Yiddishkeit* o sionismo? Gli ebreo-marxisti.
Una
rassegna dell'agire e del pensiero del movimento comunista nei primi decenni
di questo secolo riguardo alla questione ebraica: marxismo russo e marxismo
ebraico, il movimento operaio ebreo, Vladimir Medem, Ber Borokhov, Lenin, Luxemurg,
Trotsky, Stalin, gli ebrei e la rivoluzione russa. Prima parte di una sintesi
con brani antologici tratti dal libro di Enzo Traverso "Les marxistes et
la question juive". Traduzione di Andrea Vigni. Giugno 2001.
(*identità yiddish, n.d.t.)
In Times
le sintesi, in Verdana i brani
originali.
È esistito un marxismo ebraico? In Europa
centrale si nota solo una rilevante presenza di Ebrei fra i socialdemocratici
tedeschi e austriaci. Per contro, in Europa orientale l'integrazione (degli
Ebrei nella struttura sociale, n.d.t.) era solo un fenomeno marginale riguardante
un gruppo relativamente ristretto dell'intellighenzia, ma estraneo alla stragrande
maggioranza della popolazione ebrea (ricordiamo ancora che alla fine del XIX°
secolo lo yiddish era la lingua materna di quasi il 97% degli Ebrei dell'impero
zarista). In questo contesto l'elaborazione del pensiero marxista era influenzata
dall' esistenza di una nazione e di un movimento operaio ebreo. L'impronta del
sionismo sulla teoria marxista, tentata da Ber Borokhov, e il concetto di autonomia
culturale nazionale, sviluppato da Vladimir Medem, si collocavano in questa
realtà ebraica dell'Est europeo e apparivano come una variante nazionale
del marxismo d'inizio secolo. Accanto agli intellettuali ebrei integrati, che
aderivano alla socialdemocrazia russa o polacca, si formarono movimenti e partiti
che definivano la loro identità teorica e politica in rapporto ad una
problematica specificamente ebraica, differente e non riconducibile a quella
del socialismo russo. Un'analisi comparata dei marxismi russo ed ebraico ci
può aiutare a mettere in luce questa frattura e, d'altra parte, costituisce
la premessa necessaria alla ricostruzione del dibattito, o piuttosto del conflitto,
fra Lenin e il Bund, che affronteremo nel capitolo seguente.
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Marxismo russo e marxismo ebraico
Le posizioni dei marxisti russi si precisano inizialmente nel dibattito con i populisti (Plekhanov e altri, esuli alla fine del secolo a Ginevra) i quali individuavano nell'obscina (comunità contadina predominante nelle campagne alla fine del XIX° secolo) l'elemento rigenerativo di tutta la società russa. Al contrario per i marxisti (fedeli all'evoluzionismo positivista) la Russia necessitava della fase di sviluppo capitalista (dissoluzione delle comunità contadine, organizzazione e mobilitazione della classe operaia come motore della rivoluzione), discostandosi così anche dallo stesso Marx che non negava il passaggio diretto dall'obscina al comunismo. La visione di uno sviluppo economico lineare ed organico riceverà da Lenin il contributo più approfondito (Lo sviluppo del capitalismo in Russia, 1899), fino al superamento dialettico della controversia marxisti-populisti, rappresentato dalla teoria della rivoluzione permanente di Trotsky, che in Bilancio e prospettive (apparso subito dopo la rivoluzione del 1905), analizza lo sviluppo sociale russo nel contesto internazionale dell'economia capitalista, ravvisando nel proletariato il protagonista di una rivoluzione socialista che esclude la "necessità storica" della lunga fase di sviluppo capitalista.
La genesi del marxismo ebraico si sviluppò
al di fuori di questa problematica che aveva così profondamente segnato
le origini del marxismo russo. In Lituania e in generale in tutta l'area d'insediamento
l'intellettualità ebrea non poteva assumere il marxismo né come
teoria dello sviluppo capitalista, né come teoria della rivoluzione permanente.
Si trattava di due orientamenti strategici che affidavano il protagonismo sociale
al proletariato industriale russo, mentre una delle caratteristiche principali
dello shtetl (condizione sociale degli Ebrei, n.d.t.) era l'esclusione
del proletariato ebreo dall'industria meccanizzata. I circoli socialisti ebrei
lituani e polacchi dovevano piuttosto confrontarsi con la difficoltà
di interpretare logicamente lo sviluppo del capitalismo russo. Il risultato
fu la nascita di un marxismo ebraico come teoria della questione nazionale.
Il riferimento sociale degli ebreo-marxisti adottando questo termine si
evita di confonderli con i marxisti ebrei integrati era quello di un proletariato
strutturalmente marginale ed etnicamente omogeneo, il riferimento culturale
quello di una minoranza nazionale extraterritoriale. Chiamando ebreo-marxismo
la particolare forma assunta dal pensiero marxista nella yiddishkeit,
non vogliamo affatto cercare di presentarla come un fenomeno omogeneo, o di
sottostimarne le differenze interne. Si tratta solo di coglierne la specifica
genesi, in seno all'impero russo, nel quadro della questione ebraica vista come
questione nazionale. All'origine dell'elaborazione teorica di Vladimir Medem
e di Ber Borokhov, pur nelle differenze metodologiche e strategiche, c'era sempre
lo stesso interrogativo: come risolvere il problema nazionale ebraico in Russia?
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Il movimento operaio ebreo
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Occorre notare alcune specificità importanti del proletariato ebreo.
A differenza della classe operaia russa di radice contadina, la classe operaia
ebrea aveva origine nell'artigianato. Le sue prime forme d'organizzazione sindacale
non si configuravano sul modello dell'obscina ma su quello dei khevroth,
associazioni di mutuo soccorso degli artigiani ebrei. La caratteristica fondamentale
del proletariato ebreo era l'esclusione dalla grande industria e la dispersione
in un gran numero di piccole fabbriche, che impiegavano mano d'opera esclusivamente
ebrea e sopravvivevano ai margini dello sviluppo economico. Gli operai ebrei
potevano tranquillamente rispettare il sabbat, mentre le grandi fabbriche che
impiegavano forza lavoro russa o polacca chiudevano la domenica. Alla struttura
della classe operaia ebrea faceva riscontro, nell'area d'insediamento, la debolezza
strutturale del capitale, ciò che ne comportava la concentrazione nelle
fasi finali della produzione. Le specificità culturali del proletariato
ebreo, legate prima di tutto alla religione e alla lingua, erano accentuate
dalla separazione di fatto dal proletariato russo. Questa concentrazione dei
lavoratori ebrei in una specie di "ghetto socio-economico" fu il contesto
materiale della nascita di uno specifico movimento operaio ebreo.
In questa situazione di assenza del proletariato ebreo dai settori produttivi decisivi e di oggettiva difficoltà di integrazione col proletariato dell'Europa centro-orientale (dato il peso predominante degli aspetti etnico-nazionali), fra il 1894 e il 1905 si concretizza la formazione del Bund in Lituania e in Polonia, dove, essendo il proletariato ebreo relativamente numeroso e concentrato, l'attività dei circoli socialisti si orienta verso l'organizzazione di massa. Ciò comporta l'adozione generalizzata dello yiddish come supporto linguistico dell'elaborazione e della propaganda, contribuendo ad accentuare il peso dell'identità nazionale nell'espressione organizzata del movimento operaio ebreo. Tuttavia il Bund, per quanto nel suo congresso fondante (ottobre 1897) riconosca la doppia natura dell'oppressione subita dal proletariato ebreo (come classe e come minoranza nazionale) continua implicitamente a mantenere la prospettiva dell'integrazione e dovrà attendere il suo IV congresso (1901) per porre al centro del dibattito la questione nazionale ed adottare (in sintonia con il Partito socialista austriaco che si batteva per l'estensione dei diritti di autonomia alle minoranze extraterritoriali)
un programma nazionale articolato attorno a tre rivendicazioni: a) trasformazione dell'impero russo multinazionale in una federazione di popoli; b) diritto all'autonomia nazionale per ciascuno di questi popoli, indipendentemente dal territorio d'insediamento; c) il riconoscimento degli Ebrei come nazione autonoma a pieno titolo. Ciò nonostante, il Bund decise di non rivendicare immediatamente il suo programma nazionale, limitandosi per il momento alla lotta per l'eguaglianza dei diritti civili e per la soppressione della legislazione antisemita. Allo stesso tempo questa evoluzione dell'analisi della questione nazionale portò il Bund ad avanzare una critica intransigente del sionismo, stigmatizzato come reazione borghese all'antisemitismo e come strumento di divisione e di disorientamento della classe operaia. L'adozione di un programma nazionale andava di pari passo con il netto rifiuto di qualsiasi ipotesi di nazionalismo ebreo.
Il processo di strutturazione in partito operaio ebreo del Bund lo portò ad entrare in conflitto con la social-democrazia russa (POSDR), in particolare sulla rivendicazione delle condizioni organizzative minime a cui i suoi dirigenti si erano limitati :essere riconosciuto come unico rappresentante del proletariato ebreo, trasformazione della social-democrazia in federazione di partiti nazionali. Veniva così al pettine il problema se il Bund dovesse essere un partito operaio ebreo autonomo o un'organizzazione interna al POSDR preposta alla propaganda fra i lavoratori di lingua yiddish. La scissione si consumò irrimediabilmente al II Congresso del POSDR nel 1903 (per non essere sanata che nel 1906) e testimonia del ruolo importante assunto dalle scelte organizzative nel dibattito sulla questione nazionale: se da un lato Lenin e i bolscevichi vedevano nel federalismo del Bund il rischio di un riflusso nazionalista e di una polverizzazione organizzativa che avrebbe compromesso l'unità e la forza della classe operaia, dall'altro i rappresentanti yiddish non osarono porre in discussione gli orientamenti nazionali a cui erano pervenuti in modo non ancora del tutto consolidato. Peraltro la separazione dal POSDR (vissuta anche drammaticamente in seno al Bund) accelerò l'acquisizione della prospettiva nazionale, definitivamente adottata nella quinta conferenza del Bund (1905).
