Le gerre balcaniche 1912-1913.
Recensione al libro di Lev Trotsky, edizioni Lotta Comunista, Milano. Di Michele Corsi. Dicembre 1999.


Trotsky e i Balcani.

Il libro che presentiamo raccoglie gli scritti di Trotsky sulle guerre balcaniche, in gran parte redatti come corrispondente di guerra del Kievskaja Mysl' ("Il pensiero di Kiev"), definito da Trotsky "giornale radicale con venature marxiste [...] un quotidiano del genere non poteva che esistere a Kiev, dove l'industria era poco sviluppata e gli antagonismi di classe non erano molto acuti, dove esistevano tradizioni di radicalismo intellettuale" (1) al quale aveva cominciato a collaborare dal giugno 1908, per mantenersi a Vienna dove si trovava in esilio. "Naturalmente in un giornale pubblicato legalmente e che non apparteneva al partito, non potevo dire tutto quello che avrei voluto dire. Ma non scrissi mai quello che non volevo dire" (2).
La raccolta, tradotta qui in italiano per la prima volta, riproduce un analogo volume nell'originale russo che costituiva il sesto volume delle opere complete (uscì nel '26), serie interrotta dall'avvento dello stalinismo. Il volume è integrato da altri materiali tra i quali corrispondenze per giornali (come il Den' di Pietroburgo, quotidiano della sinistra liberale), interventi a congressi, ecc. riguardanti le guerre balcaniche. Il libro non ordina gli articoli in maniera utile a comprendere i passaggi del pensiero di Trotsky e la progressione dell'impatto che la guerra ebbe su di lui, avendo preferito il curatore un raggruppamento per "argomenti".
Trotsky ci restituisce un quadro vivissimo delle guerre balcaniche e il libro costituisce anche un'ottima lezione sul mestiere di "corrispondente". Facendo un ingiusto confronto con un altro noto marxista (anche se ai tempi era ancora un "radical"), John Reed, che come Trotsky percorse i Balcani come corrispondente (del Metropolitan) ma due anni dopo e in piena guerra mondiale (3), emerge la netta superiorità di Trotsky, non solo dovuta alle eccezionali capacità di scrittura, ma anche ad una metodologia scientifica di analisi che Reed ai tempi non possedeva, ed anche agli ampi rapporti con il movimento socialista balcanico che consentivano a Trotsky l'apertura di molte porte. Leggendo Reed si ha l'impressione di un volenteroso giornalista americano al quale però nessun interlocutore locale racconta le cose come realmente come sono. Trotsky invece applica una tecnica di indagine inesorabile che scandaglia varie figure sociali, cogliendo di queste i tratti psicologici e politici essenziali; incontra e interroga il povero contadino così come l'ufficiale, il ministro ed il rivoluzionario, l'ebreo e il turco, gente altolocata e i miserabili delle periferie. Il tutto con notevoli capacità narrative (si legga a mo' di esempio "Una visita in Dobrugia" da pag.373).

Trotsky si trovava all'epoca in una fase di forte opposizione a Lenin visto da lui come l'arteficie di una scissione (formalizzata nel gennaio 1912) del Partito Socialdemocratico Russo che non condivideva affatto. Proprio al fine di riunificare menscevichi e bolscevichi aveva organizzato nell'agosto del 1912 una conferenza che fu però disertata dai bolscevichi trovandosi così in compagnia dei soli menscevichi coi quali, dal punto di vista delle posizioni politiche, condivideva assai poco. "La Kievskaja Mysl' mi propose di andare nei Balcani come corrispondente di guerra. Era una proposta tanto più gradita in quanto la conferenza di agosto si era conclusa con un aborto. Sentivo il bisogno di sottrarmi , almeno per qualche tempo, alle faccende dell'emigrazione russa. Alcuni mesi passati nella penisola balcanica furono per me un grande insegnamento". (4) Trotsky era stato solo per brevi periodi nei Balcani a partire dal 1910, in particolare a Sofia e Belgrado (alcune sue impressioni su questi viaggi sono riportate nella prima parte del libro): sono dunque questi i suoi due punti di riferimento. In complesso si occuperà di Balcani per un anno, ma con vari e prolungati ritorni a Vienna, anche se dai suoi biografi e dallo stesso libro non è facile dedurne con precisione gli spostamenti.
È certo che entra in Serbia all'inizio dell'ottobre 1912 e prosegue subito per Sofia, in Bulgaria, dove soggiorna sino alla fine di novembre. All'inizio di dicembre è a Belgrado dove permane sino alla fine di dicembre. Nell'aprile e nel luglio del 1913 è in Bulgaria. A settembre resta un mese in Romania. Diciamo dunque che Trotsky, per gli impedimenti di censori e militari contro i quali non smetterà mai di protestare, non fu un corrispondente di prima linea, ma grazie ai suoi pressanti interrogatori di prigionieri, feriti, reduci, ecc. si ha un'idea molto viva di cosa era il fronte e di cosa vi accadeva.

