Questione nazionale e marxismo: una sintesi
Esame di alcune delle principali analisi e formulazioni del marxismo "classico" sul tema della nazione: Marx, Engels, i bolscevichi e i marxisti austriaci. Di Michael Löwy . Traduzione dal francese e sintesi di Andrea Vigni. Maggio 2001.


È ormai luogo comune sostenere che il marxismo ha ignorato la questione nazionale (un vero e proprio "buco nero" nella teoria) o che i movimenti nazionali non sono comprensibili nell'ottica marxista. Ora, se è vero che i marxisti hanno spesso sotto-stimato l'importanza dei problemi nazionali, non per questo non si trovano, nella letteratura marxista, contributi in proposito di grande ricchezza. Ciò non esclude, beninteso, lacune, contraddizioni e valutazioni affrettate.
Esaminiamo dunque brevemente alcune delle principali analisi e formulazioni del marxismo "classico" (fino al 1917) sul tema della nazione: Marx, Engels, i bolscevichi e i marxisti austriaci. Cercheremo con questo di verificare l'interesse di queste formulazioni nel contesto attuale.

Marx e la questione nazionale

Lo stesso Marx non ha mai elaborato una teoria sistematica sulla questione nazionale, né una definizione precisa del concetto di nazione, e neanche una strategia politica generale del movimento operaio in questo campo.
Fra i testi di carattere generale, i più conosciuti e recepiti sono stati senza dubbio i passaggi un po' sibillini del Manifesto sui comunisti e la nazione; passaggi che hanno il merito storico di affermare l'atteggiamento internazionalista del movimento socialista, ma che non sempre si sottraggono a un certo economicismo e a una stupefacente dose di ottimismo libero-scambista: ad esempio, nella presunzione che il proletariato vittorioso non potrà che continuare la cancellazione degli antagonismi nazionali avviata da "lo sviluppo della borghesia, il libero-scambio, il mercato mondiale". Questa tesi è peraltro negata in altri testi dello stesso periodo, in cui Marx sottolinea: "Mentre la borghesia di ogni nazione conserva ancora degli interessi nazionali particolari, la grande industria crea una classe i cui interessi sono gli stessi in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già abolita".
Negli scritti successivi (soprattutto sull'Irlanda) Marx dimostrerà che la borghesia, non solo non tende ad abolire gli antagonismi nazionali, ma anzi li aggrava, prima di tutto perché la lotta per la dominazione dei mercati genera conflitti tra le potenze capitaliste; in secondo luogo, perché lo sfruttamento di una nazione su un'altra produce odi nazionali; infine, perché lo sciovinismo è uno degli strumenti ideologici che permettono alla borghesia di mantenere la sua dominazione sul proletariato.
Marx si colloca su un terreno sicuro quando insiste sull'internazionalizzazione dell'economia, indotta dalla produzione capitalista, e sulla formazione di un mercato mondiale che "ha privato l'industria della sua base nazionale", istituendo "l'interdipendenza universale delle nazioni". Malgrado ciò uno slittamento verso l'economismo di manifesta nella tesi (suggerita dal Manifesto) che "l'uniformarsi della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni di esistenza" contribuiscono alla sparizione dei confini (Absonderungen) e degli antagonismi nazionali, come se le differenze nazionali fossero riducibili a delle eterogeneità nel processo di produzione.
Quanto alla celebre frase lapidaria e sarcastica del Manifesto, "i proletari non hanno patria", bisognerebbe innanzitutto interpretarla nel senso (suggerito dal passaggio appena citato da L'ideologia tedesca) che i proletari di tutte le nazioni hanno gli stessi interessi. In questo contesto, la nazione non è che il quadro politico contingente della lotta proletaria per la presa del potere.
Tuttavia, l' "antipatriottismo" di Marx ha un doppio, più profondo, significato etico e politico: da un lato, per l'umanesimo socialista, l'umanità intera è la totalità significativa, il valore supremo, la meta finale; d'altro canto, il comunismo non può essere attuato che a scala mondiale, grazie a uno sviluppo universale delle forze produttive, superando l'ambito stretto degli Stati nazionali.