Questa scissione non fu il frutto né di
una volontà settaria del Bund, né di ultimatum burocratici della
social-democrazia russa, come sembrerebbero suggerire alcune interpretazioni
storiografiche. Più semplicemente essa fu il prodotto della separazione
economico-strutturale e nazionale del proletariato ebreo dal proletariato russo
nelle zone d'insediamento. Contemporaneamente partito d'avanguardia e sindacato
militante dei lavoratori ebrei, il Bund aveva avuto origine in una specifica
lotta di classe all'interno dello shtetl. Come nota Alexandre Adler,
"la struttura artigianale e manufatturiera dell'industria nelle città
del Rajon non consentiva in alcun modo che un'organizzazione, di per sé
plurietnica, riuscisse ad organizzare i salariati ebrei contro il capitale,
essenzialmente ebraico, che li sfruttava". Tuttavia comprendere le radici
reali del conflitto fra il Bund e il POSDR non significa ritenere inevitabile
la scissione e impossibile la ricerca di una sintesi unitaria. Sotto questo
aspetto, occorre riconoscere che i marxisti russi si rivelarono totalmente incapaci
di percepire la natura reale del Bund.
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La sua forza e la sua originalità risiedevano nella ricerca di una sintesi
dialettica fra l'internazionalismo proletario e la difesa di una cultura nazionale
oppressa. I militanti del Bund collocavano l'internazionalismo nella tradizione
nazionale ebraica; essi consideravano possibile e necessaria la lotta per la
liberazione degli Ebrei russi nella prospettiva di una rivoluzione socialista
mondiale
L'autonomia nazionale: Vladimir Medem
Nel 1904 viene pubblicato, in russo e in yiddish, La questiona nazionale e la social-democrazioa, di V. Medem, sicuramente l'opera sul tema nazionale sino a quel momento più importante (un analogo studio di Otto Bauer sarà pubblicato tre anni dopo), poiché fornisce fondamento teorico agli orientamenti del Bund e precisa entità e natura delle divergenze con i social-democratici. Per Medem la nazionalità moderna è fenomeno connesso alla formazione della società capitalista sotto l'impulso della borghesia, ritenuta capace di supportare tendenze nazionali di segno opposto: sia il nazionalismo espansionista e imperialista, sia i movimenti di liberazione nazionale, per cui l'economia capitalista non era tanto il quadro di riferimento dell'affermazione nazionale quanto l'origine dello snaturamento nazionalista di una comunità culturale.
Egli formulava così il problema: "Una cultura nazionale sotto forma di entità indipendente, come ambito ristretto ai suoi contenuti, non è mai esistita. La nazione è la particolare forma in cui si esprime il contenuto umano universale [der algemein mentshleker hinalt]. L'essenza della vita culturale, che in generale è uguale dappertutto, prende colori e forme nazionali differenti nella misura in cui se ne appropriano gruppi differenti, fra i quali si siano stabilite relazioni sociali specifiche. Queste relazioni sociali - il quadro dove nascono i conflitti di classe e si sviluppano le tendenze intellettuali e spirituali - conferiscono alla cultura un carattere nazionale [a natsionaln shtemploif der kultur]". Questo passaggio ribadiva nettamente l'inesistenza di una cultura a-nazionale dal momento che, secondo Medem, la cultura rifletteva la vita sociale e non poteva che esprimersi in forme nazionali. La lotta di liberazione delle nazioni oppresse si manifestava in primo luogo come rivendicazione dei diritti della lingua e della cultura nazionale.
Medem vedeva nella lingua un fondamentale elemento costitutivo della nazione, origine e laboratorio della cultura nazionale, per cui assegnava allo yiddish tutta la dignità di lingua nazionale (contrariamente a certi ebraisti, fautori di una nazione ebrea del tutto astratta, che lo definivano un dialettaccio di strada), veicolo e culla dell'identità culturale e della coscienza politica delle masse ebree. Parallelamente egli riteneva la nazione un'entità indipendente dal territorio e negava che la questione nazionale potesse essere risolta spingendo il diritto all'autodeterminazione anche fino alla creazione di un nuovo Stato, riconoscendo i questo processo un principio tipico del nazionalismo borghese.
Il programma del Bund concepiva quindi l'autonomia
ebraica in forma nazionale-culturale (natsional-kultureler) e non territoriale.
Al posto del principio territoriale si affermava quello dell'autonomia personale,
indispensabile là dove le nazioni formavano delle "isole in territorio
straniero" (bildn hinzlen oif a fremder territorie). Si trattava
di una forma di autonomia tendente a garantire i diritti nazionali delle minoranze
economicamente integrate ai popoli con i quali condividevano il territorio.
L'autonomia personale un concetto che Medem mutuava da Karl Renner
implicava tutta una serie di norme giuridiche tali da difendere l'unità
politica della nazione: per esempio il riconoscimento della kehilah come
organismo autonomo, incaricato di gestire la vita nazionale ebrea in seno ad
una federazione multinazionale russa. Tuttavia , per Medem, l'"unità
politica" della nazione si riduceva alla propria autogestione culturale.
Si trattava del diritto ad usufruire di un'educazione scolastica nella lingua
materna, di utilizzare la medesima lingua nei tribunali e nei servizi pubblici,
mentre la soluzione dei problemi socio-economici più generali restava
prerogativa dei governi territoriali (formati dall'insieme delle entità
nazionli).
Riassumendo, nella teoria della nazione sviluppata da Medem, si trovavano due
elementi principali, la lingua e la cultura, uno secondario, l'economia, ma
non vi era quello del territorio.
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Pur riconoscendo il carattere nazionale della cultura ebraica contemporanea,
il Bund restava estraneo ad ogni forma di nazionalismo. Secondo Medem, la distinzione
fra nazione sentimento d'appartenenza ad un comunità culturale
e il nazionalismo tendenza al dominio di una nazione sulle altre
era fondamentale. La tendenza all'integrazione, per contro, non era che
"nazionalismo dell'appropriazione", poiché conduceva alla cancellazione
delle minoranze nazionali. Questa precisazione era implicitamente diretta contro
i marxisti russi dell'Iskra, i quali, fautori dell'integrazione degli
Ebrei, nella loro lotta contro il "nazionalismo del Bund", non facevano
che perpetuare una tendenza tipica del nazionalismo della grande Russia.
[........].
È evidente che la concezione bundista di nazione ebrea fondata sull'identità
linguistica e culturale, territorialmente distribuita, non aveva niente a che
vedere con il territorialismo e lo statalismo sionisti. [........].
Il V Congresso del Bund (Ginevra, 1904) definì il sionismo come un movimento
della piccola e media borghesia ebrea, stretto fra la concorrenza del grande
capitale da un lato e la piccola borghesia cristiana dall'altro. La sua ideologia
fu denunciata come una forma di nazionalismo nocivo per il proletariato, poiché
l'obiettivo della Palestina non poteva che sviare la lotta contro il regime
zarista causa vera dell'oppressione degli Ebrei inserendovi una
"psicologia da ghetto". Il VI Congresso (Zurigo, 1905) completò
la critica del sionismo, definitivamente condannato come "versione"
nazionalista specifica dell'ideologia piccolo-borghese", a causa del carattere
"utopistico ed avventurista" delle sue rivendicazioni territoriali;
esso offriva alla classe operaia un falso obiettivo e costituiva un ostacolo
alla sua lotta per la soluzione della questione ebraica nella diaspora, là
dove esisteva realmente una nazione ebrea. Le conclusioni affermavano la "necessità"
di combattere il sionismo "in tutte le sue forme e sfumature".Il bundisti
non accettavano di rimandare ad un futuro lontano, fuori della Russia, il diritto
degli Ebrei a disporre di se stessi. Occorreva lottare per soluzioni immediate
la dove gli Ebrei vivevano da generazioni. Questo principio del "qui e
ora", totale antitesi ai progetti sionisti, si traduceva nel concetto di
doikeyt (dove do significa "qui").
Anche l'analisi dell'antisemitismo russo, sviluppata da Medem nella Neue
Zeit nel 1910, era strettamente legata alla sua teoria della nazione.
Egli distingueva due forme principali di antisemitismo: una di tipo economico (già conosciuta in Europa occidentale) che si manifestava fondamentalmente nel boicottaggio delle attività economiche degli Ebrei, là dove particolarmente numerosi; e l'altra, che definiva a-semitismo, tipca di larghi strati di intellettuali, anche liberali, di professionisti e di studenti, attratti dai miti del nazionalismo russo e della mistica slavofila. Si sviluppava così un moderno antisemitismo di massa, con caratteristiche prettamente razziali, che si opponeva ad ogni forma di integrazione degli Ebrei nella struttura sociale (prospettiva che Medem peraltro non auspicava), ma che agiva anche come politica di snazionalizzazione impedendo l'autonomo sviluppo della cultura ebraica.
Questa caratteristica specifica dell'antisemitismo
russo era interpretata da Medem come una risposta dello zarismo allo sviluppo
della comunità ebrea in forma di "nazione culturale moderna"
sotto l'impulso del movimento operaio. Non potendo la cultura ebraica essere
difesa altro che dal proletariato, Medem individuava infine la nascita di una
nuova forma di antisemitismo, incarnato dalla borghesia ebrea integrata che
non poteva per ragioni di classe più che culturali riconoscersi
nella yiddishkeit.