L'impatto con la guerra é per Trotsky sconvolgente. Come giustamente osserva Broué "all'inizio di un secolo che per molti sarebbe stato quello delle guerre e delle rivoluzioni, il giovane rivoluzionario, al pari del resto del resto della maggior parte degli uomini della sua generazione, non aveva mai visto la guerra." (5) Lo stesso Trotsky scrive in questa raccolta:

"La concezione astratta, moralistica, umanitaristica dei processi storici è del tutto sterile. Lo so perfettamente. Ma questa massa caotica di acquisizioni materiali, di costumi, di abitudini e di pregiudizi che chiamiamo civilizzazione ci ipnotizza, ci ispira una falsa fiducia nell'idea che l'umano progresso abbia già realizzato le conquiste maggiori. D'un tratto, la guerra ci rivela che procediamo ancora a quattro zampe e che non siamo tuttora usciti dal grembo dall'era barbarica della nostra storia. Abbiamo imparato a portare le giarrettiere, a scrivere intelligenti articoli progressisti, a fare il caffè e la cioccolata Milka. Ma quando si tratta di affrontare seriamente il problema della convivenza di poche tribù in una fertile penisola dell'Europa, non sappiamo escogitare altro metodo che il reciproco sterminio su scala di massa." (160)

Scriverà nella sua autobiografia:

"Sapevo benissimo già allora che un atteggiamento umanitario-moralistico di fronte al processo storico è il più sterile degli atteggiamenti. Ma non si trattava di interpretare, bensì di vivere una esperienza. Il mio animo era dominato dal sentimento immediato, inesprimibile, della tragicità della storia: impotenza di fronte al destino, dolore bruciante per le cavallette umane! [...] Gli anni 1912-1913 mi hanno fatto conoscere da vicino la Serbia, la Bulgaria, la Romania e capire che cosa sia la guerra. Per molti aspetti fu una eccellente preparazione non solo per il 1914, ma anche per il 1917" (6).

Da questo libro possiamo ricavare ottimi dati storici (non solo sulla guerra, si vedano ad esempio le note sulla natura, le potenzialità e i limiti strutturali dei partiti socialisti balcanici), ed anche insegnamenti di metodo, utili anche per capire oggi come interpretare le vicende balcaniche, ma più in generale come affrontare la questione nazionale. Ci dilungheremo qui di seguito su quest'ultimo aspetto, avendo ben presente che proprio lì si situano le difficoltà interpretative (a dir poco) in cui si é imbattuta la sinistra nel nostro Paese nel dover approcciare le guerre balcaniche degli anni novanta.

Il metodo: l'importanza delle dinamiche nazionali.

Nell'analisi della realtà balcanica Trotsky utilizza costantemente due piani interpretativi: quello nazionale e quello di classe. Non li sovrappone, non stabilisce ordini di importanza, non li mescola. Dà per scontato, si direbbe, che la questione nazionale goda di una propria autonomia e concorre al pari delle determinazioni economiche a spiegare gli avvenimenti storici.
Un ottimo esempio di questo approccio é costituito dalla breve ma brillante esposizione della dinamica che portò alla rivoluzione dei "giovani turchi". Dato che dal punto di vista sociale non dà importanza solo alle classi, ma anche agli strati sociali, spiega il ruolo dell'ufficialità turca con il fatto che l'arretratezza del governo del Sultano aveva portato gli strati intellettuali, che in altri Paesi sarebbero stati giornalisti, insegnanti, avvocati, ad integrare le file dell'esercito, e da lì svolgere quel ruolo "nazionale" che anche in altri stati balcanici nel bene o nel male questo ceto stava svolgendo:

"Affrontando i compiti che aveva di fronte (il conseguimento dell'indipendenza economica, dell'unità nazionale e statale, della libertà politica), la rivoluzione turca rappresentava l'autodeterminazione della rivoluzione borghese e, in questo senso, era tutt'uno con la tradizione del 1789-1848. L'eseercito, guidato dagli ufficiali, funzionava come organo esecutivo della nazione." (32)

Le categorie di nazione e lotte nazionali vengono utilizzate per spiegare il corso della rivoluzione:

"I Giovani Turchi tuttavia si sono recisamente rifiutati di seguire questa strada [quella di uno stato federale]. Rappresentando la nazionalità dominante [corsivo nostro n.d.r.] e avendo il controllo dell'esercito nazionale, aspirano a essere e restare dei nazionalisti-centralisti." (p.33).

Dunque le dinamiche nazionali e di classe portano questo particolare ceto di intellettuali ad essere l'espressione allo stesso tempo della borghesia e della nazionalità dominante. Ma proprio per non essere riusciti a dare risposte sui due piani tre anni più tardi Trotsky scriverà:

"Dai racconti dei prigionieri appare in tutta evidenza il grado di disgregazione al quale è giunto il corpo degli ufficiali turchi. Elevati al potere da un'ondata di generale malcontento, gli ufficiali si sono immediatamente posti in contrasto con i gruppi culturalmente più avanzati del paese, cioè con l'insieme della popolazione cristiana. Non hanno degnato della benché minima attenzione le questioni sociali e si sono di conseguenza isolati dalle masse. Eccoli dunque trasformati in una casta di potere che ordisce in segreto le proprie trame, condannata all'inevitabile degenerazione e al decadimento interno." (p.217)

Il metodo utilizzato dunque è quello di considerare come attori dei cambiamenti sociali non solo le classi, ma anche le nazioni. Un'abitudine che era data per scontata dal marxismo classico, ma che purtroppo è andata completamente perdendosi.
Naturalmente le questioni nazionali non sono le uniche determinanti: "Dopo (corsivo nostro n.d.r.) quella nazionale s'affaccia la questione sociale" (p.33) dove descrive la questione contadina, quella operaia, ecc. E sintetizza con una frase quello che dovrebbe essere l'approccio costante di un metodo interpretativo che vuol essere materialista senza scadere nel meccanicismo:

"Implacabilmente essa [la storia] suscita lo scontro tra le forze vive del paese, attraverso aspre lotte, le costringe a produrre una risultante."(p.35)