Se il Manifesto comunista ha posto i fondamenti dell'internazionalismo proletario, non fornisce quasi nessuna indicazione sulla strategia politica concreta sulla questione nazionale, strategia che sarà sviluppata soprattutto negli scritti di Marx sulla Polonia e sull'Irlanda (così come nella lotta che condurrà nella Iª internazionale ad un tempo contro il nazionalismo demo-liberale di Mazzini e il nichilismo nazionale dei proudhoniani).
I principi strategici
Il sostegno alla lotta della Polonia per l'emancipazione nazionale era una tradizione del movimento democratico e operaio del XIX secolo. Ispirandosi a questa tradizione, Marx ed Engels abbracceranno la causa polacca non tanto in nome del principio democratico generale dell'autodeterminazione delle nazioni, quanto a causa della lotta dei Polacchi contro la Russia zarista, principale bastione della reazione in Europa e "bestia nera" dei padri del socialismo scientifico. C'è, in questo atteggiamento, una certa ambiguità: se la Polonia è accettata poiché la sua lotta è nazionale e antizarista allo stesso tempo, i popoli slavi filo-russi (come i Cechi) non hanno diritto all'autodeterminazione? Sarà proprio il problema di Engels nel 1848-1849…
Gli scritti sull'Irlanda, per contro, hanno carattere più universale, e disegnano, implicitamente, alcuni principi generali sulla questione delle nazioni oppresse.
In una primma fase, Marx era favorevole all'autonomia dell'Irlanda all'interno dell'Unione inglese e pensava che la fine dell'oppressione degli Irlandesi (da parte dei grandi proprietari fondiari inglesi) sarebbe venuta da una vittoria operaia (cartista) in Inghilterra. Al contrario, negli anni sessanta egli vede la liberazione dell'Irlanda come condizione della liberazione del proletariato inglese. I suoi scritti sull'Irlanda di questo periodo propongono tre temi importanti per lo sviluppo futuro della teoria maxista dell'autodeterminazione dei popoli, in rapporto dialettico con l'internazionalismo proletario.
In primo luogo, solo la liberazione nazionale del popolo oppresso permette di andare oltre le divisioni e gli odi nazionali, e di unire gli operai di due nazioni contro i loro nemici comuni, i capitalisti.
In secondo luogo, l'oppressione di un'altra nazione contribuisce all'egemonia ideologica delle borghesia sugli operai in seno alla nazione dominante: "Un popolo che ne opprime un altro non è capace di essere libero".
In terzo luogo, l'emancipazione del popolo oppresso indebolisce le basi economiche, politiche, militari ed ideologiche delle classi dominanti nella nazione egemone e contribuisce così alla lotta rivoluzionaria della classe operaia di questa nazione.
La dottrina dei "popoli non storici".
Le tesi di Engels sulla Polonia e l'Irlanda sono simili a quelle di Marx; per contro è presente in lui una curiosa costruzione teorica, la dottrina dei "popoli non storici", di origine hegeliana e piuttosto estranea al marxismo.
In Hegel questo concetto metafisico indica i popoli che non sono riusciti a costituirsi in Stato, o lo Stato dei quali è stato distrutto da molto tempo: "non storici", essi sono condannati alla sparizione. Come esempi Hegel cita gli Slavi del Sud, i Bulgari, i Serbi, ecc.
Stessa musica in Engels quando se la prende con il ruolo "contro-rivoluzionario" degli Slavi del Sud (Cechi, Slovacchi, Croati, Serbi, Sloveni, Moravi, Ruteni, ecc.) nel 1848-50. Si tratterebbe di "resti di una nazione impietosamente bruciata dal cammino della storia, come diceva Hegel", destinati ad essere "i fanatici portatori della contro-rivoluzione, perché la loro stessa esistenza è già una protesta contro una grande rivoluzione storica".
Questa metafisica pseudo-storicista, avulsa da un'analisi del ruolo delle classi sociali nella rivoluzione del 1848-50 (incapacità della borghesia liberale di innescare una reale rivoluzione agraria e emancipare le minoranze nazionali, che sono così mobilitate dalla reazione imperiale) e che pretende di confinare certe nazioni in una "condizione contro-rivoluzionaria" a-storica, è fondamentalmente contraddittoria con la logica stessa del materialismo storico.