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Il sionismo: Ber Borokhov
Il sionismo socialista si manifesta in Russia a partire dal 1890 circa sotto forma di una miriade di raggruppamenti che, fino al 1905, vivono in condizione di precarietà organizzativa e confusione ideologica. In seguito si affermano tre principali correnti organizzate: a) il Partito operaio sionista socialista (Syrkin,Lestschinsky, Tchernikov); b) il Partito operaio socialista ebreo, detto SERP (Rosin, Zilbelfarb, Ratner, Jitlovsky); c) il Poale Tsion (Borokhov). Il primo partiva dalla negazione di qualsiasi possibilità di riscatto nella condizione della diaspora con un atteggiamento di tipo "nichilista", che tuttavia gradualmente superarono accettando alla fine l'idea dell'autonomia nazionale-culturale in una Russia liberata dallo zarismo. Il SERP rimandava a tempo indeterminato la prospettiva di un territorio autonomo e circoscritto, puntando per l'immediato sulla rivendicazione del sejm (una specie di parlamento nazionale ebreo). Il principale tentativo di realizzare la sintesi fra teoria marxista e nazionalismo ebraico lo si riscontra nell'opera di Borokhov, il più importante dirigente del Poale Tsion. la sua formazione oscilla, fino al 1905, fra posizioni anche opposte: dalla visione ateo-secolare della socialdemocrazia russa fondamentalmente indifferente al problema ebraico, al sionismo messianico fondato sull'aspirazione alla "terra promessa". È costante comunque il giudizio negativo sull'integrazione del popolo ebreo con le altre nazionalità, percepita sostanzialmente come tendenza di un popolo a sottometterne un altro. Non mancarono tuttavia intuizioni originali.
Si trattava di una critica dell'idea di progresso
(così profondamente radicata, l'abbiamo già notato, nei teorici
dell'integrazione) intesa come processo irreversibile e continuo, che automaticamente
estingue la questione ebraica. Borokhov capiva come l'oppressione degli Ebrei
non fosse solamente il prodotto dell'arretratezza sociale e culturale russa,
ma un fenomeno molto più complesso, che si manifestava anche nella modernità
capitalista. Scriveva: "Noi non abbiamo alcuna fiducia nel progresso, sapendo
che i suoi più ferventi adepti ne esagerano a dismisura le conquiste.
Il progresso è un fattore importante nello sviluppo della tecnologia,
delle scienze, forse anche delle arti, ma certamente anche nella diffusione
delle nevrosi, dell'isteria e della prostituzione. È troppo presto per
parlare di progresso morale delle nazioni e della fine dell'egoismo nazionale.
Il progresso è una lama a doppio taglio: da una parte c'è l'angelo
buono, dall'altra Satana." Borokhov intuiva, con questo linguaggio allegorico,
che il progresso tecnico-scientifico non era inevitabilmente portatore di progresso
sociale e "morale" ma che, al contrario, comportava anche l'eventualità
di una moderna barbarie di cui gli Ebrei potevano diventare le vittime. Sembrava
quasi che egli considerasse la disumanità dei rapporti sociali capitalisti
non tanto come un'ipotesi futura, quanto come la reale natura del progresso
capitalista. In questa prima fase, il pensiero di Borokhov rivestiva dunque
una tendenza tipicamente romantica. Il ritorno degli Ebrei in Palestina, non
ancora motivato razionalmente sulla base di un'analisi socio-economica, si caricava
di un ideale messianico e personificava la ricomposizione di un'armonia originaria
spezzata dalla diaspora.
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La prima opera marxista di Borokhov fu lo studio Interessi di classe e questione
nazionale, pubblicata in russo, poi in yiddish, a Vilnius nel 1905. Questo
lungo saggio non affrontava l'analisi del problema ebraico, limitandosi a tracciare
le linee di una teoria marxista della nazione. Tuttavia può già
essere considerata un'opera della maturità, coerente nell'argomentazione
e rigorosa nell'esposizione, che contiene in nuce tutte le categorie
concettuali del borokhovismo. L'analisi marxista del fenomeno nazionale precede,
nello sviluppo del suo pensiero, l'elaborazione di un programma sionista articolato
e organico, del quale costituisce la premessa indispensabile.
La costruzione teorica di Borokhov riposa sul concetto di "condizioni di
produzione", che individua il quadro in cui nascono e si sviluppano le
forze produttive della società e dove in seguito si stabiliscono dati
rapporti di produzione. Queste condizioni di produzione, che rappresentano quindi
la base primaria di ogni sistema sociale ed economico, sono elencate in ordine
gerarchico: a) geografiche (fisico-climatiche); b) antropologiche
(la razza); c) storiche (lo sviluppo di una comunità umana, le
sue relazioni interne, ecc.). Le condizioni storiche di produzione, ultime nell'ordine,
s'impongono gradualmente sulle condizioni naturali cristallizzandosi in un patrimonio
culturale e "spirituale" costituito da più fattori, come ad
esempio "la lingua, le tradizioni, i costumi, i modi di vedere il mondo".
I rapporti di produzione stabiliscono la divisione della società in classi,
mentre le condizioni di produzione, per contro, determinano la divisione dell'umanità
in comunità distinte (popoli, nazioni). I conflitti sociali hanno la
loro origine nel divorzio fra forze produttive e rapporti di produzione (quando
la struttura economica della società non può più sopportare
lo sviluppo delle forze produttive), mentre la questione nazionale nasce dal
conflitto fra forze produttive e condizioni di produzione.
Il concetto di condizioni di produzione è mutuato da Marx, che tuttavia lo usava solo nel senso di "condizioni naturali" della produzione (natura, clima, ecc.) e non ne fece mai una categoria fondante del suo pensiero economico. Borokhov ne fa un pilastro della sua teoria e ne estende il significato alla "cultura" e alle "concezioni del mondo", contrariamente a molti marxisti minori che consideravano schematicamente tali categorie come elementi passivi a rimorchio della struttura socio-economica.
Le condizioni di produzione servirono da punto
di partenza per definire i concetti di popolo e di nazione: il primo era costituito
da una "società" (divisa in classi) la cui fisionomia era stata
creata dalle condizioni storiche comuni di produzione; la nazione si collocava
a un livello superiore, là dove una comunità umana prendeva coscienza
del proprio "passato storico comune". Il popolo non era che una fase
embrionale nel processo di formazione della nazione, che presupponeva un'unità
di base delle condizioni di produzione. Borokhov distingueva i concetti di popolo
e di nazione applicando in campo nazionale la dicotomia, individuata da Marx
in Miseria della filosofia (1846), fra concetto di "classe in sé"
e "classe per sé", cioè fra classe intesa come semplice
raggruppamento di individui che rivestono lo stesso ruolo nel processo di produzione
e classe come entità collettiva cosciente dei propri interessi storici.
Scriveva Borokhov: "L'esistenza sulla base degli stessi rapporti di produzione,
quando questi rapporti sono armoniosi fra gli individui del gruppo, produce
la coscienza di classe e il sentimento di solidarietà di classe. L'esistenza
sulla base delle stesse condizioni di produzione, quando le condizioni sono
armoniose per i membri della società, produce la coscienza nazionale
e il sentimento di appartenenza nazionale." Questo sentimento, creato da
una comune memoria storica, rappresentava per Borokhov il nazionalismo. Prima
di essere una politica o un'ideologia, il nazionalismo era il naturale sentimento
di appartenenza ad una comunità nazionale specifica. In questo senso
Borokhov rifiutava di qualificare il nazionalismo di "cosa anacronistica,
reazionaria o tradizionale." Anche il proletariato, ancorato a condizioni
di produzione come ogni altra classe, esprimeva una propria forma di nazionalismo.
Durante las Prima Guerra mondiale, che vide il Poale Tsion allineato su posizioni
internazionaliste/pacifiste accanto al movimento di Zimmerwald, Borokhov riaffermò
in questi termini il valore del nazionalismo proletario: "L'istinto di
autoconservazione delle nazioni non può essere eliminato. L'idea richiedere
alle nazioni di rinunciare alla propria identità e di abbandonare la
fiducia in se stesse è segno di volgare dilettantismo ed è un
puro non-senso. L'istinto nazionale d'autoconservazione, latente nella classe
operaia socialista e fondato su una considerazione realistica del nazionalismo,
può liberare l'umanità malata in questa era capitalista e risolvere
i conflitti sociali e nazionali."
[........].
Tuttavia un criterio restava sempre presente nella definizione di nazione e
di nazionalismo di Borokhov: il territorio. A questo proposito si differenziava
profondamente tanto da Medem, accusato d'ignorare la "base materiale"
del problema nazionale, quanto dagli austro-marxisti. L'insistenza sul territorio,
considerato come insostituibile "base materiale" della nazione, era
per contro appannaggio di Kautsky e, come si vedrà, di Stalin. Questa
omologia teorica merita i essere sottolineata: i bundisti si preoccupavano di
definire la nazione ebraica della yiddishkeit, della quale rilevavano
le specificità a fronte del modello nazionale prodotto dalla storia dell'Europa
occidentale; Kautsky, Stalin e Borokhov cercavano invece di classificare il
problema nazionale entro i limiti di categorie prestabilite e costrittive. La
concezione di Borokhov, per quanto più articolata e ricca di sfumature,
in ultima analisi si riduceva, come quella del bolscevico georgiano e del direttore
della Neue zeit, ad una definizione normativa del fenomeno nazionale.