L'importanza della questione nazionale emerge chiaramente anche nelle innumerevoli pagine dedicate a singole nazionalità: quelle indignate contro la discriminazione degli ebrei (la visita al quartiere di Juc-Bunar di Sofia, pp.235-239 e il pezzo sulla "questione ebraica" in Romania dove gli ebrei costituivano 1/3 degli abitanti della città e dei quali Trotsky critica l'Unione degli Ebrei Romeni, perché capitolarda proprio sul piano dei diritti nazionali, pp.348-356), quelle ammirate nei confronti dei volontari armeni che agli ordini del "leggendario" Andranik combatterono al fianco dei bulgari una guerra "un po' meno sporca" (pp.261-270, mentre la "questione armena" é affrontata alle pp.253-261, dove apprendiamo che all'epoca coloro che conducevano la pulizia etnica antiarmena per conto dei turchi erano ... i curdi), quelle incuriosite dedicate ai rivoluzionari macedoni (pp.246-252). Altre pagine vibranti sono dedicate alla denuncia di spartizioni territoriali che prescindevano totalmente dalla volontà dei popoli, come fu il caso dei bulgari del "Qadrilatero" della Dobrugia passati sotto la Romania, quando questa aveva "assalito alle spalle" la Bulgaria durante la seconda guerra balcanica, o dei macedoni per i quali i contadini bulgari avevano combatturo ed erano morti a migliaia (come gli stessi macedoni), per ritrovarsi con una terra passata dall'occupazione turca a quella greca e serba (pp.322-326).

Ma Trotsky non si limita ovviamente all'indignazione. Da ciò che osserva ne fa derivare delle conseguenze politiche (sulle quali quella che é prevalentemente una raccolta di corrispondenze per un giornale borghese ovviamente é parca) e quando scrive dei socialisti romeni assegna loro compiti che riguardano anzitutto le questioni nazionali irrisolte:

"Solo il partito dei lavoratori della Romania attribuisce alla questione ebraica la debita importanza. Esso ne fa una questione di lotta per la democrazia, inseparabile dall'abolizione del dominio politico ed economico dell'oligarchia semifeudale. Oltre al partito dei lavoratori non esiste in Romania un'altra forza democratica, organizzata e cosciente dei propri compiti. Ma questo non significa l'isolamento del partito socialista. Al contrario, al partito si pone l'obiettiva necessità di assumere la guida di tutti quei soggetti oggi politicamente passivi, la cui esistenza e sviluppo sia però incompatibile con l'attuale regime. Sono innanzitutto i contadini romeni scossi nel profondo dalla guerra, poi le masse lavoratrici ebree che l'Unione trascina sul terreno dell'illusione politica e delle umiliazioni; infine la popolazione democratica della Dobrugia, la quale domani o dopodomani dovrà preoccuparsi di decidere l'atteggiamento da tenere nei confronti dell'ordine politico vigente in Romania."(p.340)

Piccoli imperialismi.

È interessante anche l'utilizzo che Trotsky fa del termine "imperialismo", più tardi utilizzato da gran parte dei marxisti solo nella sua accezione economica (per cui "imperialisti" sarebbero solo i Paesi industrialmente avanzati che godono di un surplus dovuto allo sfruttamento dei Paesi capitalisti dipendenti). Trotsky utilizza il termine anche per designare quelle piccole potenze che, pur essendo capitaliste dipendenti (diremmo noi oggi, ma all'epoca Trotsky chiamava "arretrate"), hanno una politica espansionista non nazionale, intendendo con ciò uno stato che non ha come obiettivo l'unificazione nazionale (obiettivo considerato legittimo), ma la conquista di territori dove risiedono altre nazionalità.
Così definisce "imperialismo" quello greco ("quello di più antica data") e quello bulgaro:

"Su principi imperiastici, non nazionali, era fondata la politica macedone della Bulgaria. L'obiettivo era sempre il medesimo: l'annessione della Macedonia. Il governo di Sofia sosteneva i Macedoni nella misura in cui riusciva a legarli a sé, in caso contrario tradiva senza scrupoli gli interessi che potevano allontanare i Macedoni dalla Bulgaria." (p.320)

Anche quello serbo é un imperialismo poiché

"si è dimostrato assolutamente incapace di procedere lungo la via normale, vale a dire nazionale. L'Austria-Ungheria racchiudeva nei suoi confini più della metà dei Serbi e sbarrava la strada alla Serbia. Essa ha quindi puntato verso la via più facile, cioè in direzione della Macedonia. Le conquiste nazionali decantate dalla propaganda serba sono state in realtà pressoché insignificanti. Più ampie appaiono invece le conquiste territoriali fatte dall'imperialismo serbo. I suoi confini racchiudono ora mezzo milione circa di Macedoni, oltre al mezzo milione di Albanesi che già imprigionavano. Che strepitoso successo! Bisogna però aggiungere che quel milione di cittadini ostili potrebbe dimostrarsi fatale per l'esistenza della Serbia storica..." (321)

Il giudizio sull'imperialismo romeno non é da meno:

"L'impresa di costituirsi in una nazione e in uno Stato sembrava più semplice per i Bulgari, dato che i connazionali situati fuori dei confini del regrzo erano tutti soggetti al dominio dell'estenuata casta turca, al contrario dei Serbi dominati dall'Austria-Ungheria, oppure dei Romeni sottomessi all'Austria-Ungheria e alla Russia. Ma la realtà ha smentito quest'ipotesi. I Serbi e i Romeni - trovando sbarrata dalle grandi potenze la direttrice settentrionale, la loro naturale linea di sviluppo - hanno allungato le mani sul territorio bulgaro." (321)

I "rivoluzionari nazionali".