Dopo la morte di Marx ed Engels, le due correnti marxiste che avranno maggior influenza nello sviluppo di una strategia socialista sulla questione nazionale sono i bolscevichi (particolarmente Lenin) e gli austro-marxisti (soprattutto Otto Bauer); le loro proposizioni influenzeranno lo sviluppo degli imperi multinazionali (Russia e Austro-Ungheria) dopo la prima guerra mondiale. Una terza sensibilità, quella degli internazionalisti avversari del separatismo nazionale (Rosa Luxemburg, Trotsky prima del 1917, Pannekoek, Strasser) non avrà lo stesso impatto.
Stato nazionale e autonomia culturale
L'idea portante della corrente austro-marxista era l'autonomia culturale in uno Stato multinazionale, attraverso l'organizzazione delle nazionalità in corporazioni giuridiche pubbliche, dotate di attributi culturali, amministrativi e legali. L'obiettivo di Karl Renner, Otto Bauer e dei loro amici del partito socialdemocratico era di mantenere il quadro sovranazionale dello Stato austro-ungarico, riconoscendo il diritto all'autonomia culturale di tutte le nazionalità (ungherese, ceca, slovacca, croata, ecc.).
Nella sua importante opera del 1907, La questione delle nazionalità e la socialdemocrazia, Otto Bauer sviluppa una notevole analisi storica della cultura nazionale, in opposizione a tutti i feticismi del fenomeno nazionale. Definendo la nazione come il risultato storico di un destino comune (la cui base materiale è la lotta degli essere umani con la natura), come "il prodotto mai concluso di un processo costantemente in divenire", come un addensamento di eventi passati, un "frammento di storia coagulato", egli si pone in inconciliabile opposizione con il conservatorismo nazionale borghese, i miti reazionari della "nazione eterna", e l'ideologia razzista.
Questo approccio inequivocabilmente storicista conferisce al libro di Bauer una reale superiorità metodologica, non solamente rispetto a Karl Renner (l'altro teorico austro-marxista, di tendenza eccessivamente giuridico-amministrativa), ma anche rispetto alla maggior parte degli autori marxisti del periodo, i cui scritti sulla questione nazionale hanno spesso un carattere astratto e stereotipato. Nella misura in cui il metodo di Bauer consente non soltanto una spiegazione storica delle configurazioni nazionali presenti, ma anche la comprensione del fenomeno nazionale come processo, come movimento in perpetua trasformazione, viene anche i superato l'errore di Engels del 1848-1850: il fatto che una nazione (come i Cechi) "non abbia storia" non significa necessariamente che essa non abbia avvenire. Lo sviluppo del capitalismo produce, in Europa centrale e nei Balcani non l'assimilazione ma il risveglio delle nazioni pretese "senza storia".
Le due principali critiche che si potrebbero formulare alle tesi di Otto Bauer sono queste: innanzitutto la sua considerazione troppo unilaterale della cultura nazionale lo porta a svuotare il problema politico, cioè il diritto di ogni nazione all'autonomia e alla costituzione di uno Stato indipendente. Inoltre, la formulazione di un concetto vago e misterioso, il "carattere nazionale", definito in termini psicologici come il prodotto della "diversità degli orientamenti della volontà" di ogni nazione. Questo concetto sarà ripreso a suo modo da… Stalin.
La posizione di Stalin
È su richiesta di Lenin che Stalin redigerà nel 1913 una sintesi delle posizioni bolsceviche sulla questione nazionale. Tuttavia, sembra che il risultato fosse deludente agli occhi di Vladimir Illich: contrariamente a una leggenda tenace, Lenin non era particolarmente entusiasta di questo libretto, dal momento che non lo menziona in alcun dei suoi innumerevoli scritti sulla questione nazionale successivi a quella data (con l'eccezione di una brevissima citazione, tra parentesi, in un articolo del 28 dicembre 1913). In effetti, su un buon numero di punti non trascurabili, lo spirito e la lettera del testo di Stalin sono differenti, se non contradditori, con quelli di Lenin.
In primo luogo, il concetto di "carattere nazionale" o di "particolarità psicologica" delle nazioni, mutuato in Stalin da Bauer, è assente dagli scritti di Lenin. Egli rifiuta quella che chiama "la teoria psicologica" della nazione di Bauer.
In secondo luogo, proclamando categoricamente che "soltanto la presenza di tutti gli indici" - comunità di lingua, territorio, vita economica e "formazione psichica" - "presi insieme, individua una nazione", Stalin dà alla sua teoria un carattere dogmatico, restrittivo e cristallizzato, che si cercherebbe invano in Lenin.