Nel quadro della concezione che vede nell'assenza della "base materiale" la vanificazione di qualsiasi lotta per il riscatto nazionale, e riprendendo l'analisi della debolezza strutturale della classe operaia ebrea a causa della sua concentrazione in settori marginali e non strategici della produzione, Borokhov tenta una giustificazione razional-materialista del messianico ritorno alla terra promessa: la Palestina.
A suo avviso la Palestina, in quanto paese semi-agricolo, presentava le condizioni economiche ideali per accogliere la colonizzazione sionista, e offriva anche vantaggi d'ordine culturale rispetto ad altri paesi. I suoi abitanti, i Fellah, erano i "discendenti diretti della popolazione di Giudea e di Cahan, con una piccola aggiunta di sangue arabo"; in altri termini essi si distinguevano appena dai Sefarditi. Il loro sviluppo culturale sembrava a Borokhov (che non era mai stato in Palestina) perfettamente adatto ad un incontro con i coloni sionisti. Era convinto che gli Arabi avessero raggiunto un livello di sviluppo che permetteva loro di integrarsi in un'economia moderna, ma non di resistere all'integrazione nella cultura occidentale "superiore". Egli scriveva (....): "La popolazione d'Ertz Israël adotterà il modello economico e culturale che s'imporrà nel paese. Gli autoctoni si assimileranno economicamente e culturalmente a coloro che avranno assunto la direzione dello sviluppo delle forze produttive." Disprezzava profondamente tutti i fautori dell'integrazione ebraica in Europa, ma contemporaneamente considerava l'assimilazione degli Arabi in Palestina un fenomeno del tutto naturale e "progressista". Su questo punto la sua concezione era analoga a quella di Hrzl, l'autore di Der Judenstaat (lo Stato ebraico, n.d.t.), che proponeva di trasformare la Palestina in un avamposto della civilizzazione occidentale contro la "barbarie" del mondo arabo. In un articolo del 1916 Borokhov esaltava il miliziano (shomer) costretto a prendere le armi per difendere le posizioni sioniste contro gli attacchi dei vicini "semi-barbari" (halb-wildnmentshn). Questa posizione rivelava la tara originaria del sionismo, frutto di un'epoca dominata dalla "concezione del mondo non europeo come spazio colonizzabile" (Maxime Rodinson). La visione di una società multietnica e culturalmente pluralista - nocciolo del pensiero di Medem - si rivelava incompatibile con le categorie concettuali di Borokhov: mentre in Russia la minoranza ebrea rappresentava un'anomalia da superare, in una Palestina ebrea l'anomalia araba avrebbe dovuto essere eliminata.
In questa prospettiva Borokhov auspicava un blocco sociale fra borghesia (sviluppo delle forze produttive) e proletariato (egemonia nel processo di colonizzazione) capace di dar vita (anche con un'azione diplomatica del sionismo per il diritto alla colonizzazione della Palestina) ad uno Stato nazionale ebreo nel quadro di una Palestina integrata nell'economia capitalista. L'ambiguità di un simile programma non poteva che essere condannata dal Bund che vi ravvisava la sostituzione della solidarietà di classe internazionale con la solidarietà interclassista ebrea e delle aspirazioni nazionali dei lavoratori con il nazionalismo, tanto che Borokhov temeva molto di più la contaminazione del proletariato ebreo con quello non ebreo che il ruolo antinazionale del grande capitale straniero.
Questo particolare atteggiamento - non riguardante i Palestinesi, destinati all'integrazione - era rivelatore della natura della colonizzazione sionista. Si potrebbe ravvisare in nuce la prefigurazione della dinamica concreta del sionismo in Palestina fra le due guerre e dopo la nascita dello Stato d'Israele, cioè quella di un colonialismo sui generis, che non cerca di sottomettere le strutture sociali autoctone ma piuttosto di creare una sintesi socio-economica parallela, basata sull'esclusione della mano d'opera araba.
Borokhov non superò mai le proprie ambiguità e la negazione della realtà della nazione araba esistente in Palestina rimase irrimediabilmente il limite storico del sionismo.
I marxisti russi e polacchi
Per i marxisti russi il dibattito fra Bund e sionisti restò sempre incomprensibile. Ai loro occhi la questione ebraica non sembrava una questione nazionale. Ossessionati dall'idea che la Russia semi-feudale e semi-asiatica doveva recuperare il ritardo accumulato in confronto all'Occidente, non vedevano nella questione ebraica che una commedia etnografica priva d'interesse. Estranei al mondo della yiddishkeit per lingua e cultura, essi analizzavano il problema ebraico sotto un solo parametro d'interpretazione: l'integrazione. in questo capitolo esamineremo le posizioni dei marxisti russi (Lenin, Stalin, Trotsky) e polacchi (R. Luxemburg).
Lenin
Anche se affrontata sempre sotto profilo pragmatico, la questione ebraica compare spesso negli scritti di Lenin. Si trattava, nella maggior parte dei casi, d'interventi polemici verso il Bund. La decisione di quest'ultimo di considerarsi partito indipendente del proletariato ebreo e l'auspicio di una riorganizzazione federativa della socialdemocrazia e dell'impero incontrarono una reazione molto ostile da parte di Lenin. Sulle pagine dell'Iskra, egli denunciava il "nazionalismo" e il "separatismo" del Bund, colpevole secondo lui di minare la forza e l'unità del movimento operaio russo. Sul piano teorico considerava le tesi del Bund - il progetto di autonomia nazionale e culturale - come il risultato di una "persistente penetrazione del nazionalismo" nelle sue file. All'autoproclamazione del Bund come "solo rappresentante" del proletariato ebreo, egli opponeva lo statuto del POSDR del 1898, che definiva il Bund sotto forma di un'organizzazione particolare per la propaganda fra gli operai ebrei.
In linea generale, e senza alcuna preoccupazione di coerenza teorica, le considerazioni di Lenin sugli Ebrei subiscono ampie e contraddittorie oscillazioni, per lo più dovute al variare contingente dei rapporti di collaborazione o di conflitto con il Bund. Se da un lato si appella agli operai ebrei valorizzandone la cultura nazionale, dall'altro (d'accordo con Kautsky) bolla di reazionaria l'idea stessa di nazione ebraica, che peraltro riconosce come quella più oppressa e più sfruttata.
Riprendendo un tema già avanzato da Anton
Pannekoek in Nazione e lotta di classe (1912), Lenin affermava il principio
di un internazionalismo intransigente e negatore del principio "borghese"
di cultura nazionale. Il proletariato non doveva difendere la cultura nazionale,
ma piuttosto lottare per una cultura internazionale democratica e socialista.
I marxisti russi, spiegava Lenin, non potevano difendere la cultura della grande
Russia, cioè la cultura di una nazione dominante che opprimeva tutti
i popoli allogeni dell'impero, senza esporsi al pericolo di una grave deviazione
nazionalista. Questa tesi assai semplicistica - non era la cultura russa ma
la politica nazionalista del regime degli Zar che portava la responsabilità
dell'oppressione nazionale degli Ucraini, degli Armeni, degli Ebrei ecc - egli
l'utilizzava anche contro l'idea di una cultura nazionale ebraica, la cultura
di una nazione oppressa, e questo era molto più grave e metodologicamente
inaccettabile.
Il rifiuto dell'idea di una cultura nazionale ebraica si collocava in un orizzonte
ideologico preciso: l'integrazione. "La cultura nazionale ebraica - scriveva
Lenin - è la parola d'ordine dei rabbini e dei borghesi, la parola d'ordine
dei nostri nemici. Ma ci sono altri elementi nella cultura e in tutta la storia
ebraica. Dei dieci milioni e mezzo di ebrei esistenti nel mondo intero, un po'
più della metà abitano la Galizia e la Russia, paesi arretrati
e semi-selvaggi, che opprimono gli Ebrei confinandoli in un situazione di casta.
L'altra metà vive in un mondo civilizzato, dove per gli Ebrei non esiste
particolarismo di casta e dove si sono chiaramente manifestati i nobili aspetti
universalmente progressisti della cultura ebraica: l'internazionalismo, l'adesione
ai movimenti progressisti del momento (la proporzione degli Ebrei nei movimenti
democratici e proletari è ovunque superiore a quella degli Ebrei nel
complesso della popolazione). Chiunque affermi direttamente o indirettamente
la parola d'ordine della cultura nazionale ebraica (per quanto nobili possano
essere le sue intenzioni) è un nemico del proletariato, un fautore degli
elementi arcaici e marchiati dal carattere di casta della società ebraica,
un complice dei rabbini e dei borghesi".
[........].
Per contro il dirigente bolscevico condannò sempre in maniera decisa
e intransigente l'antisemitismo. Vi vedeva uno degli aspetti più odiosi
dell'arretratezza e della barbarie che caratterizzavano il regime zarista. Egli
rifiutava la visione sionista di una giudeofobia universale e permanente: sicuramente
l'antisemitismo aveva radici profonde nella società russa, ma la sua
natura e le sue manifestazioni derivavano prima di tutto, secondo lui, dal potere
assolutista. Prima d'essere un'ideologia reazionaria e un pregiudizio popolare,
l'antisemitismo russo era soprattutto una pratica violenta e brutale della dominazione
zarista. In un articolo del 1906, egli attribuiva al governo la responsabilità
del pogrom di Byalistock: "Solito copione. La polizia prepara il pogrom
in anticipo. La polizia eccita gli autori del pogrom; le tipografie governative
producono appelli al massacro degli Ebrei. All'inizio del pogrom la polizia
non interviene. La truppa assiste in silenzio alle prodezze dei Cento-Neri.
In seguito la polizia, quella stessa polizia, mette in scena la commedia della
ricerca e dell'incriminazione degli autori dei pogrom".