Trotsky nella sua vita politica in Russia, nell'emigrazione russa e nella socialdemocrazia internazionale non era venuto mai a contatto con rivoluzionari che lottassero non sul piano della lotta di classe, ma su quello della lotta nazionale (infatti quando pensa a dei paragoni cita Mazzini). È dunque con molta curiosità che si avvicina ai rivoluzionari macedoni. In Macedonia nel 1893 sorsero gruppi irregolari di guerriglia chiamati Komitadzi, che diedero l'esempio anche altri gruppi etnici, che più tardi col nome generico di "cetnici" (termine serbo che significa "banda"), cercavano di indebolire dall'interno gli occupanti ottomani (serbi, greci, valacchi) conducendo azioni contro gli occupanti e basandosi su un forte radicamento tra i contadini. Dalla conversazione con uno di loro (pp.246-252) ricava considerazioni che ci sembrano interessanti e che potrebbero essere applicate anche a soggetti politici più moderni (ad esempio la dirigenza dell'UCK):

"A prima vista si direbbe che la psicologia di un cetnico, che cerca di risolvere complicati problemi politici mettendo bombe negli edifici statali turchi, non ha alcun punto di contatto con la politica diplomatica delle cancellerie... Ma non è proprio così. I rivoluzionari nazionali, a differenza di quelli sociali, cercano sempre di collegare le loro operazioni cospirative con le attività delle dinastie o delle diplomazie dei loro paesi, o di paesi stranieri. Quando è in gioco l'autodeterminazione politica e territoriale di una giovane nazione, le impazienti azioni dei carbonari spesso non fanno che anticipare le più lente mosse delle forze dinastiche e diplomatiche, le integrano e le spingono avanti fino a quando alla prima occasione favorevole passano loro l'iniziativa. È successo con Mazzini e Garibaldi nel classico esempio della lotta per l'unificazione nazionale italiana. Il vecchio carbonaro-repubblicano Giuseppe Mazzini che riconosceva solo " Dio e popolo ", nel momento decisivo dovette farsi da parte per dare spazio, fra Dio e popolo, alla dinastia dei Savoia. E se l'ungherese Kossuth e l'italiano Mazzini fecero spesso appello alla diplomazia europea oltre che al popolo, a maggior ragione queste tattiche sono necessarie ai rivoluzionari della Macedonia, un paese piccolo e culturalmente arretrato, posto a un crocevia di interessi internazionali. Anche quando si sono trovati all'apice dei loro successi, i rivoluzionari macedoni non hanno potuto illudersi con l'idea che la Macedonia farà da sé. La conquista dell'attenzione della diplomazia europea e del governo bulgaro ha sempre rappresentato il coronamento delle loro fatiche. Rapporti agrari e metodi amministrativi barbari hanno spinto i Macedoni a ricorrere alla ribellione disperata e alla guerra cetnica. E la coscienza dell'impossibilità di riuscire a decidere il destino della Macedonia con le proprie forze, obbliga i Macedoni a occuparsi empiricamente delle ambizioni di potenze grandi e piccole, e a scegliere ogni volta la linea di minor sforzo." (pp.251-252) "L'organizzazione rivoluzionaria macedone, da organizzazione nazional-contadina si tramutò in strumento dei disegni imperialisti del governo di Sofia." (p.320)

La questione balcanica

Trotsky vede l'origine dei problemi balcanici nell'intrecciarsi di due fattori: l'irrisolta questione nazionale e le manovre delle potenze europee per far sì che questi problemi continuino a rimanere insoluti perché le nazioni frammentate producevano stati fragili e dunque più controllabili:

[nella questione d'Oriente] "bisogna distinguere due aspetti: il primo è quello delle relazioni fra le nazioni e gli stati della penisola balcanica, il secondo è quello del conflitto degli interessi e degli intrighi delle potenze capitalistiche europee nei Balcani. Le due questioni non coincidono. [...] Le frontiere di questi piccoli stati della penisola balcanica sono state disegnate non in relazione alla conformazione geografica o alle necessità delle nazioni, ma come risultato di guerre, intrighi diplomatici e interessi dinastici." (p.58)

I serbi ad esempio "sono dispersi in cinque stati diversi".

"Non è solo l'eterogeneità nazionale a pendere come una maledizione sulla penisola balcanica, ma il fatto che le nazionalità sono frantumate, suddivise in molti stati. Le frontiere doganali spezzano artificiosamente le penisola. Le macchinazioni delle potenze capitaliste s'intrecciano con gli intrighi sanguinosi delle dinastie balcaniche. Permanendo queste condizioni, i Balcani continueranno ad essere un vaso di Pandora."(p.33) "Gli odierni stati della penisola balcanica erano stati imbastiti dalla diplomazia europea al tavolo del congresso di Berlino nel 1879. In quella occasione erano stati sfruttati tutti gli espedienti per trasformare la multinazinalità balcanica in una ricorrente schermaglia fra staterelli." (p.37)