In terzo luogo, Stalin rifiuta esplicitamente la possibilità di un'unione o associazione di gruppi nazionali dispersi all'interno di uno stato multinazionale: per esempio, raccogliere i Tedeschi del Baltico e quelli della Transcaucasia in una sola nazione gli pareva "inconcepibile", "impossibile" e "utopistico". Lenin, per contro, difende "la libertà di ogni associazione, ivi compresa l'associazione di qualsivoglia comunità di qualsivoglia nazionalità in uno Stato dato", e cita ad esempio proprio i Tedeschi del Caucaso, del Baltico e della zona di Pietroburgo… Aggiunge che la libertà di associazione di ogni tipo tra membri della stessa nazionalità, dispersi in differenti punti del paese o anche del globo è "indiscutibile e non può essere contestata che da un punto di vista formalistico e burocratico"!
In quarto luogo, Stalin non fa alcuna distinzione tra il nazionalismo oppressore della Grande Russia zarista e quello delle nazioni oppresse. In un paragrafo rivelatore del suo saggio, appaia il nazionalismo "bellicoso e repressivo" del potere zarista "dall'alto" con l'"onda di nazionalismo montante dal basso che si trasforma talvolta in volgare sciovinismo" di Polacchi, Ebrei, Tartari, Georgiani ecc. Non solo non è considerata alcuna differenziazione tra il nazionalismo "dall'alto" e quello "dal basso", ma le sue critiche più severe sono dirette contro i socialdemocratici dei paesi oppressi che non hanno saputo "dare prova di fermezza" con il movimento nazionalista.
Lenin, invece, non soltanto considerava come assolutamente decisiva la distinzione tra nazionalismo delle nazioni opprimenti e quello delle nazioni oppresse, ma dirigeva sempre i suoi attacchi più esacerbati contro coloro che capitolavano, in maniera cosciente o meno, diretta o indiretta, davanti al nazionalismo sciovinista della Grande Russia. Questa differenza contiene già, in nuce, il futuro violento conflitto tra Lenin e Stalin sui diritti nazionali della Georgia (nell'ambito dell'URSS) del dicembre 1922 - la celebre "ultima battaglia di Lenin".
Lenin: un concetto politico della questione nazionale
Il punto di partenza di Lenin per elaborare la sua strategia rispetto alla questione nazionale è l'internazionalismo proletario; ma egli instaura un rapporto dialettico tra quest'ultimo e il diritto all'autodeterminazione nazionale. Innanzitutto, perché solo la libertà di essere autonomi rende possibile una libera e volontaria unione, associazione, contiguità e, a lungo termine, fusione tra le nazioni; inoltre, poiché il solo riconoscimento, da parte del movimento operaio della nazione dominante, del diritto all'autodeterminazione della nazione dominata permette di eliminare l'odio e la diffidenza degli oppressi, e di unire i proletari delle due nazioni nella battaglia comune contro la borghesia.
Dal punto di vista metodologico, il principale vantaggio di Lenin sulla maggior parte dei suoi contemporanei risiede nella sua capacità di cogliere ed evidenziare l'aspetto politico di ogni problema e contraddizione. In merito alla questione nazionale è evidente che, mentre la maggior parte degli altri autori marxisti non vedono che la dimensione economica, culturale o "psichica" del problema, Lenin sottolinea chiaramente che la questione dell'autodeterminazione "si rapporta interamente ed esclusivamente al tema della democrazia politica", cioè con il diritto all'autonomia politica e alla costituzione di uno Stato nazionale indipendente. E in un testo critico verso le posizioni antiseparatiste dei marxisti polacchi (Rosa Luxemburg), egli insisteva sul fondamento metodologico delle divergenze: "I diritti di una nazione 'autonoma' non sono la stessa cosa di quelli di una nazione 'sovrana', i compagni polacchi se ne renderebbero subito conto se non persistessero (come i nostri vecchi economisti) a trascurare l'analisi degli aspetti e delle categorie politiche".