Era il normale svolgimento di un pogrom. Per combattere la violenza antisemita,
Lenin proponeva la creazione di milizie operaie d'autodifesa. Se i pogrom erano
violenza di Stato contro gli Ebrei, non si poteva evidentemente chiedere allo
Stato di proteggere la popolazione ebraica dagli assalti dei Cento-Neri. Quando
nel 1903 scoppiò un'ondata di pogrom (Kisinev), egli portò l'esempio
della risposta collettiva che avevano organizzato i lavoratori ebrei, ucraini
e russi a Odessa. È evidente che, per Lenin, la lotta contro l'antisemitismo
riguardava direttamente gli operai russi. Si potrebbe dire, parafrasando una
celebre osservazione di Marx sull'Irlanda, che Lenin vedeva nei pregiudizi antisemiti
degli operai russi una delle origini della loro debolezza e della loro impotenza.
[........]
La natura di classe di questo movimento reazionario era individuata (da Lenin,
n.d.t.) nel tentativo dei proprietari terrieri e della borghesia di "indirizzare
contro gli Ebrei l'odio degli operai e dei contadini ridotti in miseria."
L'antisemitismo russo si manifestava nei pogrom, ma la sua funzione sociale
e politica era in fondo la stessa che nei paesi capitalisti progrediti: ottenebrare
la coscienza di classe del proletariato, sviarlo dalla lotta contro i suoi veri
nemici.
[........]
Lenin comprendeva che l'antisemitismo alzava una barricata contro l'integrazione.
I pogrom erano causa della sopravvivenza dei ghetti dove, complice l'antisemitismo,
si formava l'idea di una cultura nazionale ebraica. Ai suoi occhi, la cultura
yiddish non era altro che un sottoprodotto dell'antisemitismo russo. Cosciente
dell'estensione del fenomeno antisemita, riconosceva l'esistenza di una questione
ebraica in Russia, senza tuttavia percepirne né le implicazioni culturali,
né la dimensione nazionale. Il suo approccio rimase prigioniero del dogma
dell'integrazione. La cancellazione delle discriminazioni antisemite, la conquista
dei diritti civili, in breve l'emancipazione, avrebbero sbriciolato le mura
del ghetto e gli Ebrei si sarebbero finalmente mescolati con gli altri popoli,
come era già avvenuto in Occidente. Di tanto in tanto sembrava riconoscere
agli Ebrei il diritto all'autonomia regionale e locale, ma fondamentalmente
il suo atteggiamento verso la cultura ebraica restava negativo. Esso rifletteva
peraltro un limite più generale dell'elaborazione teorica di Lenin sul
problema delle nazionalità extraterritoriali. Prospettando ai popoli
minoritari l'alternativa integrazione o autodeterminazione, la posizione bolscevica
non poteva fornire risposte soddisfacenti ai problemi delle nazionalità
extraterritoriali, che rifiutavano la prima soluzione ma, allo stesso tempo,
non si trovavano nelle condizioni oggettive necessarie alla seconda. Come ha
notato Claudie Weill, i bolscevichi non facevano che riproporre l'antica tesi
di Engels: "o assimilazione delle nazioni senza storia (...) o separazione
delle nazioni storiche".
[........]
Stalin
L'integrazionismo bolscevico trovò formalizzazione
teorica nel saggio di Stalin Il marxismo e la questione nazionale (1913).
In sostanza non faceva che riprendere le tesi già avanzate da Lenin in
polemica con il Bund, appesantendole di un tono polemico piuttosto grossolano:
ad esempio denunciava la lotta per il sabato festivo come apologia della religione
ebraica, la campagna per lo sviluppo dello yiddish come sintomo evidente di
"scopi particolari puramente nazionalisti" del movimento operaio ebreo...
A suo dire la politica del Bund si riduceva a "preservare tutto quello
che è ebreo, perpetuare tutte le particolarità nazionali degli
Ebrei, comprese quelle chiaramente nocive per il proletariato, isolare gli Ebrei
da tutto ciò che non è ebreo"... In tal senso l'esistenza
dei sindacati ebrei era rivelatrice delle scelte separatiste del Bund, conseguenza
di una politica artificiale di divisione mentre, in realtà, si trattava
di un fenomeno collegato alle specificità strutturali del proletariato
ebreo del Rajon.
In più, secondo Stalin, il nazionalismo bundista non aveva alcuna base
materiale poiché gli Ebrei non erano mai stati una nazione. Egli definiva
il concetto di nazione in modo estremamente rigido, riducendolo quasi ad una
formula matematica: "La nazione è una comunità stabile, storicamente
costituita, di lingua, di territorio, di vita economica e di formazione fisica,
che si traduce nella comunanza culturale." Precisava tuttavia che non si
poteva parlare di nazione che quando tutti questi elementi coesistevano: "Solo
la presenza di tutti questi indici presi insieme ci dà la nazione."
Risulta quindi un sistema teorico dogmatico assai diverso dai concetti di nazione, ben più dialettici, elaborati da Lenin, che non ha mai adottato il criteri come "comunità diformazione fisica" nella definizione dell'identità nazionale. Stalin liquida la yiddishkeit come un insieme di superstizioni e di tradizioni religiose obsolete in via di estinzione, non avendo mai compreso che il mondo russo e il mondo ebraico erano ben distinti per aspetti economici, sociali e culturali.
A differenza di Lenin, che vi individuava una
delle componenti fondamentali della questione ebraica in Russia, l'antisemitismo
sembrava a Stalin pressoché inesistente. Nel suo saggio del 1913 non
si trova che un riferimento in proposito, che classifica l'odio contro gli Ebrei
come una "forma di bellicoso nazionalismo", alla pari del sionismo
e del nazionalismo armeno. Le sue definizioni apparivano come un magma indifferenziato,
in cui ogni distinzione fra fanatismo della nazione dominante e nazionalismo
dei popoli oppressi era sparita. Se nel suo saggio dava prova di un'indifferenza
di fondo nei confronti dell'antisemitismo, nelle polemiche interne al partito
non disdegnava di servirsi della più volgare demagogia. Tutte le sue
biografie riferiscono di un episodio del 1907, in occasione del congresso di
Londra della socialdemocrazia: dato che la maggior parte dei delegati bolscevichi
erano russi mentre fra i menscevichi c'era una forte minoranza ebrea, Stalin
si compiaceva di ripetere la battuta sinistra secondo la quale i bolscevichi
avrebbero dovuto organizzare un pogrom per liberarsi della "fazione ebrea".
[........]
Trotsky
Nel periodo precedente all'Ottobre, Trotsky in
generale condivideva l'atteggiamento di Lenin sul problema ebraico. Per esempio,
al II Congresso del POSDR, aveva criticato il federalismo e il separatismo bundisti;
nel 1905 e 1913 si era impegnato a fondo nella lotta contro l'antisemitismo;
infine si ritrovano nei suoi scritti gli stessi ondeggiamenti di Lenin a proposito
della definizione degli Ebrei come nazione. Tuttavia, a differenza di Stalin
o di Lenin, non trasformò mai l'idea dell'integrazione in dogma.
Nel 1904 riconosceva implicitamente l'esistenza di una nazione ebraica extraterritoriale
scrivendo che "la sfera d'azione del Bund non era lo Stato ma la nazione.
Il Bund è l'organizzazione del proletariato ebreo". Questo non gl'impediva
di ravvisare nel Bund l'"impronta del provincialismo militante e dello
spirito di campanile". Criticava le "deviazioni nazionaliste"
del Bund, senza mai metterne in dubbio la legittimità in quanto rappresentante
di un settore della classe operaia dell'impero russo. Al momento di esaminare
le cause profonde della scissione fra Bund e socialdemocrazia, la sua analisi
si rivelava meno astratta di quella dei bolscevichi. Al congresso di fondazione
del POSDR, l'autonomia del Bund era puramente tecnica, ma notava che poco a
poco il "particolare" si era trasferito sul "generale":
da rappresentante del POSDR in seno al proletariato ebreo, il Bund era diventato
rappresentante dei lavoratori ebrei nei confronti del partito socialdemocratico.
In realtà il congresso del 1903 aveva solo formalizzato una scissione
che in realtà esisteva già.
L'atteggiamento verso il sionismo del primo Trotsky è caratterizzato dalla critica al misticismo della "terra promessa" delle correnti religiose e integraliste, così come alle correnti laico-borghesi tendenti al recupero di un territorio d'insediamento attraverso l'attività diplomatica internazionale. Nel conflitto fra queste due anime del movimento sionista (radicate la prima nelle caste rabbiniche e la seconda nell'intellighenzia liberal-democratica) egli vede il germe della sua dissoluzione, ma comprende anche che le istanze di identità nazionale portate dal movimento sarebbero sopravvissute nel sentire comune del movimento operaio ebreo. Il Bund sarebbe quindi stato erede politico della sinistra sionista liberal-democratica, accelerandone l'abbandono del miraggio palestinese. L'ipotesi di Trotsky, per quanto smentita dalla storia, dimostra quanto la sua idea di nazione ebraica fosse distante da quella di Lenin o Stalin.
Nel 1919, divenuto capo dell'Armata rossa, Trotsky
accettò la proposta del Poale Tsion di costituire "battaglioni nazionali"
ebrei, destinati a organizzare la difesa della popolazione ebraica contro i
pogrom e a favorire la sua adesione al nuovo potere sovietico.
[........]
Un atteggiamento integrazionista era implicito nel pensiero di Trotsky, senza
però apparire mai apertamente come in Lenin o Stalin. Ciò si spiega
forse con il rapporto piuttosto originale di Trotsky con il problema nazionale.
