche ad ammonire altri popoli della Russia e della ex Unione Sovietica, che il potere centrale non tollererà secessioni o ulteriori autonomizzazioni. In nome di che? Dei diritti storici della Russia, cioè dell’aver mantenuto per due secoli sotto il suo tallone di ferro un popolo indomito. (...) (17/1/2000)

(Estratto da un articolo di Antonio Moscato apparso nel num. 96 di "Bandiera rossa", febbraio 2000.).