Inutile aggiungere che l'aspetto politico della questione nazionale per Lenin non è assolutamente quello di cui si occupano le cancellerie, i diplomatici e, dopo il 1914, gli eserciti in guerra. Gli è indifferente sapere se l'una o l'altra nazione avranno o meno uno Stato indipendente, o quali saranno le frontiere tra due Stati. Il suo obiettivo, è la democrazia e l'unità internazionalista del proletariato, che esigono ambedue il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione delle nazioni.
Ciò che si potrebbe criticare nella posizione di Lenin rispetto alla questione nazionale è il totale rifiuto della problematica austro-marxista dell'autonomia culturale - rifiuto che conduce a prospettare per le nazioni dominate due sole possibilità di scelta: sovranità o integrazione. Ciò vale particolarmente per le nazionalità territorialmente disperse come gli Ebrei; come osserva Enzo Traverso nel suo studio sui marxisti e la questione ebraica: "Mettendo le minoranze di fronte all'alternativa integrazione o autodeterminazione, il percorso bolscevico non poteva dare una risposta soddisfacente ai problemi delle nazionalità extraterritoriali, che rifiutavano la prima soluzione ma, al tempo stesso, non disponevano delle condizioni obiettive necessarie alla seconda".
Non possiamo affrontare, nel quadro di questo riassunto, i differenti aspetti della prassi del potere bolscevico, all'epoca di Lenin (1917-1923). Se essa corrisponde, nelle linee generali, alla strategia elaborata prima dell'Ottobre 1917, si trovano spesso oscillazioni, sia negative (il rifiuto di riconoscere il diritto all'autodeterminazione della Georgia e la sua invasione nel 1921), sia positive (riconoscimento dell'autonomia nazionale e culturale degli Ebrei). A partire dal 1924, sotto Stalin, predomineranno quasi esclusivamente gli aspetti negativi…
Comprendere il risveglio dei nazionalismi
Ritorniamo alla situazione attuale: quale posizione prendere di fronte a quest'onda nazionalista e "identitaria" che nel suo avanzare sembra sommergere tutto - soprattutto nell'Europa dell'est?
Il meglio e il peggio sono inestricabilmente mescolati in questi movimenti nazionali. Il meglio: il risveglio democratico delle nazioni defraudate. Il peggio: il risveglio dei nazionalismi sciovinisti, degli espansionismi, delle intolleranze, delle xenofobie; il risorgere delle vecchie questioni nazionali, degli odi contro "i nemici ereditari"; e soprattutto le rinnovate tendenze egemoniche, che conducono all'oppressione delle minoranze nazionali interne.
Paradossalmente, questi aspetti negativi e sinistri, questo "riapparire dei fantasmi", questa risurrezione delle antiche vendette nazionali, non si manifestano in altra parte in modo così brutale e assurdo come in Jugoslavia - il solo paese detto socialista che, scampato al controllo di Mosca, era riuscito a costituire, a partire dalla fraternità dei popoli nella lotta comune contro l'occupazione nazista, una federazione relativamente ugualitaria tra le diverse nazioni.
Davanti a una situazione così caotica, davanti a questo vortice confuso di conflitti territoriali, di rivendicazioni storiche, di esclusioni scioviniste e di insurrezioni liberatrici, che aiuto possono dare gli strumenti analitici e politici del marxismo?
Avendo una visione del mondo internazionalista, il marxismo - da non confondersi con le sue molteplici contraffazioni burocratiche nazionali - ha il vantaggio di una posizione universalista lucida e critica di fronte alle passioni e alle ebbrezze della mitologia nazionalista. A condizione che questo "universale" non resti astratto, fondato sulla semplice negazione della particolarità nazionale, ma sia un vero "universale concreto" (Hegel), capace di integrare in sé, sotto forma di Aufhebung (superamento/integrazione) dialettica, tutta la ricchezza del particolare.
Una concezione dialettica dell'universalità
Grazie al concetto di imperialismo, il marxismo può evitare i tranelli del falso universalismo eurocentrista (o "occidentale") che pretende di imporre a tutti i popoli del mondo (e particolarmente a quelli della periferia) la dominazione del modo di vita borghese/industriale moderno gabellandola per "civilizzazione": proprietà privata, economia di mercato, espansione economica illimitata, produttivismo, utilitarismo, individualismo possessivo e razionalità strumentale.
Il marxismo aspira all'unità dialettica dell'universale e del particolare attraverso la costituzione di un universale che rispetta, senza assolutizzarla, la diversità delle culture, un universale che non sia il paravento del particolarismo occidentale e che sia costruito a partire dai valori autentici di tutte le culture.