Egli non negava il diritto dei popoli a disporre di se stessi ma, lungi da una
visione astratta del problema, lo collocava nell'ambito della crisi storica
dello Stato-nazione nella fase imperialista. Lo sviluppo delle forze produttive
aveva spezzato il quadro angusto degli Stati nazionali e richiedeva la creazione
di strutture sopranazionali. Trotsky non pensò mai a circoscrivere la
propria riflessione in campo nazionale entro una formula a priori, come
avevano fatto, in modi diversi, Kautsky e soprattutto Stalin. Nei suoi scritti
si rileva quindi una concezione fondamentalmente storico-culturale della nazione.
Il territorio, la lingua la cultura, la storia di un popolo: tutti questi elementi,
anche se non sempre coesistono, materializzano ai suoi occhi la nazione, da
non confondere con lo Stato-nazione, cioè la forma specifica, storicamente
determinata e transitoria, che la borghesia e il capitalismo assegnavano al
fenomeno nazionale. In un articolo del 1915, Nazione e economia, Trotsky
scriveva: "La nazione costituisce un fattore attivo e permanente della
cultura umana. La nazione sopravviverà non solo alla guerra attuale,
ma anche allo stesso capitalismo. E, nel regime socialista, la nazione liberata
dalle catene della dipendenza politica e economica sarà per lungo tempo
chiamata a svolgere un ruolo fondamentale nel divenire della storia". Si
trovano in Vladimir Medem formulazioni quasi identiche, ma Trotsky, ebreo integrato,
cosmopolita ed estraneo alla yiddishkeit, non poteva immaginare una nazione
e una cultura nazionale nel mondo degli Ebrei dell'Est. Il pensiero di Trotsky
sulla questione ebraica conoscerà una notevole evoluzione: negli anni
trenta ammetteva l'esistenza di una nazione ebraica, culturalmente viva e moderna,
che occorreva difendere dalla minaccia nazista. Né Kautsky né
Bauer svilupparono una simile posizione. In Trotsky ciò fu possibile
grazie alla sua teoria dialettica, aperta e non cristallizzata, della nazione.
Rosa Luxemburg
Occorre collocare le posizioni di Rosa Luxemburg sulla questione ebraica nel quadro del dibattito sul problema nazionale fra i marxisti polacchi. In un primo tempo ostili alla rivendicazione dell'indipendenza nazionale, a partire dai primi degli anni novanta - periodo segnato dall'aggravarsi dell'oppressione nazionale che si manifestava nel divieto dell'uso del polacco e nella russificazione di tutto il sistema scolastico - i socialisti imboccarono una svolta nazionalista. La liberazione nazionale fu posta al centro di tutta la politica del Partito socialista polacco (PPS) e sistematizzata sotto il profilo teorico negli scritti di Boleslaw Limanowski e Kazimierz Kelles-Krauz.
Opponendosi a questa svolta R. Luxemburg e altri fondano nel 1893 la SDKPiL (Scialdemocrazia del regno di Polonia e Lituania) su basi di intransigente internazionalismo e di irriducibile opposizione al concetto di Stato-nazione, collocando invece l'istanza dell'identità nazionale una prospettiva essenzialmente culturale.
Contraria all'indipendenza polacca, Rosa sosteneva
la necessità di combattere per "difendere la nazionalità,
come cultura dello spirito, specifica e distinta, che ha diritto all'esistenza
e allo svuluppo". Secondo questo concetto di nazione, il cui criterio costitutivo
è la comunità culturale, Rosa non identificava i destini della
nazione con quelli del capitalismo. L'avvenire degli Stati nazionali borghesi
era determinato dalla dinamica storica del capitalismo, non così quello
della nazione. Contrariamente a Lenin e Kautsky, che pronosticavano il superamento
delle nazioni nel socialismo attraverso un processo universale di omogeneizzazione,
Rosa Luxemburg concepiva il principio dell'autodeterminazione nazionale come
una "idea completamente irrealizzabile nella società borghese e
che potrà essere conseguita solamente sulla base del sistema socialista".
In questo senso, la SDKPiL aveva adottato un programma di autonomia nazionale
culturale (su base territoriale) per la Polonia. Nel saggio del 1908-1909, La
questione nazionale e l'autonomia, Rosa Luxemburg definiva "l'autonomia
nazionale moderna" come forma d'"autogestione di un dato territorio",
precisando che la cultura nazionale non viveva "sospesa in aria, e nemmeno
nel vuoto teorico dell'astrazione; essa [viveva] su un territorio, in un ambiente
sociale determinato". Ciò prova che, pur difendendo una concezione
storico-culturale della nazione, non ammetteva l'idea di un'autonomia nazionale
extraterritoriale. Questa sintesi del cammino teorico di Rosa Luxemburg permette
di chiarire due punti: a) la sua tendenza favorevole all'integrazione
ebraica non derivava né da un internazionalismo astratto, né da
una concezione del socialismo come annullamento delle differenze nazionali;
b) la sua concezione territoriale dell'autonomia nazionale comportava
una differenza fondamentale con il Bund.
Nel panorama dei socialisti polacchi l'auspicio della completa integrazione degli Ebrei era minimo denominatore comune, pur fra gli estremi del PPS (negazione dell'identità ebraica in nome di un fiero nazionalismo polacco) e la voce isolata di Kelles-Krauz (SDKPiL) secondo il quale l'emancipazione degli Ebrei doveva comportare il possesso della nazionalità. Sulla questione ebraica, anche in contraddizione con la sua stessa teoria della nazione, Rosa non riesce a superare questo minimo denominatore comune, considerando la completa integrazione degli intellettuali ebrei (nell'ambiente dei quali era cresciuta) nella cultura polacca come un dato ormai insormontabile per il recupero di un'identità nazionale su base culturale. Inoltre non percepisce (forse anche avendo scelto la lontana Berlino come sede della sua militanza rivoluzionaria) la ricchezza e le trasformazioni della yiddishkeit ("incultura plebea", come la qualifica) e il carattere internazionalista e nazionale ad un tempo del socialismo ebreo, nel quale la profonda simbiosi fra intellettuali e movimento operaio è l'origine della moderna nazionalità ebraica, nel senso di comunità di cultura.
Rosa Luxemburg assegnava al proletariato un compito
egemone nel processo d'integrazione: "L'elemento progressista, prima di
tutto il proletariato, prima o poi capirà di dover adattarsi alla lingua
e alla cultura polacca, perché vive in mezzo alla popolazione polacca
e, allo stesso tempo, non può sviluppare la cultura ebraica". Non
augurava un'assimilazione forzata degli Ebrei, che dovevano scegliere liberamente
di rinunciare alla propria identità nazionale "conformemente all'influenza
esercitata sulla loro coscienza dallo sviluppo economico e culturale".
L'integrazione era dunque concepita come obiettivo e come tendenza presente
nella società. Abbiamo già cercato di spiegare che la realtà
era più complessa: globalmente nelle zone d'insediamento gli Ebrei costituivano
una minoranza, ma erano concentrati e separati, socialmente e culturalmente,
dalle popolazioni circostanti. In Europa orientale il capitalismo non aveva
prodotto l'assimilazione degli Ebrei, ma la metamorfosi dello shtetl.
Come la maggior parte dei socialisti del suo tempo, anche Rosa valutava la questione
ebraica sul metro dell'Europa occidentale: gli Ebrei di Lodz e di Varsavia dovevano
integrarsi come avevano già fatto i loro correligionari di Londra e di
Parigi. È assai sorprendente constatare che, per illustrare la tendenza
alla russificazione o alla polonizzazione degli Ebrei di Lituania, essa portasse
l'esempio di Vilnius, dove centottantadue scuole su duecentoventisette erano
ebraiche. Il dogma dell'integrazione era a tal punto interiorizzato da negare
l'evidenza della realtà storica.
[........]
A differenza dei marxisti russi, tedeschi o austriaci, che generalmente interpretavano
l'antisemitismo polacco come un retaggio medievale, Rosa vi riconosceva una
manifestazione politica borghese, frutto degli antagonismi di classe della società
capitalista moderna. Ma la sua analisi era unilaterale: l'antisemitismo non
colpiva solo la classe operaia e le sue organizzazioni ma anche (e soprattutto)
la comunità ebraica nel suo insieme. Nel 1906 Rosa aveva dato prova di
una comprensione più profonda della natura dell'antisemitismo in Polonia
e in Russia. In una pubblicazione della SDKPiL essa scriveva che il regime zarista,
"per secoli interi", aveva perseguitato le minoranze nazionali con
una legislazione discriminatoria e aveva "aizzato i bassifondi della società
contro gli Ebrei della Russia meridionale, della Polonia e della Lituania".
Si potrebbe trarre la conclusione che Rosa considerava l'antisemitismo un fenomeno
moderno ed arcaico allo stesso tempo, frutto della particolare combinazione
di una reazione borghese anti-operaia e di un'oppressione "secolare"
sulle nazionalità esercitata da un regime assolutista.
[........]
Dall'insieme di questi testi (Lenin, Stalin, Trotsky, Luxemburg, n.d.t.)
emergono, pur con differenti accenti, alcuni elementi comuni: a)
una critica decisa e intransigente dell'antisemitismo (con l'eccezione di Stalin),
priva delle ambiguità e delle reticenze che [...] si ritrovano in un
gran numero di marxisti tedeschi e austriaci; b) il rifiuto - malgrado
incertezze e variazioni nelle definizioni - di affrontare nella sua dimensione
nazionale la questione ebraica in Russia; c) infine l'idea dell'integrazione
intesa ugualmente come strategia politica e come naturale tendenza dello sviluppo
storico. Il carattere a priori di questo orientamento si rivelava, per
così dire, in negativo. I marxisti russi e polacchi non si posero mai,
nei loro scritti, il problema di sapere se gli Ebrei dell'impero zarista volevano
essere integrati e in che misura questo processo fosse realizzabile. L'integrazione
era semplicisticamente proposta sul modello della storia dell'Europa occidentale.