Ad esempio

"Il congresso aveva tolto alla Turchia parte del territorio occupato dai Bulgari, trasformandolo in un principato vassallo, e la Rumelia orientale, con una popolazione quasi interamente bulgara, era rimasta alla Turchia." (p.37) "Inoltre la diplomazia europea ha agito, e ancora sta agendo, anche dall'interno. Ha stabilito qui, su questo suolo bagnato di lacrime e sangue, propri comitati di rappresentanza e basi di collegamento, impersonate dalle dinastie balcaniche e dai loro strumenti politici. In questa scacchiera, re e ministri non sono i giocatori, ma i pezzi principali da giocare. I veri giocatori incombono dall'alto e, quando il gioco prende una piega sfavorevole ai loro interessi, agitano minacciosamente sopra la scacchiera il pugno armato." (p.161)

Il significato della guerra dei Balcani

Sulla base del metodo di cui sopra Trotsky cerca di dare una caratterizzazione della guerra dei Balcani. Il suo significato nel proporsi iniziale é progressista, ma le direzioni imperialiste degli eserciti slavi distorcono questo potenziale:

"L'attuale guerra nei Balcani esprime l'aspirazione del frammentato slavismo balcanico a una qualche forma di aggregazione che fornisca basi più ampie allo sviluppo economico e politico. In ultimo, a questa aspirazione non ci si può opporre, essa è storicamente progressiva e suscita la simpatia della massa del popolo sia dell'Europa occidentale che orientale." (p.160)
"La guerra balcanica ha cause profonde, radicate nelle contraddizioni economico-nazionali e statali di questa sorprendente penisola, benignamente favorita dalla natura e crudelmente mutilata dalla storia. Lo sviluppo economico ha accresciuto il senso di identità nazionale e stimolato l'esigenza di autodeterminazione nazionale e statale. La Serbia ha bisogno di uno sbocco al mare. L'istituzione di normali condizioni di vita in Macedonia è un'esigenza elementare per un saldo e sereno sviluppo della Bulgaria. Non ci possono essere dubbi in proposito. È su queste basi che gli umori favorevoli alla guerra si sono diffusi non solo fra gli esponenti politici, ma anche, per quel che ho avuto modo di vedere, fra larghe masse del popolo. I partiti socialisti della Serbia e della Bulgaria sono risolutamente contrari alla guerra; ciò nonostante, ho incontrato un gran numero di socialisti che si sono lasciati travolgere dal movimento generale nazional-patriottico. Ieri ho potuto vedere in ospedale il primo gruppo di feriti bulgari e ho parlato con loro. Sono pervasi d'entusiasmo nazionalistico, parlano orgogliosamente dell'offensiva dell'esercito bulgaro e dell'imminente liberazione dei fratelli; e questi non sono soldati pre-si dalle caserme, ma riservisti, cioè autentici contadini bulgari. Sarebbe dunque sbagliato ritenere che la guerra sia stata fomentata artificialmente dall'alto. No, I'iniziativa del governo si è incontrata a metà strada con un'ondata di sentimenti patriottici dal basso." (p.171)

La questione nazionale spiega di nuovo lo stato d'animo dei due principali eserciti che si scontrano nella prima guerra balcanica:

"Certo è però che i soldati bulgari giudicano questa guerra giusta e necessaria. L'hanno fatta propria. Questo è il fatto fondamentale. Per loro, la memoria dell'antico dominio turco è ancora molto vivo, più di quanto non sia il ricordo del-la servitù della gleba per il contadino russo. E nel paese confinante, in Macedonia, quel dominio è ancora in piedi. Il flusso dei rifugiati macedoni impedisce ai Bulgari l'oblio, anche per un solo giorno. Il terribile fardello del militarismo è stato accettato da tutti i Bulgari,fino all'ultimo contadino. Sono convinti che il fardello sia stato caricato sulle loro spalle dalla Turchia, e in particolar modo dal regime dispotico vigente in Macedonia." (p.216)
"Agli occhi di un Bulgaro il concetto di Turchia racchiude sia l'oppressione di oggi dei fratelli macedoni - che egli stesso un tempo ha dovuto subire dal tirannello turco, dal funzionario statale, dal proprietario terriero - sia la causa principale del gravame fiscale nella stessa Bulgaria. La guerra ha insomma offerto alle masse bulgare l'occasione per farla finita una volta per tutte con la Turchia del passato e con quella del presente. È per questa ragione che i soldati bulgari diretti al fronte attaccano fiori sui loro berretti; che i reggimenti vanno all'attacco senza curarsi dei violenti bombardamenti dell'artiglieria nemica; che i distaccamenti di cavalleria svolgono egregiamente i compiti loro affidati; che infine i soldati feriti, non appena dimessi, chiedono di ritornare al fronte.
L'esercito turco mostra un'immagine diversa. Non ha obiettivi popolari in questa guerra, che possano suscitare nelle masse un sacrificio volontario. L'esercito è stato del resto strumento di un sommovimento rivoluzionario che non ha arrecato alcun beneficio al popolo.Tale rivolgimento ha semplicemente scalzato la fede popolare nella sopravvivenza delle attuali forme statali della Turchia e di conseguenza delle sue frontiere. I Giovani Turchi hanno arruolato Bulgari, Greci e Armeni nell'esercito. Nel contempo, diventati i signori dell'impero, hanno fatto tutto quello che era in loro potere per indurre la popolazione cristiana, che di quell'impero era suddito, a odiare il nuovo regime come quello vecchio. Oltre a ciò, I'inclusione dei cristiani nell'esercito ha minato la convinzione che l'Islam sia il solo e unico vincolo morale fra Stato ed esercito. Nella mente del soldato musulmano si è dunque insinuata la più grave incertezza spirituale." (217)