Non si tratta di negare il valore universale di alcune conquiste della cultura europea dopo il 1789, come la democrazia o i diritti dell'uomo. Si tratta semplicemente di rifiutare il falso dilemma tra il preteso universalismo "occidentale" e il culto miope delle differenze culturali, o - nel caso dell'attuale dibattito sull'unificazione europea - tra l'unità (capitalismo mercantile) sovranazionale e il ripiegamento nazionalista sulle "patrie" esistenti.
Per il marxismo il valore fondamentale di questa universalità planetaria è la liberazione degli essere umani da tutte le forme di oppressione, dominazione, alienazione e svilimento. Si tratta di un'universalità utopica, contrariamente alle false universalità ideologiche che fanno l'apologia dello status quo occidentale, come se fosse già il raggiungimento dell'universale umano, la fine della storia, lo spirito assoluto realizzato. Solo uno scenario critico di questo tipo, orientato verso un avvenire emancipato, permette di superare la chiusura dei nazionalismi, i culturalismi meschini, gli etnocentrismi.

Miti e illusioni della tradizione marxista

Tuttavia, il marxismo resta disarmato di fronte agli avvenimenti attuali e non riesce a liberarsi di certi miti e illusioni che appartengono alla propria tradizione. Tra i miti, uno ha la pelle particolarmente coriacea: quello di una definizione "scientifica" e "obiettiva" della nazione. Grazie a Stalin, questo dogma ha devastato i quattro continenti, trasformando la teoria in un reale letto di Procuste, imposto con decreto dell'Ufficio politico (incaricato di verificare se tale o tal altra nazione corrispondesse o meno ai requisiti base). Fortunatamente, la maggior parte dei marxisti che studiano oggi la questione nazionale hanno compreso perfettamente che le nazioni non possono definirsi unicamente in termini oggettivi (territorio, lingua, unità economica, ecc.) - anche se questi ultimi sono lontani dall'essere trascurabili - ma sono anche delle comunità immaginarie (Benedict Anderson), delle realtà culturali (Eric Hobsbawm). Esse sono anche, come già sottolineato da Otto Bauer, il prodotto di una storia aperta, che ne fa delle "entità a sviluppo comune" ma che rimescolano e trasformano costantemente le loro fisionomie e i loro contenuti - contrariamente alle ideologie nazionaliste dell' "essenza eterna e a-temporale" della nazione.
Quanto alle illusioni, ce n'è una che risale allo stesso Marx e che è presente nella riflessione dei migliori marxisti, da Rosa Luxemburg e Trotsky fino ai giorni nostri: il declino imminente del nazionalismi e dello Stato-nazione, reso anacronistico dalla mondializzazione dell'economia. Una versione attenuata di questa ipotesi è stata formulata ancora nel 1988, alla vigilia della più formidabile ondata nazionalista in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Nel suo libro, per altro notevole, sulle nazioni e il nazionalismo dopo il 1780, Eric Hobsbawm arrischia la seguente diagnosi: "Anche se nessuno può negare l'impatto crescente e talvolta spettacolare della politica nazionalista o etnica, questo fenomeno è oggi funzionalmente differente dal 'nazionalismo' e dalle 'nazioni' nella storia del XIX e XX secolo sotto un aspetto essenziale: non è più un vettore principale dello sviluppo storico". A suo avviso "il declino dell'importanza storica del nazionalismo è oggi dissimulato sotto fenomeni che sembrano renderlo ancora più visibile di qualche tempo addietro". In altri termini: "A dispetto della sua manifesta visibilità, il nazionalismo è storicamente meno importante. Non è più, in qualche modo, un programma politico globale, come si sarebbe potuto dire, e come è stato detto, nel XIX e all'inizio del XX secolo. È tutt'al più un fattore di complicazione o un catalizatore di altri fenomeni". Nella storia della fine del XX secolo e dell'inizio del XXI secolo, "le nazioni e i nazionalismi sopravviveranno… ma non ricopriranno che ruoli secondari e spesso minori".