Ciò che più colpisce, in tutti questi scritti, è la totale
assenza di riferimento alla realtà - in verità estremamente ricca
e complessa - delle comunità ebraiche della Russia. Ai loro occhi la
letteratura yiddish e la storia degli Ebrei rimasero sempre un continente inesplorato:
la cultura ebraica non poteva oltrepassare l'orizzonte ristretto del ghetto
feudale e non poteva che essere monopolizzata dai rabbini. La questione ebraica
era esclusa da ogni considerazione nazionale, era piuttosto un aspetto dell'arretratezza
e della "barbarie asiatica" dell'assolutismo russo. In questo contesto
l'integrazione assumeva un carattere per così dire normativo, essendo
l'inevitabile risultato dello sviluppo industriale e sociale del paese.
Gli Ebrei e la Rivoluzione russa (1917 - 1937)
La caduta del potere degli Zar, nel marzo 1917,
fu accolta dagli Ebrei russi come un grande avvenimento che segnava la fine
delle loro sofferenze e l'inizio di una nuova era di liberazione. Una delle
prime misure adottate dal governo provvisorio fu la soppressione della legislazione
antisemita in vigore sotto il vecchio regime: un insieme di seicentocinquanta
leggi restrittive dei diritti civici della popolazione ebraica, come ricorda
Trotsky nella sua Storia della Rivoluzione russa. Peraltro gli Ebrei
restarono, in un primo momento, piuttosto sospettosi nei confronti della rivoluzione
d'Ottobre, che si svolgeva a Pietrogrado, lontano dalle zone d'insediamento,
e che aveva per protagonista un "blocco storico" - il proletariato
industriale e i contadini russi - al quale la comunità ebraica restava
ampiamente estranea. Il decreto sovietico che distribuiva la terra ai contadini
non aveva interesse per gli Ebrei, fortemente urbanizzati e tradizionalmente
assenti dalle attività agricole. Peraltro i soviet operai erano inconcepibili
per i lavoratori e gli artigiani Ebrei di Vilnius e di Byalistock.
Nel giugno 1918 le elezioni per le organizzazioni delle comunità ebraiche
(kehillot) confermarono l'egemonia sionista in seno alla popolazione
israelita e, a sinistra, la preponderanza del Bund, la cui ottava conferenza
nazionale (dicembre 1917) aveva condannato la rivoluzione d'Ottobre. Questa
diffidenza verso il potere sovietico trovava un'altra spiegazione nella quasi
totale assenza d'intervento politico dei bolscevichi all'interno del movimento
operaio ebreo. Come ha notato Henri Sloves, "quello che si chiamava curiosamente
in Russia la "via ebrea" (vago ricordo di un antico ghetto) era per
il Partito bolscevico una terra incognita".
Nel 1918 il commissariato del popolo per gli Affari nazionali, presieduto da
Stalin, creò una sezione ebraica. Simon Dimanstein, un vecchio bolscevico
che conosceva lo yiddish ma non aveva mai partecipato alla vita politica del
proletariato ebreo, ne prese la direzione. Per porre rimedio alla carenza di
militanti provenienti dal movimento operaio ebreo, fece appello alla collaborazione
di Samuel Agurskj, un socialista conquistato al bolscevismo dopo il suo ritorno
dagli Stati Uniti. La prima pubblicazione in yiddish del Partito comunista,
il settimanale Wahreit (la Verité), apparso nel marzo 1918,
sei mesi dopo la rivoluzione, si trasformò in breve in quotidiano, cambiando
titolo in Der Emess (la Verité, termine yiddish di origine
non più ebraica ma germanica). La pubblicazione di un quotidiano yiddish
poneva numerose difficoltà, a causa della grande carenza nel partito
di giornalisti capaci di scrivere in questa lingua; per cui la maggior parte
degli articoli erano tradotti dal russo. Nell'ottobre 1918, sempre sotto la
direzione di Dimanstein, fu fondata la sezione ebrea del Partito comunista,
divenuta celebre sotto il nome di Yevsectsia, che aveva il compito di
conquistare il mondo ebraico alla dittatura del proletariato. In breve la Yevsectsia
si assumerà la gestione della politica del governo sovietico in merito
alla questione ebraica.
Durante la guerra civile, fra il 1918 e il 1921, la comunità ebraica
passò gradualmente da un atteggiamento di diffidenza, quando non di ostilità,
alla sostanziale adesione al regime sovietico. All'origine di questa evoluzione
possono essere individuati quattro elementi:
a) L'antisemitismo della contro-rivoluzione. L'Ucraina, che nel 1917
era stata laboratorio dell'autonomia nazionale culturale ebraica (il socialista
territorialista Zybelfarb aveva diretto il ministero degli Affari ebraici nel
governo di Petlioura), durante la guerra civile fu investita da un'ondata di
pogrom di violenza fino ad allora sconosciuta. Le truppe di Denikin e Wrangel
avevano tentato di servirsi dell'antisemitismo come arma di lotta contro il
potere sovietico. Si è calcolato che l'Ucraina sia stata teatro di duemila
pogrom, che colpirono circa un milione di Ebrei e fecero fra settantacinquemila
e cento cinquantamila vittime. In questa situazione disperata, la popolazione
ebrea vide nell'Armata rossa la sola possibilità di salvezza. Anche se
perfino alcune sue unità si lasciarono andare a dei pogrom, come testimonia
Isac Babel in Cavalleria rossa, si trattava nella maggior parte dei casi
di truppe che avevano già combattuto con Denikin e che in un secondo
tempo erano passate nell'altro campo. Trotsky punì tre reggimenti accusati
di avere organizzato dei pogrom e cercò in tutti i modi d'impedire che
simili episodi si ripetessero. Numerosi giovani Ebrei si arruolarono nell'Armata
rossa ormai sentita come la salvezza per tutti gli Ebrei, anche dai più
ostili alla rivoluzione e al bolscevismo.
b) La difesa degli Ebrei condotta dai soviet. La rivoluzione dette prova
fin dall'inizio di un'incrollabile volontà di lotta contro l'antisemitismo.
L'elezione di Jakov Sverdlov, dirigente bolscevico di origini ebrea, alla presidenza
della Repubblica fu un atto di coraggio di cui nessuno sottostimò l'importanza:
era una dichiarazione di guerra all'antisemitismo e la sua identificazione con
la contro-rivoluzione. Lo zarismo era stato sostituito da un regime rivoluzionario
che eleggeva un Ebreo a sua supremo rappresentante: nessun Ebreo poteva restare
indifferente di fronte a tale ribaltamento. Nel luglio 1918 un decreto del Consiglio
dei commissari del popolo, firmato da Lenin, condannava l'antisemitismo e i
pogrom "come un pericolo mortale per tutta la rivoluzione, una minaccia
per gli interessi degli operai e dei contadini", e chiamava "le masse
lavoratrici e la Russia socialista a combatterli con tutte le forze". Il
decreto ordinava a tutti i soviet provinciali di "prendere le più
severe misure per sradicare il movimento antisemiti e aggiungeva che "i
pogromisti e tutti coloro che fomentano pogrom" erano dei fuorilegge. L'antisemitismo
non era più combattuto in quanto problema specificamente ebraico, ma
come un problema più generale, di Stato, collegato alla sopravvivenza
stessa della rivoluzione. Da un lato la contro-rivoluzione, che massacrava gli
Ebrei; dall'altro i soviet, che facevano dell'emancipazione ebrea una bandiera
e adottavano una legislazione contro l'antisemitismo: di fronte ad una simile
alternativa, la scelta degli Ebrei russi non era affatto difficile.
c) La conquista dell'intellighenzia. La costruzione di una nuova struttura
statale fu disseminata di ostacoli, perché il settore più politicizzato
della classe operaia era impegnato nello sforzo militare e i vecchi funzionari
boicottavano le nuove autorità. Restavano gli Ebrei: una vasta riserva
di energie intellettuali che lo zarismo aveva sempre represso e discriminato.
La rivoluzione trasformò l'intellighenzia ebraica, pletora di paria umiliati
e perseguitati del vecchio regime, in un'elite chiamata a svolgere un ruolo
di primo piano nella costruzione del socialismo. Gli Ebrei entrarono in massa
nella struttura statale, nelle università e nelle professioni liberali.
Nel 1927, dieci anni dopo la rivoluzione, essi rappresentavano l'1,8% della
popolazione totale dell'URSS ma costituivano il 10,3% dei funzionari dell'amministrazione
pubblica di Mosca, il 22,6% in Ucraina, e il 30% in Bielorussia. Il sociologo
Victor Zavlavsky ha definito la situazione degli Ebrei nella Russia rivoluzionaria
come il "primo esempio storico di coerente applicazione del principio della
"discriminazione al contrario", basata sul coinvolgimento etnico".