La prima guerra balcanica però non può essere definita di "liberazione", poiché fin da subito insieme gli elementi progressivi di autodeterminazione erano intrecciati, a causa delle direzioni politiche che questi popoli si ritrovavano, a obiettivi imperialisti. Dunque la seconda guerra balcanica che palesemente non aveva nulla di progressivo si presentava comunque come logico sviluppo delle premesse poste dalla prima:

"L'emancipazione dei contadini macedoni dalla sudditanza al latifondista feudale era indubbiamente un fatto necessario e storicamente progressivo. Ma questo compito è stato intrapreso da forze che avevano a cuore non gli interessi dei contadini macedoni, ma i loro avidi interessi di conquistatori dinastici e di predatori borghesi. Una tale usurpazione dei compiti storici non è fuori dal comune. L'emancipazione del contadino russo dalle catene della comunità di villaggio, nell'epoca del dominio poliziesco e della servitù della gleba, rappresenta un fatto progressivo. Ma non bisogna trascurare l'identità di chi si assume il compito e come lo svolge. La riforma agraria di Stolypin non ha risolto i problemi posti dalla storia, si è solo valsa di questi problemi nell'interesse della nobiltà e dei kulaki." (p.281)

Il bilancio complessivo delle guerre balcaniche é dunque critico:

"Va dunque detto che i nuovi confini della penisola balcanica, a prescindere da quanto possano reggere, sfregiano e lacerano i corpi palpitanti di nazioni totalmente dissanguate, esauste. Nessuna di queste nazioni balcaniche è riuscita a rimettere assieme i cocci dispersi. Nello stesso tempo ognuno degli Stati balcanici, Romania compresa, racchiude oggi nei propri confini una compatta, ostile minoranza. [...] Sono questi i frutti di una guerra che ha divorato fra caduti, feriti e morti per malattie almeno mezzo milione di uomini, senza risolvere neppure uno dei problemi fondamentali dello sviluppo balcanico." (p.321)

Le atrocità della guerra

A questo giudizio severo non é estraneo il disgusto provato da Trotsky per le violenze etniche provocate dalla guerra soprattutto ad opera degli eserciti slavi. A coloro che gli argomentano che in fin dei conti, l'abbattimento del dominio turco sugli Slavi è un fatto di progresso risponde:

"È indubbiamente vero. Ma noi non siamo indifferenti ai metodi con i quali si raggiunge questa emancipazione. [...] I positivi, progressivi risultati, che la storia riuscirà in ultima analisi a distillare dagli orribili eventi dei Balcani, non saranno danneggiati minimamente dalle denunce dei democratici balcanici ed europei. Al contrario, solo una lotta contro l'usurpazione dei compiti storici da parte degli attuali padroni della situazione educherà i popoli balcanici al ruolo di successore non solo del dispotismo turco, ma anche di coloro i quali stanno distruggendo questo dispotismo con metodi barbari."(p.416)

Alcune corrispondenze ci rimandano subito alle più recenti vicende balcaniche. Trotsky riporta in prima persona il racconto di un combattente serbo, che, parlando della conquista del Kosova, descrive le atrocità dei suoi commilitoni:

"Gli albanesi si sono resi conto che il loro paese rischia di essere spartito fra Grecia e Serbia, e hanno difeso i loro campi, le loro capanne, il bestiame." (91) "Avevo proibito rigorosamente ai miei uomini di ucciderli, ma devo dire in tutta franchezza che questi ordini non venivano rispettati. Dicevo a un soldato di portare il prigioniero dal comandante. Appena i due si erano allontanati di una cinquantina di passi, si udiva uno sparo." (92)

E parlando dei cetnici serbi, lo stesso soldato:

"Fra loro vi erano alcuni intellettuali, uomini di cultura, nazionalisti entusiasti. Il resto era costituito da delinquenti, ladri, gentaglia che si era aggregata all'esercito solo per il piacere di saccheggiare. In alcuni frangenti tornavano utili perché era gente che non teneva in alcun conto la vita, e non solo quella dei nemici, ma nemmeno la propria. [...] Ma fra una battaglia e l'altra si comportavano da briganti. Già prima della guerra i komitadzi si erano organizzati in diversi modi nelle varie zone, con unità cetniche di venti, cinquanta, cento uomini."Quando l'esercito avanzava lasciando ai cetnici il compito di disarmsare la popolazione, a questo punto, poiché nessuno li teneva d'occhio, iniziavano gli orrori."(94)

La testimonianza si dilungava poi nella descrizione dei furti dei soldati e degli ufficiali. Da un amico serbo apprende gli orrori della pulizia etnica antialbanese in Macedonia nella corrispondenza "Dietro la cortina, i crimini dello sciovinismo" (146). Si indigna per la sorte dei prigionieri:

"Lo stesso Radko Dmitriev [generale bulgaro n.d.r.]- in questo caso senza dubbio d'intesa con il comandante in capo - ha iniettato il veleno di una spaventosa demoralizzazione nelle file dell'esercito, incitando i soldati ad assestare un colpo brutale ai nemici feriti e ai prigionieri. "Se i Turchi feriti e prigionieri sono d'ostacolo ai trasporti, prendete le misure necessarie per eliminare tali ostacoli". Il messaggio è stato raccolto, feriti e prigionieri sono stati sterminati, prima a centinaia, poi a migliaia."(p.202)

A Stip, in Bulgaria, Trotsky rimane impressionato dal racconto di un interlocurore che narra di come

"le abitazioni dei Turchi e degli Ebrei, cioè metà della popolazione, sono abbandonate. Tutti i negozi e le case di questa zona della città sono state saccheggiate e persino distrutte. I furti e gli assassini sono all'ordine del giorno."(208) "Ti si spezza il cuore nel vedere pacifici contadini turchi assassinati senza una ragione, derubati delle loro proprietà, le mogli e i figli ridotti alla fame; fra Radovise e Stip circa duemila rifugiati turchi, in gran parte donne e bambini, sono morti di fame, letteralemente di fame. [...] Molti soldati bulgari hanno creduto, incoraggiati dall'alto, che le terre abbandonate sarebbero state assegnate a loro. Il primo giorno libero, sarebbero andati alla ricerca di un posto adfato e avrebbero messo i loro paletti. Questi giovani soldati si sbagliano! Al termine di questa campagna essi porteranno a casa qualche gingillo turco, una mano ferita e reumatismi che li tormenteranno per il resto della vita".