Ci piacerebbe poter sottoscrivere questa visione ottimistica delle cose (dal punto di vista dell'umanesimo o dell'internazionalismo socialista) ma si può difficilmente sottrarsi all'impressione che Hobsbawm prenda i suoi desideri per realtà. Non c'è bisogno di simpatizzare con le ideologie nazionaliste per rendersi conto del loro crescente impatto, non solo all'Est ma anche nell'Europa occidentale. È difficile prevedere ciò che ci riserva il prossimo secolo, ma attualmente, e nei prossimi anni, è evidentemente impossibile considerare il ruolo del nazionalismo in Europa (e altrove) come "minore" o "secondario".
Distinguere i nazionalismi
In quale misura il marxismo può dunque fornire un filo di Arianna nel labirinto delle contraddittorie passioni nazionaliste?
Innanzitutto, il marxismo opera una distinzione capitale tra il nazionalismo degli oppressori e quello degli oppressi. Questa distinzione resta pertinente e costituisce una bussola preziosa per orientarsi nell'attuale tempesta. Ma il suo impiego è spesso complicato da un aspetto ben conosciuto del nazionalismo moderno: ogni nazione oppressa, non appena liberata (o anche prima) scopre l'impellente urgenza di esercitare una oppressione analoga sulle proprie minoranze nazionali. Spesso, nei conflitti inter-etnici attuali, ogni parte perseguita la sua minoranza interna appartenente alla nazione rivale, dando contemporaneamente man forte ai suoi compatrioti dell'altra parte della frontiera.
Come osserva lucidamente Etienne Balibar in un libro recente: "Ci si guarderà bene dal confondere nazionalismo conquistatore e liberatorio, nazionalismo dei dominanti e dei dominati. Ma anche di ignorare le mistificazioni e gli stravolgimenti che fomentano lo scontro tra nazionalismi avversi, così come le criminali conseguenze indotte dalla condanna del nazionalismo altrui, quando individuato e denunciato" in modo strumentale.
Di qui la necessità di un criterio universale per dipanare la matassa delle rivendicazioni contraddittorie e reciprocamente intolleranti. Questo criterio non può che essere quello - comune ai socialisti e ai democratici - del diritto all'autodeterminazione (fino alla scissione) di tutte le nazioni, vale a dire di tutte le comunità che si considerino tali. Indifferente al mito del sangue e della terra, non riconoscendo alcuna legittimità puramente religiosa o storica su un dato territorio, questo criterio ha l'immenso vantaggio di non riferirsi che ai principi universali della democrazia e della sovranità popolare, e di prendere unicamente in considerazione le realtà demografiche concrete di un qualsiasi spazio abitato.
Questo principio non impedisce ai socialisti di difendere l'opzione che ritengono più praticabile o più progressista in un dato momento storico: la separazione statale (indipendenza), la federazione, la confedereazione. L'essenziale è che siano le nazioni e le comunità interessate a decidere, liberamente, del loro futuro.
Questa regola è più che mai necessaria. Ma la sua applicazione nel corso dei conflitti nazionali attuali in Europa dell'Est e nell'ex-URSS non è sempre facile. In molti casi la stratificazione delle nazionalità è tale che ogni tentativo di disegnare frontiere in questo mosaico sembra votato al fallimento. Quanto al sogno di omogeneità nazionale all'interno delle frontiere, che percorre quasi tutti i nazionalismi, è difficile non vedere a quale incubo può condurre. Come sottolinea Eric Hobsbawm richiamandosi lucidamente e intelligentemente alla storia: "La conseguenza logica di un tentativo di creare un continente ordinatamente diviso in Stati territoriali coerenti, ognuno di essi abitato da una distinta popolazione omogenea sotto il profilo etnico e linguistico, era l'espulsione o lo sterminio massiccio delle minoranze. Tale era, e resta, la criminale reductio ad absurdum del nazionalismo nella sua versione territoriale, anche se ciò non era stato totalmente dimostrato prima degli anni 1940". Il conflitto attuale in ex-Jugoslavia ne è una tragica dismostrazione.
Se la forza dei movimenti nazionali di questa fine secolo è innegabile, è altrettanto vero che i grandi problemi dell'epoca sono internazionali. La ricerca di un via d'uscita per la crisi economica dell'ex "blocco socialista", la questione del debito del tero mondo e la catastrofe ecologica imminente - per non citare che questi tre esempi macroscopici - esigono soluzioni planetarie, formulate a partire da una nuova visione internazionalista del mondo.