La conquista dell'intellighenzia fu un elemento decisivo per indurre la comunità
ebraica nel suo insieme ad un atteggiamento di sostegno al potere sovietico.
d) La trasformazione del socialismo ebraico. La rivoluzione d'Ottobre
provocò una crisi profonda in seno al movimento operaio ebreo dove nacquero
importanti correnti favorevoli al bolscevismo. Nel 1919 la fondazione dell'Internazionale
comunista polarizzò le tendenze più radicali del proletariato
ebreo e indusse una sequenza di fusioni e scissioni che si risolse nel 1921
con l'integrazione della maggio parto delle organizzazioni della sinistra ebraica
nella Yevsectsia del Partito comunista. Il Bund era spaccato in una coerente
socialdemocratica (V. Medem, R. Abramovitch) e i sostenitori della rivoluzione
bolscevica, che fondarono un "Bund comunista" (Kombund) ucraino
nel 1919. L'anno seguente si svolse a Mosca la dodicesima conferenza nazionale
del Bund: la maggioranza, facente capo a Moshé Rafes e Aleksandr Chemeritsky,
dichiarò il proprio sostegno al potere sovietico, lanciò un appello
a tutti i lavoratori ebrei per l'arruolamento nell'Armata rossa e chiese l'adesione
a Comintern in quanto organizzazione autonoma e nazionale del proletariato ebreo.
In sostanza il Bund chiedeva l'integrazione nell'Internazionale senza rinunciare
al suo programma di autonomia nazionale ebraica. Ancora una volta il federalismo
bundista entrò in conflitto con il centralismo bolscevico: i militanti
del Bund aderirono individualmente al Partito comunista. I sionisti-socialisti
e il SERP imboccarono lo stesso cammino: nel 1917 si fusero in un Partito socialista
operaio ebreo unificato, conosciuto sotto il nome di Farainikte; nel
1919 dettero vita con il Bund ad un'Alleanza comunista (Komunistishe Farband)
in Ucraina e Bielorussia; infine nel 1921 confluirono nella Yevsectsia.
Il Poale Tsion si scisse nel 1920 fra destra socialdemocratica, pronta ad aderire
alle organizzazioni sioniste ufficiali, e una sinistra comunista, che si batté
invano per essere ammessa al Comintern senza mettere in discussione il suo orientamento
sionista. I militanti del Poale Tsion organizzarono nell'Armata rossa un reggimento
che portava il nome di Borokhov, ma non fu certo in quanto sionisti che poterono
entrare nel Partito comunista. In preda ai conflitti ideologici e vacillante
sul piano organizzativo, il movimento operaio ebreo subì un serio indebolimento
- ad esempio il numero dei militanti bundisti passò da trentatremila
nel 1917 a undicimila nel 1921 - ma i suoi quadri più significativi (eccetto
la Polonia) si ritrovarono alla fine nella cornice dell'Internazionale comunista:
la forza di attrazione della rivoluzione d'Ottobre era tale da averla vinta
sulle divergenze teoriche e politiche. Detto questo, oggi si è obbligati
a riconoscere che, aderendo individualmente al Partito comunista, i rivoluzionari
ebrei dovettero rinunciare a una gran parte della propria identità.
Nei primi dieci anni seguenti all'Ottobre i bolscevichi fanno in larga misura propri i programmi di autonomia nazionale del Bund e degli austro-marxisti (paradossalmente Stalin era commissario del popolo per gli Affari nazionali), utilizzando come strumento la Yevsectsia. Ne consegue una notevole valorizzazione della lingua yiddish (lingua ufficiale in Ucraina e Bielorussia dal 1917), uno sviluppo senza precedenti della letteratura in questa lingua e delle istituzioni culturali (biblioteche, case editrici, giornali, riviste, teatri, ecc.).
Tuttavia, forse per estrema conseguenza di una
mancanza di comprensione già ravvisabile nella teoria del Bund, la Yevsectsia
prese la responsabilità di chiudere le scuole e di cancellare le
pubblicazioni in ebraico. S'intendeva così reprimere la religione e di
costruire una nazione ebraica (yiddish) moderna, isolata dalla sua tradizione
e anche dalla sua storia. L'interdizione dell'ebraico colpì tanto i sionisti
quanto gli Ebrei ortodossi. Questo fatto getta luce sulla contraddizione più
importante che segnò tutta l'esperienza della Yevsectsia , che
gestiva la vita culturale degli Ebrei secondo metodi consoni ad un dispotismo
illuminato più che alla democrazia sovietica. La Yevsectsia poteva
disporre di una grande forza morale - rappresentava la rivoluzione vittoriosa
nel mondo ebreo - ma il suo potere non era l'emanazione diretta della comunità
ebraica che non ebbe mai la reale possibilità di autogestirsi. Nata sulle
ceneri del pluralismo politico che aveva caratterizzato tutta la storia del
movimento operaio ebreo in Europa orientale, la Yevsectsia non riuscì
ad evitare una pratica sostitutiva (a fronte di un'autonomia nazionale che non
fu mai pienamente realizzata) e burocratica (con la repressione che esercitò
sulle organizzazioni sioniste e sulle istituzioni religiose).
Pur lodando gli sforzi compiuti dai soviet per liberare gli Ebrei dall'oppressione
secolare, Joseph Roth riconobbe a partire dal 1927 i limiti dell'azione intrapresa
dalla Rivoluzione russa nel mondo ebraico. Egli si domandava se i bolscevichi
avessero realmente compreso la natura della questione ebraica, quando pretesero
di creare una nazione ebrea moderna dissociandola completamente dal suo passato
e dalla sua identità storica, di cui la religione era un elemento insostituibile.
A suo dire, la rivoluzione non si poneva "l'antica domanda, la più
importante: gli Ebrei sono una nazione come le altre? È possibile considerare
"popolo", indipendentemente dalla sua religione, un popolo che per
millenni non è sopravvissuto in Europa che grazie alla propria religione
e alla propria condizione eccezionale? È possibile, nel caso specifico,
separare la nazionalità della Chiesa? È possibile trasformare
in contadini uomini che hanno interessi intellettuali radicati da generazioni,
d'instillare una psicologia di massa in uomini dotati di forte individualità"?
Se il riconoscimento dell'identità etnico-nazionale di un popolo, negandone al contempo la storia, può essere imputato alle contraddizioni della politica sovietica, resta il fatto che il contesto sociale della yiddishkeit muta radicalmente. Durante la guerra civile i pogrom creano centinaia di migliaia di profughi e di esiliati, il comunismo di guerra sopprime il piccolo commercio e l'intellighenzia si integra nella struttura statale, finché, con i primi piani quinquennali (dal 1928), gran parte della popolazione ebrea subisce un processo di proletarizzazione. Le trasformazioni socio-economiche indotte dalla rivoluzione sono tali che il mondo ebraico e le sue espressioni culturali ne sono profondamente modificate: se lo yiddish ha acquisito dignità di lingua culturale, la yiddishkeit, culla e nutrimento della lingua, non esiste più.
Negli anni trenta la burocratizzazione dell'URSS arrestò questo tentativo di valorizzazione della cultura ebraica. Il "Termidoro" sovietico soffocò il dibattito nel Partito comunista e soppresse ogni forma di democrazia sovietica, producendo anche una riaffermazione del nazionalismo pan-russo. Gli Ebrei ne furono vittima come tutte le altre azioni allogene dell'URSS. Alla fine degli anni trenta scuole, teatri, giornali, case editrici yiddish furono chiuse. Come scrivono Alain Brossat e Sylvia Klingberg, "l'insieme delle conquiste "nazionali" e "democratiche" della popolazione ebrea furono azzerate". Nel 1930 la Yevsectsia fu soppressa e, durante le sanguinose repressioni che seguirono i processi di Mosca, quasi tutti i suoi dirigenti furono giustiziati come "trotskisti" e "bundisti- trotskisti". Già verso la fine degli anni venti, Stalin aveva utilizzato temi antisemiti nella lotta contro l'Opposizione di sinistra (che annoverava molti Ebrei ed era fortemente rappresentata nella Yevsectsia). La costruzione del "socialismo in un solo paese" non aveva bisogno del contributo dei rivoluzionari ebrei, internazionalisti e, per definizione, "cosmopoliti senza radici". Nel 1937 Trotsky accusò apertamente Stalin di fomentare una nuova ondata di antisemitismo in URSS, sottolineando che la restaurazione del nazionalismo pan-russo non poteva che favorire la rinascita dei pregiudizi antisemiti tuttora latenti: "Se Stalin - scriveva - ha organizzato a Mosca processi in cui si accusano i trotskisti di avvelenare i lavoratori, non è difficile immaginare quali immondi abissi può raggiungere la burocrazia nei più sperduti angoli dell'Ucraina e dell'Asia centrale".
Nel 1928 il governo sovietico (senza coinvolgere la Yevsectsia) dà corso al progetto di colonizzazione del Birobidjan (regione desertica e disabitata della Siberia), inviandovi gli Ebrei sotto pretesto di dare base territoriale all'unica nazione dell'URSS che ne era priva, omettendo qualsiasi preventiva consultazione della popolazione interessata. Il progetto, sotto copertura ideologica di marca prettamente sionista, risponde in realtà alla volontà di creare un argine alla pressione espansionista giapponese ad oriente, per quanto il Presidente della Repubblica, Kalinine, lo presenti come una garanzia a tutela della cultura ebraica socialista e nazionale.
La realtà fu assai diversa: fra il 1928 e il 1933, su circa ventimila Ebrei partiti per il Birobidjan, solamente poco più di ottomila decisero di restarvi; quando nel 1934 fu proclamata la regione autonoma ebraica, istituzione di Stato in base alla Costituzione sovietica, gli Ebrei non rappresentavano neanche il 20% della popolazione. Nel 1937 l'amministrazione regionale si esprimeva di nuovo esclusivamente in russo e il nuovo presidente, M. Koteles, chiamato a prendere il posto di Liberberg appena giustiziato come trotskista, non conosceva lo yiddish. Lo Stato ebraico dell'Unione sovietica non era più che una farsa.