Trotsky condusse una vigorosa campagna contro la congiura del silenzio dei giornali russi che tendevano a mettere a tacere, in nome della "solidarietà slava" i crimini da "pulizia etnica" di bulgari e serbi. Per questo attacca l'ideologia panslavista, copertura ideologica degli interessi nazionali russi (p.52, p.57). Dalla sua autobiografia leggiamo:

"Nei miei articoli impegnai una battaglia contro la impostura slavofila, contro lo sciovinismo in genere, contro le illusioni della guerra, contro i metodi scientificamente organizzati di imbottimento dei crani. La redazione della Kievskaja Mysl' ebbe il coraggio di pubblicare l'articolo in cui raccontavo le atrocità commesse dai bulgari contro i prigionieri turchi feriti e denunciavo la congiura del silenzio della stampa russa. Ne seguì un'ondata di indignazione sulla stampa liberale. Il 30 gennaio [1912 n.d.r.] presentai a Miljukov una interpellanza "extraparlamentare" sugli atti di barbarie commessi da "slavi" contro turchi. Con le spaIle al muro, Miljukov, difensore istituzionale della Bulgaria ufficiale, cercò inutilmente di trarsi d'impaccio con balbettamenti. La polemica durò alcune settimane. Era inevitabile che i giornali governativi insinuassero che dietro lo pseudonimo di Antid Oto si nascondeva non un emigrato, ma un agente dell'Austria-Ungheria." (7)

In questa interrogazione Trotsky scriveva:

"L'accusa allo stato maggiore bulgaro è la seguente: le truppe sotto il suo comando in particolare i cetnici, aggregati alle unità dell'esercito fin dall'inizio della guerra hanno compiuto e tuttora compiono atrocità bestiali; cancellano interi villaggi, pugnalano a morte uomini feriti, fucilano prigionieri, violentano donne e bambini." (p.418) "[di fronte alle atrocità] non avete per caso concluso che i Bulgari in Macedonia e i Serbi nella vecchia Serbia, nella loro premura di correggere le cifre delle statistiche etniche e a dire il vero non molto favorevoli a loro, si siano dedicati, per dirla schietta, a uno sterminio sistematico della popolazione musulmana nei villaggi, nelle città e nei distretti?" (p.409)

E conclude con una argomentazione che sarebbe molto utile leggesse chi si é tappato gli occhi di fronte alle pulizie etniche di quei regimi che non si sa a che titolo vengono considerati più "progressisti" (serbi contro kosovari, russi contro ceceni):

"Che senso ha sollevare la questione di fatti anomali in un periodo anomalo di transizione, proprio adesso che la guerra è finita e il dispotismo turco è stato liquidato? chiede il signor Miljukov. Che senso ha questo alzare la voce contro le atrocità bulgare e serbe? Questa piccola domanda [...] rivela con evidenza, chiarezza ed efficacia l'invalicabile abisso politico che divide il mondo dei Miljukov dal nostro. Noi politici e giornalisti socialdemocratici spesso dobbiamo impiegare uno stile popolare per far capire alle larghe masse dei lavoratori i più semplici avvenimenti politici e sociali. Ma non riteniamo sia necessario spiegare che senso ha una protesta contro uomini trionfanti che schiacciano sotto i loro stivali vecchie e bambini.(p.415) Ci sono persone capaci di darsi una oggettivistica grattata di naso, mentre uomini ebbri di sangue, aizzati dall'alto, massacrano gente indifesa. Individui, gruppi, partiti o classi capaci di fare ciò sono condannati dalla storia a marcire e a essere divorati vivi dai vermi. Viceversa: un partito o una classe che con forza e senza esitazioni (come un organismo vivente reagisce per proteggersi gli occhi quando sono minacciati da un pericolo esterno) si solleva contro ogni azione abominevole dovunque essa venga compiuta, un tale partito o classe è intimamente sano" (416).

La federazione balcanica

Quale soluzione vede Trotsky per la questione balcanica? Due i suoi nemici: le potenze europee, e di qui dunque la sua parola d'ordine della non interferenza, e poi, in maniera sempre più chiara a mano a mano che procede la guerra, le direzioni imperialiste degli stati balcanici. La soluzione é quella della formazione di una "Federazione democratica dei Balcani". È bene precisare la natura sociale della federazione a cui pensava Trotsky: questa doveva servire sostanzialmente a rispondere alla questione nazionale, inquadrata dai marxisti dell'epoca, come una questione "democratica", e dunque di urgenza immediata. Trotsky, conscio della debolezza del movimento operaio ed anche perché desideroso di battersi per obiettivi che fossero se non realistici, per lo meno percepiti come tali da larghe masse, dunque nemmeno accennò ad una federazione socialista dei Balcani.

"[rispetto ai tempi di Marx si ripropone la questione d'Oriente, ma con una ben più grande diversità] Nel passato i diplomatici europei tracciavano con gli artigli i confini sulle catre geografiche della penisola balcanica e decidevano così a proprio piacimento il destino delle nazioni. Adesso è la volta dei popoli balcanici di fare irruzione nella storia e di prendere la questione nelle loro mani" (p.49) "Il nodo fondamentale è come creare, in un territorio i cui confini sono stati definiti dalla natura, forme statali sufficientemente ampie e flessibili, capaci d'assicurare, sulla base dell'autonomia nazionale delle diverse aree, un mercato interno unificato e organi comuni di governo all'intera popolazione della penisola." (p.50) "Un unico stato di tutte le nazionalità balcaniche a base democratica e federale, sul modello della Svizzera o della Repubblica nord-americana, potrebbe invece portare alla pace nei Balcani e creare le condizioni per un poderoso sviluppo delle forze produttive." (p.33) "L'unica via d'uscita da questa sanguinosa confusione balcanica, da questo caos di Stati e nazioni, è l'unione di tutti i popoli della penisola in una sola entità economica e politica, fondata sull'autonomia nazionale delle parti costituenti. Solo nella cornice di un unico Stato balcanico, i Serbi di Macedonia, Sangiaccato, Serbia e Montenegro potranno riunirsi in una comunità nazional-culturale, godendo allo stesso tempo dei vantaggi di un mercato comune balcanico. Solo uniti, questi popoli possono respingere le vergognose pretese dello zarismo e dell'imperialismo europeo. L'unità statale della penisola balcanica può essere raggiunta in due modi: dall'alto, mediante l'espansione di un solo Stato balcanico, il più forte, a spese dei più deboli. È questa la strada che porta alla guerra di sterminio e all'oppressione delle nazioni più deboli, e che consolida le monarchie e il militarismo. Oppure dal basso, con l'unione dei popoli stessi: è questa la strada che porta alla rivoluzione, all'espulsione delle dinastie balcaniche e ad alzare la bandiera della repubblica federale balcanica."(p.59)

In un passo sembra addirittura che Trotsky pensi ad una Federazione Balcanica che includa la Turchia:

"una vittoria della rivoluzione turca significherebbe una Turchia democratica. E una Turchia democratica costituirebbe la base di una federazione balcanica; essa ripulirebbe definitivamebte il Vicino Oriente dal covo di vipere degli intrighi capitalistici e dinastici che incombono come nubi temporalesche non solo sull'infelice penisola, ma anche su tutta l'Europa." (p.35)

Che dire di questa posizione? Certo, é facile oggi ironizzare sul realismo o meno di questa parola d'ordine, visto gli avvenimenti di questo secolo. In realtà i due tentativi di riunire alcuni popoli balcanici in una federazione sono falliti nel sangue e nella tragedia ed hanno costituito la copertura (con la prima Jugoslavia in maniera drammaticamente evidente, un po' meno con quella di Tito) della dominazione nazionale serba. Ma se guardiamo una carta etnica della regione all'epoca di Trotsky (8) ci accorgiamo che la sua frammentazione non era molto diversa da quella della Bosnia prima della pulizia etnica, ed anche la Turchia era largamente multietnica. Dunque all'epoca era abbastanza difficile immaginarsi una prospettiva di formazione di stati nazionali, senza pulizia etnica. Dunque, così come siamo stati favorevoli ad una Bosnia multietnica perché non divisibile secondo linee nazionali, così allora era ragionevole prospettare una federazione balcanica.
Oggi le cose sono molto diverse. I Balcani non sono più etnicamente a macchia di leopardo. Decenni di guerre hanno raggruppato le nazionalità, mentre alcune sono letteralmente sparite (ad esempio gli ebrei). Nei Balcani una politica democratica oggi deve chiedere il completamento del processo di formazione degli stati nazionali, processo possibile senza pulizie etniche. Non é la dispersione della nazione albanese ad esempio ad impedire la sua unificazione, ma solo la volontà delle grandi potenze e degli imperialismi balcanici: gli albanesi di Macedonia, del Kosova e dell'Albania infatti abitano un territorio contiguo, ma diviso da confini imposti. Solo se si risolveranno le questioni nazionali pendenti (divisione della nazione ungherese, di quella albanese, di quella turca, tra altre) si potrà uscire dalla "sanguinosa confusione balcanica".

L'edizione

Un'ultima parola sull'edizione. Non condividiamo quasi nulla delle posizioni e della pratica di Lotta Comunista, ma una cosa siamo costretti a dirla: i libri li sanno fare. La raccolta contiene alcune tra le migliori e più chiare cartine sugli spostamenti di confini, fronti e truppe delle guerre balcaniche che ci siano in circolazione (della stessa qualità di quelle presenti nel libro di Reed già citato, edito dalla casa editrice della medesima organizzazione); precisa ed approfondita inoltre, quasi un libro nel libro, la sezione delle note, delle biografie, dei luoghi geografici.

 

(1)Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.232
(2)Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.232
(3)John Reed La guerra nell'Europa Orientale 1915, Pantarei, Milano,1997
(4) Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.229
(5) Pierre Broué La rivoluzione perduta Vita di Trockij, Bollati Boringhieri, Torino,1991, p.117
(6) Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.230
(7) Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.230
(8) ve n'é una precisa e dettagliata riferita al 1900 in Paul Robert Magocsi Historical Atlas of East Central Europe University of Washington Press, 1993